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Praticamente un po’ come il peperoncino calabrese! Una piantina su ogni balcone!

E’ la rivoluzione del green.

Le sezioni unite della cassazione ha dichiarato che la coltivazione di marijuana, ma in generale di piante da cui sono ricavabili sostanze stupefacenti, è depenalizzata se indirizzata al solo consumo personale

 

 

 

 

Le Sezioni unite scrivono che devono essere considerate escluse dall’area del penalmente rilevante «le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore».

Il grande regalo di Natale a tutti i consumatori italiani.

La decisione delle Sezioni unite, intervenuta su un caso di coltivazione di 2 piante di marijuana (una alta 1 metro con 18 rami, l’altra alta 1,15 metri con 20 rami) pone fine a un contrasto interno alla stessa Cassazione e alle Sezioni semplici.

Secondo un primo orientamento per potere fare scattare il reato previsto dall’articolo 28 del Testo unico sugli stupefacenti (Dpr n. 309 del 1990) non è sufficiente la semplice coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, ha raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è necessario verificare se questa attività è in concreto idonea a compromettere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.

Secondo un altro orientamento, invece, la capacità offensiva della condotta di coltivazione consiste nella sua idoneità a produrre la sostanze per il consumo.

Secondo questa linea interpretativa, non ha importanza la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la semplice conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente, con l’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza drogante.

Felice il senatore Mantero del M5s

Pubblicato in Italia

SCALEA – 31 ott. 19 - La Corte di Cassazione ha scritto la parola fine a distanza di quattro anni e cinque mesi sull’operazione denominata convenzionalmente Plinius 2.

Si tratta dell’attività dei carabinieri della compagnia di Scalea, del 21 maggio 2015, ritenuta come una sorta di prosecuzione della precedente operazione Plinius del 12 luglio 2013, che aveva colpito l’amministrazione in carica in quel periodo ed esponenti della malavita locale.

La sesta sezione della corte di Cassazione si è pronunciata definitivamente al termine dell’udienza di martedì.

La corte ha rigettato alcuni ricorsi, quelli di: Ettore Arcuri, 42 anni di Scalea; Raimondo Barbaro, 67 anni di Napoli; Franco Cipolla, 58 anni di Cetraro; Giuseppe Crusco, 49 anni, di Scalea; Gian Claudio Lombardo, 31 anni di Scalea; Guido Maccari, 37 anni di Cetraro; Giuseppe Misiano, 44 anni di Scalea; Alessandro Stummo, 32 anni di Scalea; tutti condannati, fra l’altro, al pagamento delle spese processuali.

La Corte di Cassazione ha poi dichiarato inammissibili i ricorsi di Ferdinando Aliberti, 37 anni di Scalea; Anthony Johnny Della Montagna, 29 anni di Scalea; Edone Esposito, 32 anni di Scalea; Gaetano Favaro, 34 anni di Belvedere; Emilio Iacovo conosciuto come “Miliuzzo lo stalliere” 56 anni, di Cetraro; Carmelo Valente detto “testa bianca”, 55 anni di Scalea; Luigino Valente, 38 anni di Scalea; questi ultimi condannati al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di duemila euro in favore della cassa delle ammende.

Il 13 luglio dello scorso anno, la Corte d’Appello di Catanzaro aveva rideterminato la pena a: Franco Cipolla, condannato a 4 anni di reclusione e 2000 euro di multa; in primo grado la condanna era stata ad un anno; a Guido Maccari, 3 anni, 9 mesi e 23 giorni, oltre a 2.400 euro di multa; in primo grado la condanna era stata di: 3 anni, 5 mesi e 20 giorni; per Raimondo Barbaro, in ordine ad alcuni reati era stata confermata l’estinzione per intervenuta prescrizione; in ordine ad un ulteriore capo di imputazione era stata rideterminata la pena inflitta in 4 anni, 8 mesi e 20 giorni e 2.200 euro di multa; in primo grado la decisione era stata per una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Con la riqualificazione del reato, la corte d’Appello aveva deciso anche la pena per Ettore Arcuri, condannato a 8 anni e 4 mesi di reclusione; in primo grado la pena inflitta era a 8 anni di reclusione. Per Giuseppe Crusco la pena inflitta in Appello era di 8 anni e 8 mesi; in primo grado erano stati inflitti 9 anni. Per Gian Claudio Lombardo, la pena decisa era di 4 anni di reclusione e 2000 euro di multa; in primo grado la condanna era ad un anno di reclusione. Giuseppe Misiano, era stato condannato a 5 anni e 8 mesi e ad una multa di 2200 euro; nella precedente decisione la condanna era a 5 anni e 4 mesi. Alessandro Stummo era stato condannato a 4 anni e 4 mesi e ad una multa di 2.200 euro; nel precedente grado di giustizia la pena era di un anno. I giudici d’Appello avevano confermato la sentenza di I grado impugnata: Ferdinando Aliberti, 8 anni di reclusione; Antony Johnny Della Montagna, 7 anni e 4 mesi; Esposito Edone, 7 anni e 4 mesi; Gaetano Favaro, 3 anni e 4 mesi; Emilio Iacovo, 6 anni e 8 mesi; Carmelo Valente, 10 anni e 8 mesi; Luigino Valente, 7 anni e 4 mesi.

Miocomune

Pubblicato in Alto Tirreno

Anche la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte D’Appello ed ha detto no al maxi assegno legato al divorzio tra il Cavaliere e Veronica Lario rigettando il ricorso dell’ex consorte di Silvio Berlusconi

MILANO – Era l’ultimo grado di giudizio che ha chiuso definitivamente la contesa milionaria tra Silvio Berlusconi e l’ex moglie Veronica Lario, confermando il no al maxi assegno milionario chiesto dalla Lario.

 

 

 

Con la sentenza del 30 agosto 2019 gli ermellini hanno di fatto confermato la sentenza della Corte d’Appello di Milano emessa a novembre 2017, con la quale che aveva azzerato l’assegno di divorzio, rigettando integralmente il ricorso presentato dalla ex moglie.

Veronica Lario dovrà restituire 46 milioni più interessi, quantificabili in almeno 15 milioni a Silvio Berlusconi.

Il Tribunale di Monza aveva stabilito nel 2013 un mantenimento mensile di 1,4 milioni.

Nel 2014 Lario aveva addirittura avanzato una richiesta di 540 milioni di euro per chiudere i contenziosi intorno al loro matrimonio.

Una cifra che il cavaliere ha rispedito al mittente.

Nel 2017, dopo la sentenza che annullava il mantenimento, la Lario aveva presentato ricorso in Cassazione, motivando di aver “rinunciato in giovane età alla carriera di attrice per dedicarsi interamente alla casa, alla famiglia e ai tre figli“.

Ora la Suprema Corte ha accolto le ragioni del legale dell’ex premier, Pier Filippo Giuggioli, che ha sostenuto che Berlusconi aveva ampiamente assolto ai propri obblighi di assistenza economica in favore della Lario già in corso di matrimonio, costituendo in suo favore un patrimonio mobiliare ed immobiliare di eccezionale valore.

I giudici hanno evidenziato che “le varie acquisizioni economico patrimoniali pervenute alla ricorrente durante il matrimonio hanno compensato anche il sacrificio delle sue aspettative professionali”, soprattutto alla luce della loro “composizione, entità e attitudine all’accrescimento”, come aveva già stabilito la Corte d’Appello.

Berlusconi in pratica ha ampiamente assolto ai propri obblighi di assistenza economica in favore della ex moglie già in corso di matrimonio, costituendo in suo favore un patrimonio mobiliare ed immobiliare di eccezionale valore.

Stessa cosa non poteva dirsi per Veronica Lario, ha osservato la Corte, la quale non ha contribuito in misura alcuna alla fortuna dell’ex marito.

Pubblicato in Italia

Una interessantissima e poco conosciuta sentenza della Corte di Cassazione che sconfessa i due primi due gradi di giudizio e l’ipocrisia sociale di certi giudizi.

E’ il caso di leggere integralmente questo pregevole articolo di dottrina e di cultura :

 

“Un caratterizzante tema di indagine per gli operatori del Diritto odierno è costituito dall’incidenza della cultura d’origine dello individuo sulla considerazione di ciò che costituisce, invece, fatto penalmente rilevante nel territorio dello Stato che lo accoglie ed ospita.

Esistono usi e costumi in altre popolazioni che possono integrare fattispecie di reato se attuati nel territorio dello Stato italiano.

Orbene, il Diritto è certamente cultura e, parimenti, ogni cultura si evolve ed adegua al confronto della sensibilità tra esseri umani, al punto da indurre a ripensare sovente gli stessi paradigmi costitutivi di una fattispecie di reato.

Tale processo di rinnovamento del Diritto (penale nello specifico) si muove all’interno di una composita tendenza, capace di abrogare obsolete fattispecie di reato (si pensi ai delitti di opinione frutto di un vecchio passato) oppure a crearne di nuove, più al passo coi tempi e, soprattutto, al passo con nuove forme di aggressione a emergenti beni giuridici.

Il caso dei reati culturalmente orientati pone l’accento su quei costumi od usanze praticati da persone provenienti di uno Stato estero che, tuttavia, costituiscono ipotesi penalmente sanzionate nel nostro Ordinamento Giuridico.

In questi casi, per la Giustizia del Paese ospitante è necessario scandagliare il grado di consapevolezza dell’antigiuridicità da parte di chi compie un atto perché frutto della propria esperienza nel paese d’origine, per ragioni di matrice storica, culturale e religiosa.

Se la consapevolezza sulla illiceità non sussiste va escluso l’elemento soggettivo della commissione di quello che si considera fatto di reato.

Per uno Stato democratico che può aderire ad una concezione tripartita del reato (fatto, antigiuridicità e colpevolezza), la domanda è la seguente: vale la scriminante culturale per lo straniero che commette un reato?

È di tutta evidenza come sia necessario porre l’accento sulla consapevolezza di commettere un reato ponendo in essere condotte che nel paese di origine costituiscono consolidate estrinsecazioni di appartenenza sociale.

Molto interessante, il caso che vedeva alcuni imputati di origine straniera essere tratti a giudizio poiché in violazione degli articoli 609 bis e 609 ter cod. pen., in più occasioni, abusando delle qualità di genitori, costringevano il figlio minore, con violenza, al compimento di atti che per lo Stato vanno considerati di natura sessuale.

In questo caso, i giudici di primo grado avevano escluso la rilevanza penale di tali fatti per insussistenza del dolo, sulla considerazione dirimente del retaggio culturale della famiglia.

I giudici hanno considerato i fatti meri gesti di affetto e di orgoglio paterno verso il figlio maschio tipici della tradizione culturale di estrazione.

Segnatamente, per tale episodio, tuttavia, è stata adita la Corte di cassazione che, stravolgendo le sentenze di assoluzione di primo e secondo grado, ha fissato i veri paletti del confronto culturale tra l’Ordinamento giuridico italiano e i costumi sociali di appartenenza dello straniero.

Nello specifico, è noto che nel nostro sistema giuridico penalistico, viga anche l’art. 5 del codice penale, che rammenta come non possa essere invocata a propria difesa l’ignoranza della legge penale, a meno che (come ricorda la Corte costituzionale) tale ignoranza non sia stata inevitabile. Tuttavia, prescindendo dal riferimento all’art. 5 del codice penale, la questione si gioca tutta sul terreno del bilanciamento tra il diritto del soggetto a seguire le proprie tradizioni e le conseguenze penali della sua condotta, rilevanti per lo Stato italiano che non abdica né può abdicare alle proprie prerogative di cogenza e deterrenza.

Come è agevole comprendere, in un Ordinamento intriso dell’assiologia costituzionale che pone al centro il “bisogno” di solidarietà umana, è certamente la sfida dei tempi moderni coordinare le istanze dell’altrui cultura con i paradigmi costitutivi dell’attuale Stato di diritto, “obbligato” a garantire l’integrazione anche mediante la pretesa di adesione al patto sociale che si basa sulla convenzionale idea di convivenza.

Avvocato Francesco Bernardo

Pubblicato in Cronaca

Per la Suprema Corte, le condotte dell’ex presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia sono di estrema gravità

E' stata confermata dalla Cassazione la rimozione dalla magistratura di Patrizia Pasquin, ex presidente del Tribunale civile di Vibo Valentia condannata in via definitiva per corruzione in atti giudiziari a due anni e otto mesi di reclusione.

La Suprema Corte hanno infatti respinto - con il verdetto 22427 depositato oggi - il ricorso della Pasquin contro l'espulsione dall'ordinamento giudiziario deciso nei suoi confronti dal Consiglio superiore della magistratura con decisione depositata il 28 luglio 2017.

Ad avviso della Cassazione, non merita obiezioni la pronuncia disciplinare del Csm che "ha rilevato l'estrema gravità dei fatti, evidenziando che il reato di corruzione in atti giudiziari commesso da un magistrato costituisce una condotta che attinge al massimo livello di intollerabilità da parte dell'ordinamento, qualunque e di qualunque entità ne sia l'utile che se ne trae, ed è fonte di discredito per la magistratura".

Nel caso della Pasquin, secondo i giudici, il verdetto del Csm non ha riscontrato "alcun elemento idoneo a fornire una qualche parvenza di giustificabilità nel comportamento dell'incolpata, tale da indurre ad una riflessione sull’eventualità di una graduazione della sanzione".

Patrizia Pasquin, tra l'altro, "con atti contrari ai doveri di ufficio" - ricorda la Cassazione - aveva favorito una persona a lei legata da "stretti rapporti personali" in un procedimento, la cosiddetta vicenda 'Ventura', nel quale avrebbe dovuto astenersi dalla trattazione di una procedura fallimentare che riguardava il suo conoscente, "ricevendo in compenso continuative forniture di derrate" alimentari. 

Patrizia Pasquin (in foto), 64 anni, residente a Tropea, è stata presidente della sezione civile del Tribunale di Vibo Valentia e prima ancora pm alla Procura di Vibo.

Pubblicato in Vibo Valentia

Un gip milanese aveva rigettato e bollato come ingiustificato il fermo di cingalese – arrestato a gennaio dopo che aveva provato a superare i controlli dello scalo aeroportuale milanese di Linate grazie a documenti falsi, sostenendo che «l’arresto non era giustificato dalla gravità del fatto e dalla personalità dell’imputato, non essendovi alcuna motivazione a tal proposito nel verbale di arresto, e dovendosi inoltre tenere conto del fatto che l’indagato era incensurato».

La procura di Milano aveva presentato ricorso e chiesto la revisione del giudizio.

La Cassazione ha accolto il ricorso con una sentenza destinata – come sempre accade per le delibere degli ermellini – a fare giurisprudenza.

Secondo i togati di piazza Cavour, infatti, l’arresto dell’immigrato cingalese in questione era giustificato soprattutto in considerazione dell’esistenza delle norme antiterrorismo introdotte nel 2015 dopo gli attentati a Parigi, quando è stata sancita d’urgenza l’obbligatorietà dell’arresto per chi produca o venga trovato comunque in possesso di documenti falsi.

Dunque, la semplice denuncia o segnalazione a piede libero non è più sufficiente: per chi sbarca, deambula o viene comunque intercettato con falsi documenti d’identità è previsto l’arresto.

E al di là di ogni ragionevole dubbio la suprema Corte ha stabilito che gli immigrati sorpresi in possesso di documenti falsi andranno arrestati: sempre e comunque, anche qualora successivi controlli dovessero dimostrare che si tratta di migranti economici non legati ad ambienti terroristici o segnalati in particolari liste nere.

Pubblicato in Italia

È successo ad un automobilista palermitano finito in tribunale per aver lasciato la sua auto in un'area riservata ai portatori di handicap per 16 ore e adesso condannato in Cassazione.

 

In sostanza chi parcheggia nel posto dei disabili rischia la condanna per violenza privata.

A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sulla vicenda di due cittadini palermitani.

Una complessa vicenda giudiziaria.

Un automobilista palermitano era finito in tribunale per aver lasciato la sua auto in un’area riservata ai portatori di handicap per 16 ore.

Pochi giorni fa condannato la Cassazione lo ha condannato a 4 mesi di carcere.

La vicenda ha avuto inizio ben 8 anni fa, nel maggio 2009.

Il protagonista è il sig Mario Milano di 63 anni.

La donna che lo ha querelato è una disabile di 49 anni, che aveva un parcheggio sotto casa assegnato nominalmente (con il suo numero di targa).

E' successo tutto di mattina, quando la donna, stanca, decide di rientrare a casa(ha problemi fisici gravi).

Individua il suo parcheggio ma trova il suo posto occupato.

Erano circa le 10.30.

Telefona ai vigili che però non possono intervenire perché sono tutti impegnati in una riunione.

Poi si rivolge ai carabinieri di zona.

Passano le ore, finisce il giorno, arriva la notte.

Soltanto alle 2.30 del mattino l'auto "abusiva" viene finalmente caricata sul carroattrezzi e portata via.

La donna decide di querelare il proprietario della macchina.

Parte un iter processuale infinito. Un iter che si è concluso adesso.

Parcheggiare nello spazio per i portatori di handicap è un reato.

Violenza privata.

È la prima volta che accade.

Una sentenza destinata a fare scuola.

Pubblicato in Italia

Che strana questa stampa e questo mondo del web!

Tutti prontissimi a scrivere e commentare della vicenda “Nepetia” quando occorse, quando ci furono gli arresti, tutti incredibilmente silenziosi ora

 

 

che si conclude con una serie sempre maggiore di sentenze assolutorie .

A distanza di un giorno salvo la Gazzetta ed il Quotidiano sul web troviamo( almeno sino a questo momento) qualcosa soltanto su “Il Velino”.

Cassazione ritiene inammissibile ricorso della Procura di Catanzaro su Tommaso Signorelli e altri tre finiti nell'inchiesta clan Gentile-Africano

Cosenza, 10:53 del 14 dicembre (AGV NEWS)

Ricorsi della Procura inammissibili.

In sintesi questa la motivazione con la quale la Cassazione ha posto la parola fine su un capitolo delicato dell’operazione ‘Nepetia’ e confermando l’assoluzione dell’ex assessore comunale di Amantea Tommaso Signorelli.

Prosciolti dall’accusa anche Concetta Schettino, Franco Berardone e Antonio Coccimiglio che erano finiti nella maxi inchiesta della Dda di Catanzaro sul clan Gentile-Africano che opera nella cittadina del Tirreno cosentino.

Nel corso di quelle indagini era emersa una serie di episodi delittuosi condotti dagli uomini della cosca che spaziavano dall’estorsione, all’usura passando al traffico di droga, alla turbativa d’asta e al riciclaggio.

Per questa inchiesta e' stato condannato in via definitiva il presunto boss del clan Tommaso Gentile Inoltre la Corte di Cassazione ha stabilito la prescrizione del reato per altre due persone coinvolte in quell’inchiesta (Angela Marano e Gianluca Coscarella) mentre ha accolto il ricorso della Procura di Catanzaro nei confronti di Giovanni Amoroso e Paolo Launi accusati di turbativa d’asta.

Perché questo silenzio?

Lo ha stabilito la Cassazione oggi pomeriggio.

Tommaso Signorelli non è responsabile di alcun reato connesso con il processo Nepetia.

 

Una vicenda che ebbe inizio nel dicembre 2007, or sono nove anni.

Poi il 29 ottobre 2012 al termine del processo di primo grado scaturito dall’operazione Nepetia in primo grado il tribunale di Paola condannò l’ex assessore del Comune di Amantea, Tommaso Signorelli, a 6 anni di reclusione.

 

Una sentenza completamente ribaltata in secondo grado quando il 18 febbraio 2015, dopo che il Procuratore Eugenio Facciolla al termine della sua lunga requisitoria aveva fatto cadere il reato di Associazione a delinquere di stampo mafioso, per giungere, tutt’al più al reato di concorso esterno, pur mancando gli elementi probatori, i giudici avevano mandato assolto l’ex assessore amanteano.

“Una sentenza che aveva posto fine ad una dolorosa vicenda processuale che ha macchiato non solo la sua persona ma anche la città che ne è uscita sporca, viziata”.

 

Parole, queste, che lui ha riferito felice ai suoi più intimi amici di Amantea e che ci sono state riportate.

Perché Tommaso Signorelli ci sperava in questa assoluzione.

Ma non bastò perché la procura fece ricorso alla sentenza e il processo si portò fino alla suprema corte.

E stasera la conferma dell’assoluzione definitiva da parte della Cassazione.

Un calvario durato 9 lunghi anni.

Nove anni di dolore, di lacrime, ma anche di amici che non gli hanno mai fatto mancare il loro affetto

9 anni di isolamento politico con una brillante carriera davanti che si è chiusa solo per via del processo Nepetia.

E per questo quando il su avvocato gli ha datola bella notizia Tommaso è stato vinto da un lungo irrefrenabile pianto che ha commosso non solo la sua famiglia ed i suoi parenti ma anche i tanti amici presenti nelle sua casa.

 

Tommaso Signorelli così esce "a testa alta" dal processo Nepetia. E per lui domani sarà un altro giorno

Pubblicato in Politica

Parliamo, ovviamente, di Carlo Samà amministratore delegato dell’Appennino paolano durante la gestione successiva a quella di Franco La Rupa.

 

Ne avevamo dato notizia sul nostro sito il 5 luglio 2013 quando la Direzione Investigativa Antimafia di Catanzaro dispose la confisca dei beni mobili ed immobili a lui riconducibili.

All’imprenditore amanteano, attivo nel settore della raccolta dei rifiuti, condannato in via definitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso nell'ambito dell'operazione "Nepetia" vennero confiscati:

  • compendio aziendale della "Sama' Carlo srl", con sede in Amantea (CS);
  • compendio aziendale della "Servizi Ambientali srl", con sede in Amantea (CS);
  • Quote sociali e compendio aziendale della "Amagestioni srl", con sede in Amantea (CS);
  • Quote sociali e compendio aziendale della "Amambiente srl", con sede in Amantea (CS);
  • Quote sociali e compendio aziendale della "Tirreno Servizi srl", con sede in Amantea (CS);
  • Quote sociali della "Ecosud srl" con sede in Fuscaldo (CS);
  • nonche' decine di beni immobili (tra i quali spicca una quota di palazzo baronale amanteano del 1700), mobili registrati, mezzi industriali e svariati rapporti finanziari. (Roma, 5 lug 2013 AGI).

 

Allora i particolari delle indagini furono illustrati dal Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo, dal capo sezione della Dia del capoluogo calabrese, Antonino Cannarella, e dal suo vice, Ten.Col. Michele Conte.

''Il tribunale di Cosenza - disse Lombardo - a tempo di record, con decreto camerale, ha emesso il provvedimento di sequestro.

Quello di Sama' e' un modello di imprenditoria del quale la Calabria non ha bisogno.

E' emerso, infatti, un circuito perverso tra criminalita' ed economia mentre la Calabria ha bisogno di ben altro''. Durante le indagini e' emerso anche che Carlo Sama', nel 2007, ha ottenuto un prestito di 900 mila euro da un istituto di credito attraverso il quale effettuava ''attivita' speculative - hanno reso noto gli investigatori - attraverso l'acquisto di titoli o di quote societarie''.

Cannarella ha evidenziato che ''ancora una volta emerge che la 'ndrangheta punta al lucro e quindi e' la ricchezza che bisogna colpire.

La Procura distrettuale di Catanzaro sta dando ormai da tempo un grosso impulso alle indagini sui patrimoni illeciti ed il Procuratore Lombardo e' impegnato in maniera incisiva su questo fronte''.

Il Ten.Col. Conte ha ricordato come ''durante le indagini siamo rimasti colpiti dal fatto che un imprenditore, ad un certo punto della sua attivita', decide di appoggiarsi ad una cosca per incrementare i suoi profitti e per eliminare i concorrenti''. L'operazione di stamane della Dia di Catanzaro rientra nell'ambito di una apposita strategia pianificata dal direttore della Dia, Alfonso D'Alfonso, contro i patrimoni illeciti della criminalita' organizzata”.

 

Ora la Direzione investigativa antimafia di Catanzaro ha avviato l’esecuzione del decreto di confisca di prevenzione emesso dalla Corte d’Appello di Catanzaro giacchè il decreto stesso è divenuto definitivo per effetto del vaglio della Suprema Corte di cassazione.

Il procedimento in parola, venne avviato nel 2012 con il deposito di un’articolata proposta approntata dal procuratore distrettuale di Catanzaro, sulla base di puntuali accertamenti patrimoniali esperiti dal personale della Dia di Catanzaro, è poi confluito in un’autonoma proposta di applicazione di misura di prevenzione a firma del direttore della Direzione investigativa antimafia, Nunzio Antonio Ferla.

Ricordiamo che Carlo Samà fu coinvolto nell’operazione “Nepetia” contro le cosche del cosentino.

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