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Per verità, direbbe il poeta, conosciamo poco della nostra terra di Calabria ed ancor meno, aggiungo, del nostro paese, dove esistono nomi di località che lasciano spazio all’ immaginazione, evocano sogni, miti, suggestioni, invocano verità ignote e nuove certezze, pur se provocatorie.

 

Uno di questi è certamente il toponimo “Vetrioli” , in quel di Campora San Giovanni, a monte della Torre della Principessa( alla quale daremo attenzione appena possibile), a nord del Fiume Torbido, un toponimo che evoca uno sconosciuto passato che si confonde con il mito.

"Sono toponimi affascinanti forse perché simboleggiano i sogni e la meraviglia dell’ uomo di fronte all’ ignoto.

Sono rari e splendidi. Hanno la forza del vento, del mare, della terra e del fuoco".

Sono la prova di luoghi un tempo celebri, le cui tracce sono state cancellate dall’ incessante fluire del tempo.

Delle loro espressive storie resta, spesso, solo la memoria della parola.

Peraltro come dimenticare che siamo tra l’Oliva ed il Savuto, nella misteriosa terra di Temesa, svanita nel nulla e che invece appare quando la si cerca sul campo.

Parliamo degli insediamenti di Cozzo Piano Grande in Serra di Aiello, del tempio di Zancaglia (località alla quale daremo attenzione appena possibile), della villa romana scoperta là dove venne dedotta la colonia di cittadini romani nel 194 a. C.

Ci piace ricordare a tal proposito che Strabone afferma che Temesa era situata nelle immediate vicinanze di alcune miniere di rame, già alla sua epoca (I secolo a.C.) dismesse.

Peraltro appare probabile che Strabone sia stato orientato dai versi omerici, I, 182-184 dell’Odissea che sono stati diversamente tradotti.

Una traduzione dice “Or ora approdai, con nave e compagni andando sul mare schiumoso verso genti straniere, verso Temese per bronzo, e porto ferro lucente”

Un’altra, invece, dice “Coi miei nocchier le vele al vento io sciolsi, Per cammin lungo tragittando a gente Di strania lingua, e a Temesa, per cambio di fulvo rame, terso ferro io porto”.

Come dimenticare, peraltro, che siamo nei pressi dell’antico porto dell’area della Principessa.

Già! Ma perché il toponimo Vetrioli, peraltro due e non uno!

Cosa sono i vetrioli e quali sono?

I vetrioli sono composti del rame quali i solfati idrati già sopra citati.

Visivamente i due solfati si distinguono tra loro per il colore: il solfato di rame (idrato), CuSO4, è di colore azzurro intenso (vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere o copparosa azzurra) mentre il solfato di ferro (idrato), FeSO4, è di colore verde azzurro (vetriolo verde o romano o marziale o copparosa verde).

Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati sin dal 2000 a.C., e poi dagli Egizi e dai Greci, anche se certamente non sotto questo nome.

La parola vetriolo, vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII secolo d.C., e deriva dal latino classico vitreolus; forse il nome trova origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di ferro cristallizzati.

Secondo un’altra logica interpretativa del toponimo, Vetrioli potrebbe derivare dalla riscontrata presenza nella zona di numerosissime schegge di ossidiana di Lipari ,segno dei rapporti tra le isole Eolie e la Calabria tirrenica fronteggiante Stromboli.

Ossidiana usate per costruire lance e frecce ed utensili di vario tipo.

Ognuno può scegliere la ipotesi alla quale si sente più vicino.

Noi ci permettiamo questa provocazione e l’invito a camminare i luoghi.

Ringraziamo l’amico Mario Mannarino per la indicazione del toponimo, l’amico Giuseppe Sconzatesta per la planimetria dell’IGM ed alle cui ricerche ed intuizioni assegniamo un estremo valore culturale per la conoscenza del nostro paese.

Restiamo in attesa di riflessioni da parte dei lettori.

Affidiamo queste ed altre informazioni-provocazioni ai politici di Campora san Giovanni perché, consapevoli come fu Michele Vadacchino della assoluta importanza turistica di questi elementi culturali , li facciano diventare tesori per tutti.

Magari bandendo concorsi annuali di ricerca.

Giuseppe Marchese

Pubblicato in Campora San Giovanni

Lunedì 28 u.s., “Lo Scaffale” ha incontrato Alberto Fava,(nella foto) avvocato salerni tano residente a Torino, discenden te dell’antica famiglia Fava di Amantea.

A quella famiglia, ricordiamo, appar teneva Laura Procida Stocco, eroina delle memorabili giornate dell’asse dio di Amantea del 1806-07, moglie di Giulio Cesare Fava, anch’egli vittima della repressione seguita alla resa della città da parte dell’esercito francese.

Nel corso della serata, ospiti nella dimora di Gregorio Carratelli, i componenti de’ Lo Scaffale hanno dato vita ad un vivace dibattito sulle vicende storiche della Nostra città, soffermandosi in particolare sul significato e sulle conseguenze di quelle tragiche contingenze storiche.

Al saluto del padrone di casa Gregorio Carratelli, e alla presentazione della serata formulata dal presidente del sodalizio Sergio Ruggiero, è seguito l’intervento di Peppe Marchese il quale ha tratteggiato i caratteri urbanistici del quartiere Catocastro precedenti alla costruzione della Statale 18.

La questione si è posta in relazione alle antiche proprietà Fava, che proprio in quella zona, sorgevano sin dal XIV secolo.

Giuseppe Sconzatesta ha illustrato poi mappe e grafici di sua creazione del centro storico, utilissime alla comprensione della tematica trattata.

Roberto Musì ha prospettato le ragioni storiche della denominazione “Largo Fava” a Catocastro, ipotizzando, con una larga messe di informazioni, le vicende legate al toponimo.

Lo stesso Musì ha poi concentrato l’attenzione sui destini della famiglia Fava e sul suo riscatto dalle disavventure seguite alle tristi vicissitudini amanteane, delineando infine, con un breve profilo, la figura di Francesco Saverio Fava di Salerno e della sua brillante carriera diplomatica.

Il giovane Francesco Saverio, da semplice segretario di Legazione degli Affari esteri borbonico, è riuscito a diventare, all’indomani dell’Unità d’Italia, il primo ambasciatore italiano negli Stati Uniti d’America, dal 1881 al 1901.

All’incontro hanno partecipato Antonio Cima, Ciccio Svedese e Fausto Perri, che hanno offerto il loro personale contributo alla discussione, conferendo un’effervescenza di opinioni che hanno arricchito la serata, allietata da una lauta cena preparata da Pino Dolce, cuoco dalle apprezzate qualità culinarie.

Alberto Fava ha inteso infine portare la sua parola, fornendo un contributo chiarificatore su quelle lontane storie familiari e della Nostra città, di cui possiede numerosi documenti, alcuni dei quali esibiti nella circostanza.

L’amico Fava, visibilmente commosso, ha voluto suggellare la conclusione del bellissimo incontro, con la seguente espressione: Si può staccare l’uomo dalla propria terra, ma non si può staccare la propria terra dall’uomo.

Pubblicato in Cronaca
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