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Tempestivo e puntuale Francesco Gagliardi ci invia una sintesi dell’evoluzione delle elezioni dopo la pronuncia delle Corte Costituzionale. A piè dell’articolo ci siamo permessi qualche riflessione:

 

“Finalmente, dopo una lunga attesa durata mesi, la Corte Costituzionale ha votato: la legge elettorale Italicum, voluta ardentemente dall’ex Premier Matteo Renzi, è stata parzialmente bocciata.

 

Resta il premio di maggioranza per il partito che supererà la soglia del 40% dei voti.

Scompare il ballottaggio considerato anticostituzionale.

La soglia di sbarramento è del 3% per aver seggi alla Camera dei Deputati.

Restano anche i 100 capilista bloccati scelti dai partiti, ma non saranno loro, eletti in più collegi elettorali, a scegliere il collegio, bensì si procederà al sorteggio.

Gli altri Deputati verranno scelti con le preferenze, con l’alternanza di genere, fino ad un massimo di due. Il territorio italiano verrebbe diviso in 20 circoscrizioni, a loro volta suddivise il 100 Collegi. La Calabria avrà tre Collegi che eleggeranno 20 Deputati, 8 solo nel Collegio di Cosenza.

 

E gli altri Deputati cosentini che, nominati, oggi siedono in Parlamento?

Dovranno fare le valigie e sloggiare dal Parlamento e ritornare nei propri paesi e andare in cerca di una decente occupazione.

I seggi sicuri toccheranno ai capilista e a quei partiti che supereranno la soglia di sbarramento, i restanti seggi, pochissimi da dividere, proporzionalmente alle varie liste meglio classificate.

Un giornale on line così ha scritto:- La coperta è corta e i culi da riparare sono tanti-.

Se si dovesse andare a votare nella prossima primavera con questo sistema elettorale, alla Camera dei Deputati avremmo un modello proporzionale corretto, mentre per il Senato un sistema strettamente proporzionale, senza alcun premio di maggioranza.

Due leggi elettorali differenti che non consentiranno di avere la sera delle elezioni un sicuro e vero vincitore.

 

Ora che fare?

Alcuni partiti vogliono andare alle urne al più presto, magari in primavera.

Matteo Renzi ha fretta di votare perché vuole tornare al Governo e ha smania di rivincita. Farà piazza pulita di tutti quelli che hanno remato contro, perché ancora non ha digerito la cocente sconfitta del voto referendario.

 

La ferita brucia ancora.

Anche Beppe Grillo ha molta fretta perché sente finalmente odore di vittoria.

Spera che anche in Italia ci sia un effetto Trump come in America.

Mattarella e Berlusconi frenano.

Spetterà al Presidente della Repubblica sciogliere anticipatamente le Camere secondo i dettami della Costituzione e non lo farà se prima i partiti non avranno trovato un accordo.

Berlusconi frena perché non potrebbe candidarsi e questo danneggerebbe il suo partito ridotto ormai ad un lumicino.

Anche la Chiesa si è fatta sentire.

 

Il segretario della CEI Mons. Galantino ha affermato che non è normale che la Magistratura detti tempi e modi all’Amministrazione.

Quando interviene in questo modo vuol dire che la politica non ha fatto il suo mestiere.

La Chiesa parla, parla, ma nessuno l’ascolta, anche perché in Italia non c’è più un partito cattolico”.

Ndr. Che “gli altri Deputati cosentini che oggi siedono in Parlamento debbano tornare a casa non frega a nessuno”. Peraltro sono coperti da pensioni d’oro mentre i calabresi sono alla fame.

Che “la Chiesa parli, parli, senza che alcuno l’ascolti non credo dipenda dal fatto che non ci sia più un partito cattolico”. Secondo me dipende dal fatto che la chiesa non ha più  credito tanto più quando si ingerisce in fatti ad essa estranei . Galantino pensi alla chiesa e non allo Stato. Non è che nella chiesa le cose vadano bene!

Pubblicato in Italia

La Corte costituzionale giudica illegittimo il meccanismo per cui l'attuazione passa dal semplice parere della Conferenza Stato-Regioni.

Nel mirino le norme sulla dirigenza, le partecipate, i servizi pubblici locali e il pubblico impiego.

LA riforma Madia è incostituzionale perché lede l'autonomia delle Regioni.

E lo fa in quattro punti cruciali, il cuore stesso della riforma: dirigenti, società partecipate, servizi pubblici locali, organizzazione del lavoro.

La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 251 appena emessa, non lascia adito a dubbi.

Il governatore del Veneto Luca Zaia parla di «Una sentenza storica», e commenta. «Siamo stati l'unica Regione d'Italia a portare avanti le nostre convinzioni. Il centralismo sanitario governativo ha ricevuto un duro colpo e noi, tanto per fare un esempio concreto, continueremo a nominare i direttori generali della nostra sanità invece che doverli scegliere all'interno di una terna `nazionale´ dove poteva esserci anche qualche responsabile di certi sfasci in giro per l'Italia».

Il premier Renzi,al contrario dichiara che : «La sentenza spiega perché cambio il titolo V della Costituzione , siamo un Paese bloccato»

E poi, continuando, ha aggiunto «Noi avevamo fatto un decreto per rendere licenziabile il dirigente che non si comporta bene e la Consulta ha detto che siccome non c'è intesa con le Regioni, avevamo chiesto un parere, la norma illegittima. E poi mi dicono che non devo cambiare le regole del Titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente».

La Corte non ha bocciato in toto la riforma, ma solo le misure della delega Madia impugnate dalla Regione Veneto.

«Le pronunce di illegittimità costituzionale colpiscono le disposizioni impugnate solo nella parte in cui prevedono che i decreti legislativi siano adottati previo parere e non previa intesa», si spiega nella sintesi della sentenza.

«Quando non è possibile individuare una materia di competenza dello Stato cui ricondurre, in via prevalente, la normativa impugnata, perché vi è, invece, una concorrenza di competenze, statali e regionali, è necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali)», spiega la Corte.

Linda Lanzillotta (Pd) sulla riforma Madia twitta « La Corte impone l'intesa con le Regioni sulla riduzione delle società per azioni e la dirigenza: così il cambiamento non si farà mai».

Maurizio Gasparri (Fi), dichiara «dopo quella del Veneto ci sarà una pioggia di impugnazioni per fermare giustamente i deliri di onnipotenza di questo governo, e il caos sarà totale»

E una doccia fredda per il governo. Ad un giorno appena dall'approvazione definitiva di ben cinque decreti attuativi della riforma Madia, tra cui quello importantissimo sulla dirigenza e l'altro sui servizi pubblici locali, oggi di fatto bollati come incostituzionali dalla Corte.

Tutto da rifare quindi?

Senz'altro la legge delega deve cambiare.

Si salva solo il testo unico del pubblico impiego, ma solo perché non ancora approvato dal Consiglio dei ministri (c'è tempo fino a febbraio).

Mentre gli altri tre (dirigenti, partecipate, servizi pubblici) devono di fatto essere riscritti.

E questa volta non basterà il mero parere delle Regioni.

Pubblicato in Italia

Mario Oliverio giunge in ritardo all’incontro per il SI ma la folla presente nemmeno rumoreggia quando si sparge la notizia della soddisfazione espressa dal governatore in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale resa nota questo stesso pomeriggio:

 

“La decisione della Corte Costituzionale sancisce definitivamente la piena legittimità delle elezioni del Consiglio regionale della Calabria, ponendo fine alle reiterate ed ingiustificate tesi giuridiche di imminente scioglimento del Consiglio regionale.

 

Non abbiamo mai avuto dubbi sulla legittimità dell'esito elettorale ed ora l'autorevole legittimazione della Corte Costituzionale restituisce maggiore vigore al nostro diuturno impegno per lo sviluppo della Calabria.

 

Ora il TAR dovrà decidere a quale dei Consiglieri regionali dovrà subentrare Wanda Ferro, candidata non eletta a Presidente, cui comunque rivolgo gli auguri di buon lavoro”.

Contenta anche Wanda Ferro la quale in una nota scrive :”La decisione della Corte Costituzionale non rappresenta una mia vittoria personale - nonostante abbia affrontato questa battaglia di legalità con un forte senso di solitudine - e non è soltanto la vittoria delle migliaia di cittadini che mi hanno votato e che si sono visti negare il diritto di essere rappresentati in Consiglio regionale, ma è la vittoria dei Calabresi tutti, che hanno il diritto ad essere amministrati da organismi pienamente rispondenti ai principi di legalità costituzionale, e che soprattutto hanno interesse ad avere una opposizione capace di essere controllo e stimolo di chi governa, e ciò può essere garantito soprattutto dalla presenza nell'organismo consiliare di chi ha guidato la coalizione arrivata seconda, come avviene in ogni regione d'Italia.

 

Sono felice che la forza della Carta Costituzionale abbia prevalso sui giochi di palazzo, restituendo dignità e valore alla volontà popolare. Oggi la Consulta ha confermato l'illegittimità della legge elettorale nella parte in cui escludeva incredibilmente il miglior perdente dal Consiglio regionale, in palese violazione del principio democratico che affida al leader della coalizione sconfitta la responsabilità di guidare l’opposizione.

Voglio ricordare che è quello l'unico punto della legge che ho voluto impugnare, avendo scelto di non contestare l'intera norma per senso di responsabilità verso una Regione che ha bisogno di essere governata e per rispetto della chiarissima volontà popolare di affidare questo compito a Mario Oliverio.

Mi dispiace che il governatore abbia deciso di costituirsi contro di me con i legali della Regione, su una questione che riguarda la composizione dell'opposizione in Consiglio.

Ringrazio comunque Mario Oliverio per la cortese telefonata di auguri che mi ha fatto questa sera, appena appresa la notizia della decisione della Consulta. Un ringraziamento per l'ottimo lavoro svolto devo rivolgerlo agli avvocati Francesco Saverio Marini e Angelo Clarizia, che mi hanno rappresentato davanti alla Corte Costituzionale, e agli avvocati Valerio Donato e Francesco Pullano, che mi hanno difeso davanti al TAR della Calabria. Oggi mi sento ripagata dei sacrifici di una campagna elettorale faticosa ma entusiasmante, che due anni fa mi ha portato in ogni angolo della Calabria ad incontrare migliaia e migliaia di cittadini perbene, che credono ancora nella possibilità di una Calabria diversa. La loro fiducia è stata la mia più grande forza. Nel loro nome ho combattuto questa lunga battaglia, e soprattutto a loro spero di riuscire a dare voce e rappresentanza. Con lealtà e trasparenza, dedicando tutta me stessa, senza risparmiarmi, come ho dimostrato di fare in tutta la mia storia politica e amministrativa”.

Uno solo quello scontento ed è quello che uscirà per far posto alla Ferro.

Pubblicato in Calabria

La storia è semplice . Lo stato italiano difende i ricchi e preleva ai poveri.

E’ il caso del Decreto Legge n 201 del 6 dicembre 2011 con il cui articolo 24 comma 25 è stata bloccata per gli anni 2012 e 2013 la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS.

Senonchè la Corte Costituzionale con la sentenza 70 del 20015( riportata integralmente alla fine di questo articolo) ha dichiarato la illegittimità di tale legge.

Non sarebbe male leggerla.

Quantomeno le due parti che vi abbiamo messo in grassetto perché chiarisce tutti i dubbi dei pensionati!

Discende da tale pronuncia il diritto dei pensionati italiani di riottenere quanto è stato illegittimamente trattenuto.

Ovviamente lo Stato( oggi Renzi, ieri gli altri) tenta di evitare di pagare i pensionati italiani.

Vi proponiamo una semplice istanza da inviare all’INPS competente

Potete inviarla tramite lettera raccomandata AR alla sede INPS di Cosenza,Piazza Loreto,22/A 87100 Cosenza (Cs) COSENZA

L’Inps è contattabile al seguente Telefono: 09844891 oppure telefonando al contact center che fa riferimento al numero 803164.

Potete anche usare la seguente posta certificata Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Il testo della lettera:

Spett.le INPS  Sede di (Cosenza)
Indirizzo (Piazza Loreto 22/a)
CAP (87100) Città (Cosenza)
Oggetto : Richiesta di ricostituzione della pensione e di rimborso degli arretrati a seguito di intervenuta abrogazione dell'art. 24, co.25 del d.l. n.201/2011 con Sent. Corte Costituzionale n.70/2015
A seguito di intervenuta abrogazione dell'art. 24, co.25 del d.l. n.201/2011 con Sent. Corte Costituzionale n.70/2015, il sottoscritto:
Nome……………………….. Cognome……………………
Categoria e numero pensione……………………………
Stato civile……………………… Nata/o il …………………….. a……………… , Provincia di ………………., Stato……………………... Cittadinanza…………………. Residente in ………………………………, Provincia di………………Stato…………..……………. Indirizzo………………………………………………………………………………………. CAP……….. Telefono…………………… Cellulare…………………….. e-mail………………………………………..
CHIEDE
La ricostituzione della pensione e la corresponsione degli arretrati maturati, nell'importo complessivo maturato fino all'effettivo soddisfo, nonché ogni altro adempimento necessario, in forza della normativa in vigore risultante dalla sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale.
FIRMA ………………………..

.............................lì..................................

Sentenza 70/2015

Giudizio          GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente CRISCUOLO - Redattore SCIARRA

Udienza Pubblica del 10/03/2015   Decisione del 10/03/2015

Deposito del 30/04/2015   Pubblicazione in G. U. 06/05/2015 n. 18

Norme impugnate:      Art. 24, c. 25°, del decreto legge 06/12/2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 22/12/2011, n. 214.

Massime:        

Atti decisi:      ordd. 35, 158, 159 e 192/2014

SENTENZA N. 70 ANNO 2015 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossi dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014, e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 35, 158, 159 e 192 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 14, 41 e 46, prima serie speciale, dell' anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di C.G. e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento di T.G. e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 marzo 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Riccardo Troiano per C.G., Luigi Caliulo e Filippo Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e r.o. n. 159 del 2014), e la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014, (r.o. n. 192 del 2014) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, del decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1 della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento», in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma, della Costituzione.

Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, premette di essere stato adito per la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a corrispondere al ricorrente i ratei di pensione maturati e non percepiti nel biennio 2012-2013, maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria fino all’effettivo soddisfo, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’azzeramento della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo INPS introdotto dalla norma censurata.

Il giudice rimettente rileva che la discrezionalità di cui gode il legislatore nella scelta del meccanismo perequativo diretto all’adeguamento delle pensioni, fondata sul disposto degli artt. 36 e 38 Cost., ha trovato il proprio meccanismo attuativo nel sistema di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, introdotto dall’art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale). Aggiunge che il blocco introdotto dalla normativa censurata reitera, rendendola più gravosa, la misura di interruzione del sistema perequativo già a suo tempo sancita dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), che era limitata ai soli trattamenti pensionistici eccedenti otto volte il trattamento minimo INPS, nonostante il monito rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 316 del 2010, teso a rimuovere il rischio della frequente reiterazione di misure volte a paralizzare il meccanismo perequativo.

Con la misura censurata, secondo il rimettente, si sarebbe violato l’invito della Corte, mediante azzeramento della perequazione per i trattamenti pensionistici di più basso importo, per due anni consecutivi e senza alcuna successiva possibilità di recupero.

Il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale (in particolare la sentenza n. 223 del 2012) secondo cui la gravità della situazione economica, che lo Stato deve affrontare, può giustificare anche il ricorso a strumenti eccezionali, con la finalità di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari con la garanzia dei servizi e dei diritti dei cittadini, nel rispetto del principio fondamentale di eguaglianza.

Deduce, quindi, la violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., poiché l’assenza di rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza e dell’art. 36, primo comma, Cost., in quanto il blocco della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità tra la pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa.

Sostiene, altresì, la lesione del combinato disposto degli artt. 36, 38 e 3 Cost., poiché la mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altererebbe il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati. Deduce, inoltre, la violazione del principio di universalità dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. e di quello di non discriminazione ai fini dell’imposizione e di parità di prelievo a parità di presupposto di imposta di cui al combinato disposto degli artt. 3, 23 e 53 Cost., poiché, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in quanto doverosa, non connessa all’esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e collegata esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.

2.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna, che ha sollevato con due distinte ordinanze la questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riferisce che il ricorrente nel giudizio principale lamentava la mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione della norma oggetto di censura, per effetto della esclusione del meccanismo di perequazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS.

Evidenzia, alla luce della giurisprudenza costituzionale, l’illegittimità delle frequenti reiterazioni di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo, sottolineando, altresì, il carattere peggiorativo della norma censurata rispetto all’art.1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, così determinando il blocco dell’adeguamento dei trattamenti superiori a tre volte, anziché a otto volte, rispetto al trattamento minimo INPS, avuto anche riguardo alla vicinanza temporale rispetto all’ultimo azzeramento attuato, nonché alla mancata previsione di un meccanismo di recupero.

In particolare, secondo il giudice a quo, il vizio della norma censurata emerge ove si consideri che la natura di retribuzione differita delle pensioni ordinarie è stata ormai definitivamente riconosciuta dalla Corte costituzionale (viene richiamata la sentenza n. 116 del 2013). Il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta, con più evidenza, discriminatorio, poiché grava su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro, con conseguente lesione degli artt. 3 e 53 Cost.

Ad avviso della Corte rimettente, il mancato adeguamento delle retribuzioni equivale a una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco sia formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero, con conseguente violazione degli artt. 3, 53, 36 e 38 Cost. Tale blocco incide sui pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed impossibilità di adeguamento del reddito, come evidenziato dalla Corte costituzionale, secondo la quale i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., che non consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi da lavoro (viene richiamata ancora la sentenza n. 116 del 2013).

La Corte dei conti aggiunge che l’introduzione di un’imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante e che, quindi, il blocco della perequazione si traduce in una lesione del combinato disposto di cui agli artt. 3 e 53 Cost., in quanto la norma censurata limita i destinatari della stessa soltanto ad una “platea di soggetti passivi”, cioè ai percettori del trattamento pensionistico, in violazione del principio della universalità della imposizione.

Essa sottolinea, inoltre, come l’intervento legislativo evidenzi il carattere sempre più strutturale del meccanismo di azzeramento della rivalutazione e non quello di misura eccezionale, non reiterabile, senza osservare il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2010, con riguardo ai gravi rischi di irragionevolezza e violazione della proporzionalità derivanti dalla frequente reiterazione delle misure volte a paralizzare il meccanismo di perequazione automatica, in quanto le pensioni, anche di maggior consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta.

Deduce, poi, come la norma censurata si presenti lesiva anche del principio di affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3 Cost., giacché i pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa le proprie disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le aspettative di vita di questi ultimi .

Sostiene, quindi, la palese irragionevolezza del provvedimento censurato e l’irrazionalità dello stesso per eccedenza del mezzo rispetto al fine, dovendo provvedersi ad esigenze quali la «contingente situazione finanziaria» richiamata dal legislatore mediante la fiscalità ordinaria, secondo il disposto di cui all’art. 53 Cost.

Invoca, infine, sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., quale parametro interposto, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, richiamando poi il principio della certezza del diritto, quale patrimonio comune degli Stati contraenti, nonché il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza di cui all’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il diritto di non discriminazione che include anche quella fondata sul patrimonio (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33) ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali di cui all’art. 34 della medesima Carta.

3.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, premette che la ricorrente nel giudizio principale era titolare di pensione diretta e di pensione indiretta del Fondo dipendenti INPS e che l’importo complessivo dei due trattamenti era stato mantenuto fermo anche negli anni 2012 e 2013, in applicazione della norma impugnata, aggiungendo che la parte aveva agito per la condanna dell’INPS al pagamento delle quote di trattamento non corrisposte, previo promovimento della questione di legittimità costituzionale della norma censurata.

Nel merito, osserva la Corte rimettente che, pur avendo la Corte costituzionale ammesso, in linea di principio, la compatibilità costituzionale di disposizioni legislative che incidano su situazioni soggettive attinenti ai rapporti di durata, facendosi carico di esigenze di contenimento della spesa pubblica, la stessa ha, al contempo, invitato il legislatore a salvaguardare il principio di ragionevolezza nelle manovre economiche adottate, a tutela degli interessi dei cittadini (viene richiamata la sentenza n. 316 del 2010).

Nel caso del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, secondo il giudice a quo difetterebbero i presupposti segnalati dalla giurisprudenza costituzionale, atteso che, in primo luogo, l’intervento non avrebbe il carattere realmente temporaneo voluto dal giudice delle leggi, perché esteso per un arco temporale di due anni. Inoltre, esso non riguarderebbe soltanto le pensioni più alte, incidendo, invece, sui trattamenti pensionistici di più basso importo, superiori ad euro 1.405,05 lordi per il 2012 ed a euro 1.441,56 lordi per il 2013. Per tali trattamenti, secondo la Corte rimettente, la pressante esigenza di rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario, che garantisce il soddisfacimento degli stessi bisogni alimentari, sarebbe irrimediabilmente frustrata.

In particolare, lo sganciamento dai meccanismi di adeguamento automatico dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo INPS, per un tempo considerevole, minerebbe il sistema di adeguamento costituzionalmente rilevante, con violazione dei principi di cui agli artt. 36 e 38 Cost.

Come ricordato dal giudice rimettente, la Corte costituzionale ha affermato (viene citata la sentenza n. 497 del 1988) che la protezione così garantita ai lavoratori postula requisiti di effettività, tanto più che essa si collega alla tutela dei diritti fondamentali della persona sanciti dall’art. 2 Cost., mentre il perdurante necessario rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita (il richiamo è alla sentenza n. 30 del 2004).

Il Collegio rimettente osserva, quindi, che la Corte costituzionale, pur avendo riconosciuto, con la sentenza n. 316 del 2010, la legittimità di temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate alle pensioni di importo più elevato, ha, al contempo, precisato che la ragionevolezza complessiva del sistema dovrà essere apprezzata nel quadro del contemperamento di interessi di rango costituzionale, alla luce dell’art. 3 Cost. Con ciò si intende evitare che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque valido motivo per determinare la compromissione «di diritti maturati o la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi» (viene citata la sentenza n. 92 del 2013).

Deduce, poi, il contrasto con gli artt. 3, 23, 53 Cost., sollevando d’ufficio la relativa questione, per essere stato imposto con la norma censurata un sacrificio cospicuo ad una sola categoria di cittadini, incorrendo nella violazione del principio di eguaglianza, a causa della disparità di trattamento che può essere ravvisata nella differente previsione di prestazioni patrimoniali a carico di soggetti titolari di redditi analoghi.

4.– Si è costituito in giudizio (r.o. n. 35 del 2014) C.G., ricorrente nel giudizio principale pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, instando per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione legislativa censurata. Sostiene, in particolare, il pregiudizio per l’adeguatezza delle prestazioni previdenziali, la quale imporrebbe la costante perequazione della pensione al mutamento dei valori monetari. Aggiunge il difetto di qualsivoglia modalità di recupero della somma oggetto di blocco della perequazione per il biennio 2012-2013 e la conseguente violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il criterio adottato sarebbe irragionevole, lesivo del principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione, nonché del principio di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost.

5.– Si è, altresì, costituito in tutti i giudizi, (r.o. n.n. 35, 158, 159 e 192 del 2014), l’INPS, chiedendo che siano dichiarate manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, alla luce della giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta alla discrezionalità del legislatore, in conformità a un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico alla stregua delle risorse disponibili, fatta salva la garanzia di salvaguardia delle esigenze minime di protezione della persona.

L’Istituto osserva, al riguardo, che la norma censurata si limita a sospendere l’operatività del meccanismo rivalutativo esistente per un breve orizzonte temporale e a salvaguardare le posizioni più deboli sotto il profilo economico, evidenziando, altresì, come la Corte, con la sentenza n. 316 del 2010, abbia già deciso, respingendola, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 ed aggiungendo che la mancata perequazione per un tempo limitato della pensione non incide sulla sua adeguatezza, in particolare per le pensioni di importo più elevato.

6.– Ha proposto intervento ad adiuvandum T.G., premettendo di essere iscritto al Fondo pensioni del personale delle Ferrovie dello Stato spa, di non aver goduto, in forza dell’applicazione della norma di cui al comma 25 dell’art. 24, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, degli aumenti di perequazione automatica per la parte di pensione superiore a tre volte il trattamento minimo e di aver depositato analogo ricorso per le proprie pretese pensionistiche dinanzi alla sezione giurisdizionale del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, allo scopo di sentir dichiarato il proprio diritto alla perequazione automatica.

Assume, in particolare, a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, il difetto di tutela per chi non abbia partecipato al giudizio principale, ma versi nelle medesime condizioni delle parti e, nel merito, la violazione degli artt. 38, secondo comma, 36, primo comma, e 3 Cost., nonché, infine, dell’art. 53 e del combinato disposto degli artt. 2, 23 e 53 Cost.

7.– E’ intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della questione sollevata.

La difesa dello Stato eccepisce preliminarmente il difetto della previa domanda amministrativa, presupposto dell’azione, la cui mancanza renderebbe la domanda improponibile e adduce l’esistenza di una temporanea carenza di giurisdizione, rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio.

L’Avvocatura generale rileva, in ogni caso, la manifesta infondatezza della questione riguardo a tutti i parametri segnalati e richiama la giurisprudenza costituzionale, nonché il principio dalla stessa espresso, secondo cui la mancata perequazione della pensione per un periodo contenuto non incide sull’adeguatezza del trattamento pensionistico.

8.– All’udienza pubblica, le parti costituite hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013 (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia–Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e n. 159 del 2014) e la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014 (r.o. n. 192 del 2014), dubitano della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui, per gli anni 2012 e 2013, limita la rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici nella misura del 100 per cento, esclusivamente alle pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Tutti i giudici rimettenti ritengono che il comma 25 dell’art. 24 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati.

La norma censurata recherebbe anche un vulnus agli artt. 2, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in violazione del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti.

La sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna censura, infine, la predetta disposizione, anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

2.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti.

Deve, pertanto, esser disposta la riunione dei giudizi al fine di un’unica pronuncia (ex plurimis, sentenza n. 16 del 2015, ordinanza n. 164 del 2014).

Nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha spiegato intervento ad adiuvandum T.G., che non è parte nel procedimento principale, assumendo di aver proposto analogo ricorso dinanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, allo scopo di sentir riconosciuto il proprio diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico, per gli anni 2012 e 2013, negato dall’INPS.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (per tutte, sentenza n. 216 del 2014), possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura.

La circostanza che l’istante sia parte in un giudizio diverso da quello oggetto dell'ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, non è sufficiente a rendere ammissibile l'intervento (ex plurimis, ordinanza n. 150 del 2012).

Conseguentemente, poiché T.G. non è stato parte del giudizio principale nel corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale oggetto dell'ordinanza iscritta al n. 35 del reg. ord. 2014, né risulta essere titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, l’intervento dallo stesso proposto va dichiarato inammissibile.

3.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, nelle due ordinanze di rimessione, dubita della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito dalla legge n. 214 del 2011, in riferimento, fra l’altro all’art. 117, primo comma, Cost. e invoca genericamente, quale parametro interposto, la CEDU, per poi richiamare, più specificamente, una serie di disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

In particolare, sono evocati, oltre al principio della certezza del diritto quale «patrimonio comune agli Stati contraenti», anche « gli altri diritti garantiti dalla Carta: il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio”, (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)».

La questione, come prospettata, è inammissibile.

Va preliminarmente rilevato che questa Corte ritiene configurarsi un’ipotesi di inammissibilità della questione, qualora il giudice non fornisca una motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza della stessa, limitandosi a evocarne i parametri costituzionali, senza argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione (ex plurimis, ordinanza n. 36 del 2015).

In tale ipotesi, il difetto nell’esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la norma censurata e i parametri costituzionali evocati inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime (fra le altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità delle stesse.

Nel caso di specie, la Corte rimettente si limita a richiamare l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU «come interpretata dalla Corte di Strasburgo»

senza addurre alcun elemento a sostegno di tale asserito vulnus, in particolare con riferimento alle modalità di incidenza della norma oggetto di impugnazione sul parametro costituzionale evocato.

Inoltre il richiamo alla CEDU si rivela, nella sostanza, erroneo, atteso che esso risulta affiancato dal riferimento a disposizioni normative riconducibili alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quest’ultima fonte, come risulta dall’art. 6, comma 1 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130, ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Pertanto, l’esame dell’ordinanza di rimessione non consente di evincere in qual modo le norme della CEDU siano compromesse, per effetto dell’applicazione della disposizione oggetto di censura.

Una tale carenza argomentativa costituisce motivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in quanto preclusiva della valutazione della fondatezza.

Il giudice a quo non fornisce sufficienti elementi che consentano di vagliare le modalità di incidenza della norma censurata sul parametro genericamente invocato ed omette di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale incidenza, richiamando erroneamente disposizioni normative afferenti al diritto primario dell’Unione europea.

4.– La questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, non è fondata.

Tutte le ordinanze di rimessione affermano che, nel caso di specie, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura di azzeramento della rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013, relativa ai trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, configurerebbe una prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Nell’imporre alle parti di concorrere alla spesa pubblica non in ragione della propria capacità contributiva, essa violerebbe il principio di eguaglianza.

I rimettenti richiamano, in particolare, le decisioni n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012 nella parte in cui si afferma che la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria, ma esige un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza (in tal senso, fra le più recenti, sentenza n. 10 del 2015). Ciò si collega al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione (ordinanza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n. 223 del 2012).

L’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura, tuttavia, sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura tributaria, atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario.

La giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 219 e n. 154 del 2014) ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.

Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964).

Il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, che dispone per un biennio il blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, non riveste, quindi, natura tributaria, in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico.

In base ai criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa.

Il difetto dei requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali imposte, determina, quindi, la non fondatezza delle censure sollevate in riferimento al mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva.

5.– La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. è fondata.

La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo.

Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.

Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.

Con l’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia.

Il meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici governato dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo.

Tuttavia, l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di aumento della perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a conferma di un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad esempio, l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS.

In conclusione, la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni.

6.– Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa.

L’art. 2 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali) previde che, in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento o di accordi collettivi, che introducesse aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali, pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia, con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di inflazione programmata.

In seguito, l’art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa.

Dopo l’entrata in vigore del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno 1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con ordinanza n. 256 del 2001, ha limitato il proprio campo di applicazione ai soli trattamenti di importo medio - alto, superiori a cinque volte il trattamento minimo.

Il blocco, introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a otto volte il trattamento minimo INPS.

Si trattava – come si evince dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 ottobre 2007 – di una misura finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).

L’azzeramento della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS).

Al contempo, essa ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si afferma, infatti, che «[…] le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta».

7.– L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di censura nel presente giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra denominata “salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento.

Per effetto del dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti.

Tale meccanismo si discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma 4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato dall’art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra fasce di importo.

Secondo la normativa antecedente, infatti, la percentuale di aumento si applicava sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento. Per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 75 per cento.

Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse trovano un unico correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.

La norma censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni rivolte al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati, Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha determinato la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva l’azzeramento della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di importo superiore a due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro 946,00. Il Ministro chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non confluiva nella riforma pensionistica, ma era da intendersi quale «provvedimento da emergenza finanziaria».

La disposizione censurata ha formato oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato della Repubblica, seduta n. 93, interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 – 00321) rimasta inevasa, in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere la revisione del provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale.

Dall’excursus storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato.

Il provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione ad esso successiva.

L’art. 1, comma 483, lettera e), della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le percentuali sono state, peraltro, parzialmente modificate.

Nel triennio in oggetto la perequazione si applica nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo, del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del 75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per il 2014 il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna dunque a proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza conferma la singolarità della norma oggetto di censura.

8.– Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013).

Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.

La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.

Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).

Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993).

Al legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma, Cost.

Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.

9.– Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007), questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010).

In quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano «margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo». L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante.

Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee.

La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza», secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione.

La richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni.

Questa Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (sentenza n. 349 del 1985).

Deve rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato.

10.– La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).

Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.

Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993).

La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.).

L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.

La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti.

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibile l’intervento di T.G.;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento»;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 23 e 53, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna e dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con le ordinanze indicate in epigrafe;

4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2015

In particolare numerose associazioni per la difesa dei consumatori sostengono che al fine dell'osservanza dei limiti di velocità, non possono essere considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature che siano solo "omologate", ma è necessario che tali risultanze siano riferibili a strumenti la cui funzionalità sia certificata e documentata dagli enti preposti a tali controlli, con lo scopo di eliminare ogni incertezza sull'attendibilità della misurazione.

In sostanza ai sensi della legge n. 273/1991, art. 1, con la quale sono stati «costituiti laboratori di idonea valenza tecnica e organizzativa convenzionati con gli istituti metrologici primari per l'effettuazione della taratura degli strumenti di misura sulla base di campioni secondari confrontati periodicamente con i campioni nazionali».

Finora la Cassazione Civile con varie sentenze aveva sostenuto che «le apparecchiature elettroniche regolarmente omologate non devono essere sottoposte ai controlli previsti dalla L. n. 273 del 1991, istitutiva del sistema nazionale di taratura. Tale sistema di controlli, infatti, attiene alla materia e metrologica diversa rispetto a quella della misurazione elettronica della velocità ed è competenza di autorità amministrative diverse, rispetto a quelle pertinenti al caso di specie».

Ora con la recentissima ordinanza n. 17766 del 2014 della Suprema Corte ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale il che consente a tutti i ricorrenti che abbiano attualmente un giudizio pendente in ordine alla taratura degli autovelox di richiedere la sospensione della sanzione principale e delle sanzioni accessorie (come la sospensione della patente di guida o la sottrazione di punti dalla stessa).

In sostanza se la Corte Costituzionale dovesse indirizzarsi nel senso dell'incostituzionalità della norma, si aprirebbe il capitolo della conseguente nullità delle multe elevate, avvalendosi delle apparecchiature per rilevazione elettronica della velocità.

Ecco la sentenza integrale:

“Corte di Cassazione Civile - Sezione II, Ordinanza interlocutoria n. 17766 del 07/08/2014
Circolazione Stradale - Art. 45 e 142 del Codice della Strada - Velocità - Mancata previsione della verifica periodica della funzionalità e della taratura delle apparecchiature destinate all’accertamento della velocità - Art. 45 C.d.S. in riferimento all’art. 3 della Costituzione - Questione di legittimità costituzionale - La seconda sezione della Corte di Cassazione civile solleva d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell'art. 45 del codice della strada. in riferimento all'art. 3 della Costituzione nella parte in cui non prevede che le apparecchiature destinate all’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura.

CONSIDERATO IN FATTO

Con ricorso depositato in data 16 giugno 2006 C. S. e T. M., rispettivamente conduttrice e proprietario dell’autovettura targata (OMISSIS), adivano il Giudice di Pace di (OMISSIS) opponendosi al provvedimento del Prefetto di Cuneo del 17 maggio 2006, col quale era stato respinto il loro ricorso del 13 dicembre 2005 avverso il verbale n. (OMISSIS) della Polizia Stradale di (OMISSIS) per violazione dell’art. 142, VIII co. C.d.S. asseritamente commessa il 27 giugno 2005.

I ricorrenti chiedevano all’adito Giudice di prime cure la declaratoria di illegittimità e nullità ovvero l’annullamento e la revoca del provvedimento impugnato.

Si costituiva in giudizio la succitata Prefettura contestando l’avversa opposizione.

Con sentenza del 13 novembre 2006 il Giudice di Pace di (OMISSIS) rigettava il ricorso, confermando il verbale e l’ordinanza del Prefetto di Cuneo in data 22 agosto 2006 e riducendo la sanzione pecuniaria al minimo edittale. Con atto depositato in data 18 giugno 2007 C. S. e T. M. adivano il Tribunale di Torino interponendo appello avverso la suddetta sentenza di primo grado.

Resisteva all’interposto gravame la Prefettura di Cuneo, chiedendo il rigetto per infondatezza del proposto appello e la vittoria di spese del doppio grado del giudizio.

Con sentenza n. 5533/2008 del 23 luglio 2008 il Tribunale di Torino rigettava l’appello principale, accoglieva l’appello incidentale e condannava gli appellanti principali alla refusione delle spese del doppio grado di giudizio, confermando nel resto l’impugnata sentenza.

Per la cassazione della detta decisione d’appello proponevano ricorso C. S. e T. M. con atto fondato su otto ordini di motivi, assistiti dalla formulazione di quesiti ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Resisteva con controricorso la Prefettura di Cuneo.

RITENUTO IN DIRITTO

1. - Deve, al fine del presente provvedimento, porsi immediatamente attenzione su alcuni rilevanti profili di cui al terzo e quarto ordine di motivi.

Con il terzo motivo del ricorso si censura la "violazione o, comunque, falsa applicazione di norme di diritto, ovvero della L. 11.08.1991 n. 273, dell’art. 4 del decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Dipartimento per i Trasporti Terrestri, Direttore Generale Motorizzazione n. 1123 del 16.05.2005 ed ancora delle norme internazionali UNI 30012, UNI EN 10012 e delle raccomandazioni OIML DI9 e D20, ove prevedono la taratura periodica per le apparecchiature di rilevazione della velocità - art. 360 n. 3 c.p.c.".

In proposito viene formulato, ai sensi dell’applicabile art. 366 bis c.p.c. il seguente articolato quesito di diritto: "dica l’Eccellentissima Corte se, in generale ed in particolare nel caso di specie, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 13 luglio 2007 n. 277 ed in quella 17 dicembre 2008 n. 423, all’apparecchiatura Autovelox mod. (OMISSIS), utilizzata per il rilevamento della velocità nella fattispecie per cui è causa, sia o meno applicabile la L. 11.08.1991, n. 273, nonché il decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Dipartimento per i Trasporti Terrestri, Direttore Generale Motorizzazione n. 1123 del 16.05.2005 e la nota 27.09.2000 n. 6050 del Ministero dei lavori pubblici, Ispettorato Generale per la circolazione e la sicurezza stradale e, in caso positivo, se per la validità dell’accertamento della velocità, data la sua irripetibilità, sia necessario o meno che lo strumento di rilevazione della velocità sia sottoposto a taratura, anche periodica, da parte dei SIT, Servizi Italiani di Taratura”.

Con il successivo quarto motivo (di certo collegabile a quello innanzi esposto) le parti ricorrenti lamentano una carenza motivazionale della impugnata sentenza in relazione ad "un fatto controverso e decisivo per il giudizio ovvero il regolare funzionamento dell’autovelox". Il tutto al cospetto dell’affermazione riportata nella decisione d’appello, per la quale "... il regolare funzionamento dello strumento è certo fino a prova contraria ...".

Entrambi i motivi innanzi riportati impongono di affrontare la (non nuova) problematica della necessità della taratura e della periodica verifica delle apparecchiature predisposte per l’accertamento e misurazione della velocità. E, quindi, della legittimità costituzionale di una esenzione - per tali strumenti - da ogni e qualunque, pur prevista e prescritta, in generale, procedura di verifica della loro taratura.
La rilevanza della questione in ordine alla decisione della controversia emerge alla stregua dell’operata ricostruzione della vicenda oggetto del giudizio, nonché dal riverberarsi della medesima anche su alcuni dei rimanenti motivi del ricorso, in particolare il primo ed il secondo. Quest’ultimi, in via mediata, sono a loro volta coinvolti dalla soluzione dell’anzidetta questione di legittimità, specie ove si consideri che - come giova, in breve, qui evidenziare - attengono alla motivazione ed all’eventuale violazione o falsa applicazione di norme di diritto quali l’art. 2697 c.c. in relazione agli artt. 23 L. n. 689/1981 e 205 C.d.S. quanto alla "avvenuta o meno dimostrazione" della regolarità del detto rilevatore di velocità.

Deve, quindi, ritenersi - concludendo in punto - ricorrente nella concreta fattispecie sottoposta a giudizio la rilevanza e pertinenza della questione di legittimità costituzionale sottesa alla prospettazione delle parti ricorrenti, in particolare, con il riportato terzo motivo del ricorso.

Questione che questa Corte ritiene di sollevare quanto all’art. 45 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (nuovo codice della strada) in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

3. - La non manifesta infondatezza della medesima questione emerge da quanto di seguito esposto.

Questa Corte con suoi pregressi provvedimenti ha, in sostanza, ritenuto - alla stregua di noto pregresso orientamento - che le apparecchiature elettroniche per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità, di cui all’art. 142, sesto comma del D. lgs. 30 aprile 1992, n. 285 non dovevano essere sottoposte alla procedura di taratura.
Il tutto perché potevano evitarsi i "controlli previsti dalla legge n. 273 del 1991 istitutiva del sistema nazionale relativo alla verifica della taratura poiché esso attiene alla materia c.d. metrologica, che è diversa rispetto a quella della misurazione elettronica della velocità" (Cass., Sent. 19 novembre 2007, n. 23978).

In tale contesto questa stessa Corte, allorché fu chiamata a pronunciarsi (anche su richiesta, a suo tempo formulata, dalla Procura Generale) in ordine alla legittimità costituzionale della mancata previsione di sistemi di controllo periodici della taratura degli strumenti elettronici di misurazione della velocità, ebbe a ritenere l’infondatezza della questione.

Tanto si affermò sia con la decisione appena innanzi citata, che con alcune immediatamente successive.

In particolare si ribadì la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 24 e 97 Cost., degli artt. 45 comma 6 C.d.S., 4 comma 3 d.l. n. 121 del 2002 (convertito in L. n. 168/2002), 142, comma 6 C.d.S. e 345 reg. cod. strada (Cass., Sez. II, 15 dicembre 2008, n. 29333 ed, ancora, Cass. n. 29334/2008).
Senonché la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dell’art. 45 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della Strada) "nella parte in cui non prevede che le apparecchiature destinate all’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche della funzionalità (taratura)" è stata esaminata dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 277/2007.

Con tale decisione, pur non ritenendo fondata la questione, ma solo "per erronea individuazione da parte del giudice rimettente del termine di comparazione (decreto ministeriale 28 marzo 2000, n. 182 invece dell’art. 2, comma 1 della legge n. 237/1991)", la Corte Costituzionale ha avuto modo di svolgere affermazioni che non possono che indurre ad una riconsiderazione della questione.

In particolare con la citata sentenza si è affermato che al fine della individuazione "della norma rispetto alla quale (si) lamenta una irragionevole disuguaglianza" andava "sperimentata l’applicazione della normativa generale del 1991 alla luce del sistema internazionale di misura SI, che comprende la velocità come unità derivata".
Ciò tanto più in considerazione del significativo fatto che la stessa Amministrazione pubblica "aveva dichiarato nel 2000 di volere attuare tale normativa", come da nota, già citata, n. 6050.

Il valore della affermazioni testé riportate della Corte Costituzionale non risulta smentito da successivi noti provvedimenti della medesima Corte quali le ordinanze, con declaratoria di manifesta inammissibilità della medesima questione di legittimità costituzionale, n. 423/2008 (per omessa indicazione sulla vicenda oggetto del giudizio e sulla rilevanza in esso della disposizione impugnata) e n. 127/2009 (per mancata adeguata descrizione della concreta fattispecie sottoposta a giudizio).

Anzi proprio quel valore delle affermazioni inducono oggi, col presente provvedimento, a riproporre l’accennata questione di costituzionalità, rilevante - per quanto già detto - ai fini del decidere e non manifestamente infondata alla stregua di quanto appena qui innanzi esposto.

Tanto specificamente in relazione all’art. 3 della Costituzione per l’assoluta irragionevolezza e conseguente disuguaglianza, che - come si approfondirà meglio in seguito - contrassegna la detta esclusione dall’applicazione della citata normativa generale, anche internazionale, in tema di misura ricomprendente pure la velocità come unità derivata; ed, ancora, con riguardo, come tertium comparationis, alla normativa di cui alla legge 1 agosto 1991, n. 273 (Istituzione del sistema nazionale di taratura), che prevede anche la velocità quale unità di misura derivata, nonché con riferimento pure alla normativa comunitaria (Norme UNI EN 30012 - parte 1 come integrate da UNI EN 10012), che - per di più - prevede il dovuto e relativo adeguamento del nostro ordinamento.

4. - La medesima questione di costituzionalità deve ritenersi rilevante ed ammissibile con riguardo al noto parametro della ragionevolezza delle norma.

Tanto in considerazione della palese irragionevolezza di un sistema e di una Amministrazione, che non adeguandosi (come evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale a suo tempo) alla richiamata normativa interna ed alla sua stessa manifestata volontà di cui alla citata nota ministeriale, finirebbe per concretizzare, in pratica, un incredibile risultato: quello per cui una qualunque bilancia di un mercato rionale è soggetta a periodica verifica della taratura, nel mentre non lo è una complessa apparecchiatura, come quella per la verifica della velocità, che svolge un accertamento irrepetibile e fonte di gravi conseguenze per il cittadino proprietario e/o conducente di veicolo.

Fra l’altro appare incongruo, oltre che normativamente irragionevole, ritenere che la suddetta apparecchiatura sia garantita, quanto alla sua efficienza e buon funzionamento (anche a distanza di lustri), dalla sola conformità al modello omologato.

Questa Corte ritiene, quindi, di sollevare d’ufficio - così come da dispositivo - la questione di legittimità costituzionale del già citato art. 45 C.d.S. in riferimento alla cennata norma costituzionale nella parte in cui il medesimo non prevede la verifica periodica della funzionalità e della taratura delle apparecchiature destinate all’accertamento della velocità e delle violazioni dei suoi limiti.

P.Q.M.

La Corte

visti gli artt. 23 L. 11 marzo 1953, n. 87 e 295 c.p.c.
 a) solleva d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 45 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) in riferimento all’art. 3 della Costituzione nella parte in cui non prevede che le apparecchiature destinate all’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura;
 b) dispone, a cura della Cancelleria, l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, nonché la notifica della presente ordinanza alle parti in causa ed al Presidente del consiglio dei Ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;
 c) sospende il giudizio in corso.

Cosi deciso nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione l’11 aprile 2014.
Depositato in cancelleria il 7 agosto 2014

 

Pubblicato in Italia

Un bel problema davvero! Altro che……..!

Ci riferiamo alla recentissima sentenza della Corte Costituzionale ( n 35 del 2014) che ha ricordato al vigente Consiglio regionale che deve passare dagli attuali 50 consiglieri a 30.

Ma ve l’ immaginate la guerra?

Se anche non ci fosse nessuna nuova candidatura almeno 20 degli attuali consiglieri dovrebbero andare a casa.

Impossibile.

Se poi si pensa che alle prossime consultazioni ci sarà anche il M5S, allora si scopre che più della meta degli attuali consiglieri dovranno andare via!

Gente che sparirà dalla scena politica. Gente che oggi viene chiamata onorevole e si illude di esserlo. Gente che usa i soldi pubblici per comprare perfino i Gratta e vinci. Gente che usa l’auto blù e che poi si vedrà costretta a guidare da se stessi la propria auto. Un miracolo.

E mica solo questo!

Addirittura la legge prevede che gli assessori dovranno essere al massimo 6, cioè un quinto del consiglio regionale.

Ma ve l’immaginate quante teste coronate non saranno più assessori regionali e perderanno scettro e corona ( vi ricordiamo che oggi sono ben 13 : Antonella Stasi Vice Presidente della Giunta Regionale, Giuseppe Gentile Infrastrutture e Lavori Pubblici, Alfonso Dattolo Urbanistica, Giacomo Mancini Bilancio ed alla Programmazione, Francesco Pugliano Ambiente, Nazzareno Salerno Lavoro, alla Formazione Professionale, alla Famiglia ed alle Politiche Sociali, Michele Trematerra Agricoltura e Forestazione, Domenico Tallini Personale, Mario Caligiuri Cultura ed ai Beni Culturali., Demetrio Arena Attività Produttive, Luigi Fedele Programmi speciali U.E., politiche euro-mediterranee, internazionalizzazione, cooperazione tra i popoli ed alle politiche per la pace – Trasporti, Alberto Sarra Riforme e Semplificazione Amministrativa , Giovanni Dima sottosegretario Protezione civile e Meteo regionale. E quindi 8 di loro dovranno andare via! E con la grave situazione della disoccupazione dove troveranno lavoro, questi poverini?)

Ed allora ci pensi bene Scopelliti a candidarsi alle Europee. Darebbe la stura ad una situazione molto difficile. Quasi incresciosa.

Non solo ma resterebbe anche il grave problema delle modalità di voto. Se si dovesse fare una lista unica regionale ci sarebbe il rischio che Crotone e Vibo resterebbero senza espressioni politiche territoriali perché , come è facile comprendere, Cosenza e Reggio farebbero la parte da leone.

Se invece si voterà su liste regionali è facile che Cosenza ( o Reggio) possa avere il prossimo governatore .

Ovviamente la politica sentirà i propri costituzionalisti e studierà una soluzione al problema. Quanto disposto dalla legge statale e confermato dalla Corte è inaccettabile perché scardinerebbe il delicato equilibrio della politica regionale!

E poi che cosa se ne farebbe la Calabria degli scranni in più che resteranno nella sala consiliare ?

Chi vuole può leggersi la sentenza integrale:

Sentenza  35/2014

Giudizio

 

Presidente SILVESTRI - Redattore CASSESE

Udienza Pubblica del 11/02/2014    Decisione  del 26/02/2014

Deposito del 06/03/2014   Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Delibera legislativa statutaria della Regione Calabria 18/03/2013, n. 279.

Massime:

 

Atti decisi:

ric. 58/2013

SENTENZA N. 35 ANNO 2014 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale della delibera legislativa statutaria della Regione Calabria «Riduzione del numero dei componenti del Consiglio regionale e dei componenti della Giunta regionale. Modifiche alla legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 “Statuto della Regione Calabria”», approvata in prima lettura dal Consiglio regionale con deliberazione n. 230 del 9 ottobre 2012 e in seconda lettura con deliberazione n. 279 del 18 marzo 2013, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 23-29 aprile 2013, depositato in cancelleria il 24 aprile 2013 ed iscritto al n. 58 del registro ricorsi 2013.

Visto l’atto di intervento, fuori termine, del Consiglio regionale della Calabria;

udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2014 il Giudice relatore Sabino Cassese;

udito l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 23-29 aprile 2013 (reg. ric. n. 58 del 2013), e depositato in cancelleria il 24 aprile 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato la delibera legislativa statutaria della Regione Calabria «Riduzione del numero dei componenti del Consiglio regionale e dei componenti della Giunta regionale. Modifiche alla legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 “Statuto della Regione Calabria”», approvata in prima lettura dal Consiglio regionale con deliberazione n. 230 del 9 ottobre 2012 e in seconda lettura con deliberazione n. 279 del 18 marzo 2013, per violazione dell’art. 117, comma terzo, della Costituzione, in relazione all’art. 14, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, e dell’art. 127 Cost.

2.– La delibera legislativa statutaria impugnata, composta da tre articoli, apporta modifiche, rispettivamente, al comma 1 dell’art. 15 e al comma 3 dell’art. 35 dello statuto regionale, prevedendo la riduzione da «50» a «40» del numero dei componenti del Consiglio regionale (art. 1) e stabilendo che «La Giunta regionale è composta dal Presidente e da un numero di Assessori non superiore a otto, compreso il Vice Presidente» (art. 2). L’art. 3 dispone che «La presente legge produce i suoi effetti a decorrere dalla decima legislatura del Consiglio regionale della Calabria».

3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che gli artt. 1 e 2 della delibera legislativa statutaria impugnata siano in contrasto, rispettivamente, con le lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 14 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 148 del 2011, che costituirebbero principi di coordinamento della finanza pubblica, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

Le disposizioni statali stabiliscono che le Regioni adeguano, nell’ambito della propria autonomia statutaria e legislativa, i rispettivi ordinamenti a determinati parametri, in particolare prevedendo che: «a) […] il numero massimo dei consiglieri regionali, ad esclusione del Presidente della Giunta regionale, sia uguale o inferiore a […] 30 per le Regioni con popolazione fino a due milioni di abitanti; […]. La riduzione del numero dei consiglieri regionali rispetto a quello attualmente previsto è adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e deve essere efficace dalla prima legislatura regionale successiva a quella della data di entrata in vigore del presente decreto. Le Regioni che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbiano un numero di consiglieri regionali inferiore a quello previsto nella presente lettera, non possono aumentarne il numero; b) […] il numero massimo degli assessori regionali sia pari o inferiore ad un quinto del numero dei componenti del Consiglio regionale, con arrotondamento all’unità superiore. La riduzione deve essere operata entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e deve essere efficace, in ciascuna regione, dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto».

Sulla base delle rilevazioni statistiche fornite dall’ISTAT, il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia che la Regione Calabria risulterebbe avere 1.958.418 abitanti. Di conseguenza, la Regione, sulla base delle citate disposizioni statali, dovrebbe, in primo luogo, prevedere un numero massimo di 30 consiglieri regionali, anziché di 40 come stabilito invece dalla disposizione impugnata (art. 1); in secondo luogo, dovrebbe definire un numero di assessori regionali pari o inferiore a un quinto del numero dei consiglieri regionali, che andrebbe parametrato al numero 30, ottenendo quindi la cifra di 6 anziché di 8, come invece stabilito dalla norma censurata (art. 2).

4.– La Regione Calabria non si è costituita in giudizio.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 23-29 aprile 2013, depositato in cancelleria il 24 aprile 2013 e iscritto al n. 58 del registro ricorsi 2013, ha impugnato la delibera legislativa statutaria della Regione Calabria «Riduzione del numero dei componenti del Consiglio regionale e dei componenti della Giunta regionale. Modifiche alla legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 “Statuto della Regione Calabria”», approvata in prima lettura dal Consiglio regionale con deliberazione n. 230 del 9 ottobre 2012 e in seconda lettura con deliberazione n. 279 del 18 marzo 2013. La delibera legislativa statutaria impugnata riguarda la disciplina del numero dei consiglieri e degli assessori regionali.

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, gli artt. 1 e 2 della delibera legislativa statutaria sarebbero in contrasto, rispettivamente, con le lettere a) e b) dell’art. 14, comma 1, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, che costituirebbero principi di coordinamento della finanza pubblica, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Le norme impugnate violerebbero, inoltre, l’art. 127 Cost.

2.– In via preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità delle censure riferite all’art. 127 Cost. per carenza assoluta di motivazione, non avendo il Presidente del Consiglio dei ministri svolto alcuna argomentazione in merito alla violazione del predetto parametro costituzionale (da ultimo, sentenze n. 255 e n. 46 del 2013).

3.– Nel merito, le questioni sono fondate.

3.1.– L’art 14, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011 stabilisce, tra le varie misure, quella della riduzione del numero dei consiglieri e assessori regionali al fine del contenimento della spesa pubblica, disponendo che le Regioni adeguano, nell’esercizio dell’autonomia statutaria e legislativa, i rispettivi ordinamenti ad alcuni parametri.

Tale disposizione, come già rilevato da questa Corte, detta un principio di coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 23 del 2014, n. 198 del 2012; ordinanze n. 258 e n. 31 del 2013) e «non vìola gli artt. 117, 122 e 123 Cost., in quanto, nel quadro della finalità generale del contenimento della spesa pubblica, stabilisce, in coerenza con il principio di eguaglianza, criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati» (sentenza n. 198 del 2012). In particolare, la norma statale «fissando un rapporto tra il numero degli abitanti e quello dei consiglieri, e quindi tra elettori ed eletti (nonché tra abitanti, consiglieri e assessori), mira a garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il diritto di essere egualmente rappresentati. In assenza di criteri posti dal legislatore statale, che regolino la composizione degli organi regionali, può verificarsi – come avviene attualmente in alcune Regioni, sia nell’ambito dei Consigli che delle Giunte regionali – una marcata diseguaglianza nel rapporto elettori-eletti (e in quello elettori-assessori): i seggi (nel Consiglio e nella Giunta) sono ragguagliati in misura differente alla popolazione e, quindi, il valore del voto degli elettori (e quello di scelta degli assessori) risulta diversamente ponderato da Regione a Regione» (sentenza n. 198 del 2012). Inoltre, «[…] il principio relativo all’equilibrio rappresentati-rappresentanti non riguarda solo il rapporto tra elettori ed eletti, ma anche quello tra elettori e assessori (questi ultimi nominati) […] sia perché, in base all’art. 123 Cost., “forma di governo” e “principi fondamentali di organizzazione e funzionamento” debbono essere “in armonia con la Costituzione”, sia perché l’art. 51 Cost. subordina al rispetto delle “condizioni di eguaglianza” l’accesso non solo alle “cariche elettive”, ma anche agli “uffici pubblici” (non elettivi)» (sentenza n. 198 del 2012).

3.2.– L’art. 14, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011 stabilisce che, per le Regioni la cui popolazione sia inferiore a due milioni di abitanti, il numero di consiglieri regionali non deve essere superiore a 30 (lettera a), mentre il numero degli assessori regionali non deve essere superiore ad un quinto del numero dei componenti del Consiglio regionale (lettera b), quindi a 6. Considerato che, secondo le rilevazioni ISTAT nel periodo 2010-2013, la popolazione della Regione Calabria è stata inferiore a due milioni di abitanti, l’art. 1 della delibera legislativa statutaria impugnata è in contrasto con la lettera a) del comma 1 del citato art. 14, nella parte in cui sostituisce il numero «50» con quello di «40», anziché con quello di «30»; il successivo art. 2 è in contrasto con la lettera b) del medesimo comma 1, nella parte in cui prevede «un numero di Assessori non superiore a otto» anziché «un numero di Assessori non superiore a sei». Le disposizioni censurate, dunque, ledono i principi di coordinamento della finanza pubblica stabiliti dal citato art. 14 del d.l. n. 138 del 2011, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della delibera legislativa statutaria della Regione Calabria «Riduzione del numero dei componenti del Consiglio regionale e dei componenti della Giunta regionale. Modifiche alla legge regionale 19 ottobre 2004, n. 25 “Statuto della Regione Calabria”», approvata in prima lettura dal Consiglio regionale con deliberazione n. 230 del 9 ottobre 2012 e in seconda lettura con deliberazione n. 279 del 18 marzo 2013, nella parte in cui sostituisce il numero «50» con quello di «40», anziché con quello di «30»;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della medesima delibera legislativa statutaria della Regione Calabria, nella parte in cui prevede «un numero di Assessori non superiore a otto» anziché «un numero di Assessori non superiore a sei»;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della medesima delibera legislativa statutaria della Regione Calabria, promossa, in riferimento all’art. 127 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 febbraio 2014.

F.to: Gaetano SILVESTRI, Presidente , Sabino CASSESE, Redattore , Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2014. ,Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella MELATTI

 

Pubblicato in Reggio Calabria

Riceviamo e pubblichiamo la seguente( ultima) nota del Comitato Genitori Manzoni-Pascoli:

Lei sembra voler omettere a tutti i costi che il comitato genitori è nato da soli 7 mesi e che quindi non ha partecipato a nessuna discussione in merito alla delibera in questione , certo questo non vuol dire che ora che ci siamo ce ne staremo zitti, zitti in un angolo , voi avete fatto e farete le battaglie per portare avanti le vostre istanze , noi faremo la nostra chiedendo di essere accorpati all'I.C. Mameli o di fare ,se possibile, un unico I.C. per tutto il comune ............... e visto quello che diceva "Facciamo parte dello stesso Comune " questa soluzione dovrebbe andarvi bene se a muovervi non è il campanilismo ma il bene della scuola e degli alunni , se l’unica battaglia che state facendo non è quella politica e di potere . Mi consenta solo un ultima rettifica in merito a quanto da lei detto , ovvero :

“• Ad Amantea esiste una direzione didattica formata da due gradi di istruzione materna ed elementare che secondo la legge citata in premessa non può esistere come istituto autonomo perché manca il terzo grado di istruzione ( la scuola media ) e per tale motivo deve aggregarsi con un'altro istituto che abbia il requisito mancante (scuola media) e il numero di alunni necessario per non essere considerato sottodimensionato”

“La Corte Costituzionale ha bocciato la norma varata dal Governo Berlusconi sul dimensionamento scolastico. La sentenza n.147  dichiara incostituzionale il comma 4 dell’art.19 della Legge 111/11 che dispone per il prossimo anno scolastico la creazione di istituti comprensivi di almeno 1000 alunni e la conseguente cancellazione – mediante accorpamento - delle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di 1°grado.

I giudici hanno accolto il ricorso presentato da 7 Regioni (Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Umbria, Sicilia, Puglia e Basilicata) che ritenevano la norma sul dimensionamento lesiva delle proprie prerogative. La Corte infatti riconosce che la norma sul dimensionamento viola l’art.117 della Costituzione (quello che definisce le competenze tra Stato e Regioni) perché interviene su una norma di dettaglio (i parametri per costituire gli istituti comprensivi) che avrebbe dovuto essere concertata con le Regioni perché rientrante in un ambito di competenza concorrente. ( fonte FLC CGIL)

Quindi non è vero che la Direzione Didattica non può esistere perche non ha il terzo grado di istruzione (la Scuola media ), nel nostro caso è solo una questione di numero di iscritti , i famosi 600………. Come del resto per voi ……………… eppure dovrebbe essere a conoscenza di tale abrogazione , è la stessa che vi ha permesso di fare ricorso al TAR ………………

Io purtroppo in questi sette mesi di presidenza del comitato genitori , ho visto da parte del comitato pro Campora e da molti membri del consiglio di istituto di Campora solo ostilità e voglia di contrapposizione a tutti i costi , nessuna voglia di costruire qualcosa insieme , solo la voglia di poter gridare in faccia tutta la rabbia che avevano , che in molti casi era anche giusta , ma era sbagliato gridarla in faccia a chi non aveva fatto altro che tendere una mano , a chi non aveva nessun’altro interesse che veder funzionare l’istituzione scolastica per il bene degli alunni , a chi soprattutto non aveva nessun interesse politico nella vicenda , a chi nei mesi a seguire l’istituzione del comitato genitori ha cercato di lavorare per tutti anche per chi ci ha sbattuto la porta in faccia senza fare distinzioni (vedi questione mensa ) …………………

Vede Dott. Andrea Ianni Palarchio in questi mesi io non l’ho mai vista e mai sentita ,in merito alle questioni di cui discutiamo oggi , non so il motivo , probabilmente è stata una mia distrazione , e non voglio dare retta a chi dice che probabilmente ora c’è più un clima politico elettorale che spinge gli animi , diciamo solo che non ci siamo incontrati , forse e dico forse se ci fossimo incontrati prima , se si fosse riusciti a creare un rapporto di collaborazione ed un dialogo aperto e trasparente le cose forse sarebbero andate meglio , oggi purtroppo si è detto troppo e male e ritengo che da parte mia non ci siano i margini per riprendere un discorso comune dialogando con le stesse persone o comitati che non hanno voluto mai cercare il dialogo , vede io non ho nulla contro Campora o i Camporesi , come ho detto mille volte ho svariati amici di Campora e credo che sia un territorio da valorizzare , pieno di potenzialità e di gente capace , volenterosa e soprattutto onesta e perbene ,tutto sta a fare emergere queste realtà , e credo che non sia facendo una sorta di guerra a tutto tondo con Amantea che si riesca a risolvere le cose ……………….. Questa sarà per noi l’ultima replica non ne seguiranno altre .       Distinti Saluti .

Comitato Genitori  Manzoni – Pascoli    Il presidente Tiziano Grillo

Pubblicato in Primo Piano

Dopo la pronuncia della Corte Costituzionale che ha annullato la legge che cancellava le province con la ragione che tale cancellazione non può essere fatta con un decreto legge, ma solo con una legge costituzionale , ecco che Enrico letta corre ai ripari.

Il CdM di oggi 5 luglio ha esaminato, su proposta del Presidente del Consiglio, del Vicepresidente e Ministro dell’interno Angelino Alfano, del Ministro per le riforme costituzionali Gaetano Quagliariello, e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Graziano Delrio, uno schema di disegno di legge costituzionale per l’abolizione delle province, che sarà sottoposto al parere della Conferenza unificata.

Tre articoli, una pagina.

Il primo articolo sostituisce l’articolo 114 della Costituzione: « La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Regioni e dallo Stato», dice la nuova formulazione eliminando appunto il riferimento alle province.

L’articolo 2 cancella ogni riferimento alla province in tutti gli altri articoli della Costituzione. Tredici in tutto i commi modificati.

Poi la norma transitoria in base alla quale entro sei mesi dalla data in entrata in vigore della legge costituzionale le Province sono soppresse. Sulla base di criteri e requisiti definiti con legge dello Stato sono individuate dallo Stato e dalle Regioni le forme e le modalità di esercizio delle relative funzioni.

Viene comunque stabilito che eventuali enti intermedi dovranno essere a costo zero: «Con le legge regionale nei limiti dei criteri generali definiti con legge dello Stato, sentita la popolazione regionale, possono essere istituiti e disciplinati, senza oneri per lo Stato, enti locali per l’esercizio di funzioni di governo dell’area vasta e di coordinamento dei comuni».

Ovvie le reazioni negative dell'Unione delle Province il cui presidente Antonio Saitta si chiede :” Ma davvero il Governo pensa che con un "provvedimento bandiera", che cancella con un tratto di penna la parola Province dalla Costituzione e 150 anni di storia del Paese, si riconquisti la fiducia degli italiani nella politica? Basterebbe uscire dai Palazzi e tornare sui territori per capire che la sfiducia dei cittadini è tutta nell'incapacità di dare risposte sui problemi veri, sulle emergenze sociali, sul dramma della disoccupazione e sulla crisi dell'economia” Il Governo, comunque, intende salvaguardare i lavoratori e le funzioni degli enti abrogati.

Due i problemi in Calabria:

Il primo: che fine faranno gli attuali presidenti delle province . Davvero staranno in silenzio dopo aver perso il proprio “ regno”?

Il secondo: che fine faranno i lavoratori che dalle regioni sono passati alle province? Ripasseranno forse alla regione?

 

Pubblicato in Italia

Tra le norme illegittime anche quelle relative all'ordinamento degli uffici, al piano di stabilizzazione degli lsu e all'incremento delle sezioni tecniche della Sua. Parliamo della legge regionale numero 47 del 23 dicembre del 2011 .(Collegato alla manovra di finanza regionale per l'anno 2012).

In particolare la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 16, 26, 32, 50, 52 e 55. ( in grassetto)

Tra le norme bocciate c'é anche quella relativa alla dirigenza e all'ordinamento degli uffici del consiglio regionale, e in particolar modo alla parte che stabiliva che il trattamento economico dei dirigenti di Area funzionale sia definito dall'ufficio di presidenza.

«In assunto del ricorrente – è scritto nella sentenza – la norma regionale consentirebbe all'ufficio di presidenza del consiglio regionale di derogare alle disposizioni del contratto nazionale di lavoro del personale dirigente delle Regioni e delle autonome locali in materia di determinazione del trattamento economico, così ponendosi in contrasto con le disposizione del titolo III del decreto legislativo 30 marzo 2001 numero 165 che obbligano al rispetto delle previsioni contrattuali e delle procedure da seguire in sede di contrattazione collettiva».

Poi l'articolo 55 relativo al Piano di stabilizzazione del personale appartenente alla categoria dei lavoratori socialmente utili.

Altra norma che ha avuto lo stop della Consulta è quella relativa all'incremento da una a tre delle sezioni tecniche della Stazione unica appaltante (Sua).

Ecco la sentenza integrale: SENTENZA N. 18 ANNO 2013 dell’11/02/2013

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Franco GALLO; Giudici : Gaetano SILVESTRI(redattore), Sabino CASSESE, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI,

Norme impugnate: Artt. 10, 14, 15, 16, c. 3°, 17, 26, 32, 43, 44, 50, 52, c. 4°, e 55, c. 1°, della legge della Regione Calabria 23/12/2011, n. 47.

ha pronunciato la seguente SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 10, 14, 15, 16, comma 3, 17, 26, 32, 43, 44, 50, 52, comma 4, e 55, comma 1, della legge della Regione Calabria 23 dicembre 2011, n. 47 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale – Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2012. Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per la notifica il 27 febbraio e depositato il successivo 1° marzo 2012, ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2012.

Visto l’atto di costituzione della Regione Calabria;

udito nell’udienza pubblica del 15 gennaio 2013 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi l’avvocato dello Stato Luigi Andronio per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Antonio Romito per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso spedito per la notifica il 27 febbraio 2012 e depositato il successivo 1° marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 10, 14, 15, 16, comma 3, 17, 26, 32, 43, 44, 50, 52, comma 4, e 55, comma 1, della legge della Regione Calabria 23 dicembre 2011, n. 47 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale – Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2012. Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002), per violazione degli artt. 81, quarto comma, 117, commi primo, secondo, lettere e) ed l), e terzo, 119, secondo comma, e 120, secondo comma, della Costituzione.

1.1.– La difesa statale ritiene che l’art. 10 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale ridetermina l’ammontare delle tasse automobilistiche regionali, aumentandone gli importi, si ponga in contrasto con l’art. 1, comma 7, del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93 (Disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 126, nonché con l’art. 1, comma 123, della legge 13 dicembre 2010, n. 220 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2011). Le norme statali evocate sospendono, sino all’attuazione del federalismo fiscale, la facoltà concessa alle Regioni e agli enti locali di deliberare aumenti dei tributi, delle addizionali, delle aliquote ovvero delle maggiorazioni di aliquote di tributi il cui gettito è ad essi attribuito con legge dello Stato.

Il ricorrente evidenzia in proposito che deroghe al suddetto principio generale di sospensione, sono state introdotte con interventi specifici e riferiti a singoli tributi (come ad esempio l’art. 1 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha concesso alle Regioni a statuto ordinario di aumentare l’addizionale regionale IRPEF a decorrere dall’anno 2012).

L’impugnato art. 10 violerebbe dunque l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia del sistema tributario, nonché l’art. 119, secondo comma, Cost., che si limita ad attribuire alle Regioni ed agli enti locali il potere di stabilire ed applicare entrate e tributi propri, subordinatamente al rispetto dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, precludendo comunque al legislatore regionale di intervenire sulla disciplina dei tributi statali.

1.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 14 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale ridetermina l’ammontare della tassa sulle concessioni regionali, aumentandone gli importi.

Anche questa norma regionale contrasterebbe con le disposizioni di cui all’art. 1, comma 7, del d.l. n. 93 del 2008 e all’art. 1, comma 123, della legge n. 220 del 2010, le quali sospendono, sino all’attuazione del federalismo fiscale, la facoltà concessa alle Regioni e agli enti locali di deliberare aumenti dei tributi, delle addizionali, delle aliquote ovvero delle maggiorazioni di aliquote di tributi il cui gettito è ad essi attribuito con legge dello Stato. Sono richiamate le argomentazioni che la difesa statale ha prospettato in relazione all’art. 10 della legge reg. n. 47 del 2011.

Il suddetto art. 14 violerebbe dunque l’art 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia del sistema tributario, nonché l’art. 119, secondo comma, Cost., per le medesime ragioni già esaminate in relazione all’art. 10.

1.3.– è impugnato l’art. 15 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale modifica la normativa regionale in tema di tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, ed, in particolare, aumenta gli importi di siffatto tributo.

Sono richiamate le considerazioni già svolte in relazione agli impugnati artt. 10 e 14; infatti, la difesa statale ritiene che l’art. 15 si ponga in contrasto con le disposizioni di cui all’art. 1, comma 7, del d.l. n. 93 del 2008 e all’art. 1, comma 123, della legge n. 220 del 2010, per le medesime ragioni.

Anche l’art. 15 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia del sistema tributario, nonché l’art. 119, secondo comma, Cost.

1.4.– il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 16, comma 3, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale aggiunge il comma 7-bis all’art. 27 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale – Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011. Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002). La norma impugnata prevede che l’esercizio dell’azione penale costituisca causa di interruzione della decorrenza del termine di prescrizione quinquennale stabilito per il recupero dell’imposta sui carburanti per autotrazione.

La difesa statale ritiene che tale disposizione, nella parte in cui incide sul rapporto tra giurisdizione penale e tributaria, in particolare, introducendo una disciplina del decorso della prescrizione difforme da quella statale, violi l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato le materie della giurisdizione e dell’ordinamento civile e penale.

1.5.– Oggetto delle censure statali è anche l’art. 17 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale istituisce, a decorrere dal sessantesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge stessa, l’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili (IRESA).

Secondo la difesa statale, tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 8 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), da ritenersi espressivo di un principio di coordinamento del sistema tributario, in virtù del quale le Regioni possono trasformare l’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili in tributo proprio regionale, a decorrere dal 1° gennaio 2013.

La disposizione regionale in esame, nel prevedere una decorrenza anticipata della trasformazione dell’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili in tributo proprio regionale, determinerebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia del sistema tributario, nonché dell’art. 119, secondo comma, Cost., che subordina il potere delle Regioni e degli enti locali di stabilire ed applicare entrate e tributi propri al rispetto dei principi di coordinamento del sistema tributario.

1.6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 26 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, che modifica l’art. 7 della legge della Regione Calabria 13 maggio 1996, n. 8 (Norme sulla dirigenza e sull’ordinamento degli Uffici del Consiglio regionale), stabilendo, al comma 4 del citato art. 7, che il trattamento economico dei dirigenti di Area funzionale sia definito dall’Ufficio di Presidenza.

In assunto del ricorrente, la norma regionale consentirebbe all’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale di derogare alle disposizioni del CCNL del personale dirigente delle Regioni e delle Autonomie locali in materia di determinazione del trattamento economico, così ponendosi in contrasto con le disposizioni del Titolo III («Contrattazione collettiva e rappresentanza sindacale») del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che obbligano al rispetto delle previsioni contrattuali e delle procedure da seguire in sede di contrattazione collettiva.

Secondo la difesa statale, la norma impugnata, nella parte in cui deroga ai principi generali di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile e, quindi, i rapporti di impiego pubblico privatizzato regolati dalla contrattazione collettiva.

La medesima norma, inoltre, nel novellare l’art. 7-bis della legge reg. Calabria n. 8 del 1996, stabilisce che le strutture speciali della Direzione generale e del Segretariato generale del Consiglio regionale sono composte ciascuna da tre unità di personale, due delle quali possono essere esterne alla pubblica amministrazione.

Il combinato disposto di detto art. 7-bis e del richiamato art. 7 della stessa legge reg. Calabria n. 8 del 1996, come modificati dalla norma impugnata, nel prevedere un ampliamento delle strutture e dei ruoli dirigenziali con oneri che non risultano quantificati e di cui manca la relativa copertura finanziaria, si porrebbe in contrasto con le disposizioni relative al contenimento delle spese in materia di impiego pubblico previste al comma 28 dell’art. 9 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122. La predetta disposizione statale dispone che «A decorrere dall’anno 2011, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, incluse le Agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, gli enti pubblici non economici, le università e gli enti pubblici di cui all’articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni e integrazioni, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura fermo quanto previsto dagli articoli 7, comma 6, e 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009. Per le medesime amministrazioni la spesa per personale relativa a contratti di formazione-lavoro, ad altri rapporti formativi, alla somministrazione di lavoro, nonché al lavoro accessorio di cui all’articolo 70, comma 1, lettera d) del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni ed integrazioni, non può essere superiore al 50 per cento di quella sostenuta per le rispettive finalità nell’anno 2009. Le disposizioni di cui al presente comma costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali si adeguano le regioni, le province autonome, gli enti locali e gli enti del Servizio sanitario nazionale. […]».

Ancora, secondo il ricorrente, l’impugnato art. 26 violerebbe le disposizioni in materia di turn over – costituenti principi di coordinamento della finanza pubblica – di cui al comma 7 dell’art. 66 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, che ha novellato il comma 102 dell’art. 3 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008).

Sarebbe violato l’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato il compito di fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica.

La mancata previsione di un’adeguata copertura finanziaria determinerebbe, infine, la violazione dell’art. 81, quarto comma, Cost.

1.7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 43 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale, al comma l, prevede il ripianamento delle perdite relative all’anno 2010 della Società di Gestione per l’Aeroporto dello Stretto (SO.G.A.S.) S.p.A. con una spesa di euro 38.000, ed, al comma 2, autorizza la spesa di euro 400.000 al fine della sottoscrizione da parte della Regione Calabria della quota di aumento di capitale sociale della SO.G.A.S. S.p.A.

Le previsioni contenute nei due commi impugnati recherebbero misure aventi le caratteristiche di aiuti di Stato, la cui compatibilità con il diritto dell’Unione europea deve essere rimessa alla valutazione della Commissione europea. La SO.G.A.S. S.p.A. opera, infatti, nel settore della gestione aeroportuale, aperto alla concorrenza di imprese pubbliche e private.

Secondo la difesa statale, l’entità relativamente esigua degli aiuti non costituirebbe ragione sufficiente ad escludere l’effetto distorsivo sugli scambi tra gli Stati membri. Pertanto, la mancata notifica alla Commissione europea delle disposizioni contenute nell’art. 43, prima della loro entrata in vigore, determinerebbe la violazione degli obblighi comunitari in materia di aiuti di Stato.

In proposito, il ricorrente segnala che la Commissione europea, con decisione del 20 luglio 2010, ha avviato una procedura di indagine formale nei confronti di analoghe iniziative di copertura delle perdite della SO.G.A.S. S.p.A., intraprese dagli azionisti pubblici nel periodo 2004-2005 e regolarmente notificate dalla Regione Calabria ai sensi dell’art. 108, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). La Commissione ha ritenuto che tali misure integrassero la fattispecie di aiuti di Stato e presentassero, quindi, concreti elementi di incompatibilità con le regole comunitarie in materia. L’indagine si è estesa ad ulteriori coperture di perdite relative all’anno 2006, nonché all’aumento di capitale sociale pari a euro 2.743.000 effettuato nel dicembre 2007 dai soci pubblici, trattandosi di operazioni che non sono state oggetto di notifica alla Commissione europea.

Inoltre, asserisce il ricorrente, le autorità calabresi avrebbero garantito alla Commissione la non attuazione sia della misura oggetto di indagine sia di altre analoghe, prima di un pronunciamento dell’esecutivo comunitario sulla natura di aiuto di Stato del primo intervento. La difesa statale conclude sul punto precisando che la procedura di indagine formale è tuttora in corso.

Per le ragioni esposte, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che le disposizioni contenute nel censurato art. 43 non debbano trovare pratica attuazione prima di una definitiva valutazione della Commissione.

La norma regionale, pertanto, nella parte in cui omette di osservare l’obbligo di notifica dell’aiuto previsto dall’art. 108, par. 3, del TFUE, violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., che impone il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario alla potestà legislativa regionale.

1.8.– L’art. 44 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 dispone il contributo regionale straordinario di euro 150.000 a parziale copertura delle spese relative alle mensilità arretrate per il personale dell’Ente Fiera di Cosenza. L’erogazione del contributo è subordinata all’analogo e contestuale impegno da parte di tutti i soggetti istituzionali soci dell’Ente Fiera – Provincia di Cosenza, Comune di Cosenza e Comune di Rende – a coprire pro quota la restante parte delle spese correnti.

Anche in questo caso il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la norma regionale sull’assunto che la stessa preveda una misura avente le caratteristiche di aiuto di Stato, la cui compatibilità con il diritto dell’Unione europea deve essere rimessa alla valutazione della Commissione europea.

Al riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato premette che la Comunicazione interpretativa della Commissione sul mercato interno per il settore fiere ed esposizioni, dell’8 maggio 1998, riconosce il carattere commerciale delle attività degli operatori fieristici anche qualora questi agiscano nella forma giuridica di enti autonomi senza scopo di lucro. Sulla stessa linea interpretativa si è mossa la giurisprudenza comunitaria, che ha confermato il principio secondo il quale «le attività che realizzano lo scopo complessivo delle società Ente Fiera sono pienamente contendibili sul mercato degli operatori fieristici», con la conseguenza che qualsiasi beneficio accordato dalla parte pubblica nei confronti dell’Ente medesimo può tradursi in un pregiudizio per la concorrenza con altri soggetti economici che operano nello stesso mercato.

Tanto premesso, il ricorrente ritiene che la copertura di spese correnti operata dalla Regione con la norma impugnata rientri nella fattispecie di cui all’art. 107 del TFUE, concretizzandosi in un aiuto distorsivo della concorrenza nel mercato di riferimento. Per tale ragione, la misura avrebbe dovuto essere notificata ai sensi dell’art. 108, par. 3, del TFUE.

In definitiva, il censurato art. 44, «nella parte in cui omette di osservare l’obbligo di notifica dell’aiuto previsto dall’art. 108, par. 3, del TFUE», si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che impone il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario alla potestà legislativa regionale.

1.9.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, inoltre, l’art. 52, comma 4, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale autorizza la Giunta regionale a rinnovare, «a domanda dell’interessato», i contratti di collaborazione al personale già assegnato all’Osservatorio del turismo, attualmente in servizio presso il Dipartimento Turismo, Sport, Spettacolo e Politiche Giovanili per la gestione del sistema informativo turistico.

Le ragioni di censura sono individuate dal ricorrente nell’asserito contrasto di questa norma con l’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, in base al quale, per esigenze non fronteggiabili con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei presupposti di legittimità indicati nel medesimo comma 6 dell’art. 7 citato.

Secondo la difesa statale, la norma regionale impugnata prescinderebbe, nell’autorizzare il rinnovo dei contratti di collaborazione de quibus, dai requisiti prescritti dal citato art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, che detta, tra l’altro, principi in materia di coordinamento della finanza pubblica, inderogabili da parte della Regione.

L’Avvocatura generale ritiene, altresì, che la norma regionale si ponga in contrasto con l’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, il quale, fissando principi generali di coordinamento della finanza pubblica, prevede che le pubbliche amministrazioni «possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009».

In definitiva, la norma impugnata, nella parte in cui consente un generico rinnovo contrattuale, a domanda degli interessati, senza una preventiva valutazione da parte della Regione della necessità di avvalersi di detto personale, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., il quale riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile.

La stessa norma regionale, inoltre, nella parte in cui non prevede un contenimento della spesa di personale, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi in materia di coordinamento della finanza pubblica, dettati con le norme statali sopra richiamate.

1.10.– è impugnato anche l’art. 55, comma 1, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, relativo al piano di stabilizzazione del personale appartenente alla categoria dei lavoratori socialmente utili. In particolare, il comma 1 riproduce la disposizione già contenuta nell’art. 16 della legge reg. Calabria n. 34 del 2010, modificando il termine finale per l’attuazione del piano di stabilizzazione precedentemente previsto (31 dicembre 2011), che viene posticipato al 31 dicembre 2014.

In proposito, il ricorrente sottolinea di aver già impugnato l’art. 16 della citata legge reg. Calabria n. 34 del 2010 nella parte in cui fissava al 31 dicembre 2011 l’attuazione del piano regionale di stabilizzazione del personale appartenente ai lavoratori socialmente utili. La difesa statale rileva, altresì, che la Corte costituzionale, con sentenza n. 310 del 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 16 precisando che «la proroga del termine finale [...], produce l’effetto di sottrarre le suddette stabilizzazioni ai vincoli previsti dall’art. 17, comma 10, del d.l. n. 78 del 2009, in quanto le normative regionali prorogate, anteriori al 2009, non prevedevano alcuno dei suddetti vincoli».

Dalle suesposte considerazioni discenderebbe l’illegittimità costituzionale della norma regionale oggetto dell’odierno giudizio, la quale, nella parte in cui proroga nuovamente i termini per l’attuazione del piano di stabilizzazione del suddetto personale, si porrebbe in contrasto con l’art. 17, comma 10, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102, che non consente una generica salvaguardia di tutte le stabilizzazioni, anche se programmate ed autorizzate.

Pertanto, il censurato art. 55, comma 1, violerebbe i principi di coordinamento della finanza pubblica, ai quali, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., la Regione, pur nel rispetto della sua autonomia, non può derogare.

1.11.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, infine, ulteriori norme dettate dalla legge reg. Calabria n. 47 del 2011, relative alla materia sanitaria.

La difesa statale, prima di illustrare le censure proposte, ricostruisce la successione degli eventi che hanno preceduto l’approvazione della normativa censurata. L’Avvocatura generale rileva che la Regione Calabria – per la quale è stata verificata una situazione di disavanzo nel settore sanitario tale da generare uno squilibrio economico-finanziario che compromette l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza – ha stipulato, in data 17 dicembre 2009, un accordo con i Ministri della salute e dell’economia e delle finanze, comprensivo del piano di rientro dal disavanzo sanitario, ai sensi dell’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005).

Con la delibera della Giunta regionale n. 845 del 2009 sono state poi approvate le «Proposte tecniche per l’integrazione/modifica del piano di razionalizzazione e riqualificazione del Servizio Sanitario Regionale della Regione Calabria», che costituiscono parte integrante dell’Accordo sul piano di rientro del 17 dicembre 2009.

L’Avvocatura generale precisa altresì che la Regione Calabria, non avendo realizzato gli obiettivi previsti dal piano di rientro nei tempi e nelle dimensioni di cui all’art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004, nonché all’intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005, e ai successivi interventi legislativi in materia, è stata commissariata ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 29 novembre 2007, n. 222, in attuazione dell’art. 120 Cost., nei modi e nei termini di cui all’art. 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Nella seduta del 30 luglio 2010, il Consiglio dei Ministri ha deliberato la nomina di un Commissario ad acta per la realizzazione del vigente piano di rientro dai disavanzi nel settore sanitario, individuando lo stesso nella persona del Presidente della Regione pro tempore.

1.11.1.– La difesa statale procede, quindi, ad illustrare le specifiche ragioni di impugnazione dell’art. 32 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale apporta modifiche all’art. 1 della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2007, n. 26 (Istituzione dell’Autorità regionale denominata “Stazione Unica Appaltante” e disciplina della trasparenza in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture).

La disposizione regionale in esame, modificando il comma 4 dell’art. 1 della legge reg. Calabria n. 26 del 2007, prevede l’incremento da una a tre delle «sezioni tecniche» della Stazione Unica Appaltante (SUA), e, introducendo il comma 4-bis nel medesimo art. 1, dispone che «per ogni Sezione tecnica è inoltre previsto un dirigente equiparato a quello di servizio della Giunta regionale»; da ultimo, la disposizione censurata, introducendo l’ulteriore comma 4-ter (meramente conseguenziale), dispone che «Il Direttore generale della Stazione Unica Appaltante è autorizzato ad apportare le relative modifiche al regolamento di organizzazione, in deroga a quanto previsto al comma 1 dell’articolo 2».

L’impugnato art. 32 aggiunge, inoltre, che le modifiche apportate non comportano «oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale».

L’Avvocatura generale ritiene che la norma in esame violi l’art. 81, quarto comma, Cost., in quanto prevede «l’istituzione di nuove strutture amministrative e di ulteriori posizioni dirigenziali, omettendo di quantificare gli inevitabili oneri da essa derivanti e omettendo altresì di individuare i relativi mezzi di copertura finanziaria».

1.11.2.– è infine impugnato l’art. 50 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, il quale dispone la copertura finanziaria dei debiti contratti dalla Regione nei confronti dei beneficiari della legge della Regione Calabria 29 marzo 1999, n. 8 (Provvidenze in favore di soggetti affetti da particolari patologie).

La norma impugnata, che garantisce ai propri residenti livelli di assistenza ulteriori rispetto a quelli stabiliti a livello nazionale, interferirebbe con l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo, affidata al Commissario ad acta con il mandato commissariale del 30 luglio 2010.

Da quanto appena detto discenderebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 50 sotto più profili. Innanzitutto, la disposizione regionale interferirebbe con le funzioni commissariali, in violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost. (sono richiamate le sentenze n. 78 del 2011 e n. 2 del 2010 della Corte costituzionale); in particolare, secondo la sentenza n. 78 del 2011, «l’operato del commissario ad acta, incaricato dell’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti […] ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica. È, dunque, proprio tale dato […] a legittimare la conclusione secondo cui le funzioni amministrative del commissario, ovviamente fino all’esaurimento dei suoi compiti di attuazione del piano di rientro, devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali».

Il legislatore regionale, con la norma impugnata, sarebbe intervenuto illegittimamente in materia di organizzazione sanitaria, in luogo del Commissario ad acta, non rispettando i vincoli posti dal piano di rientro dal disavanzo sanitario. Da ciò deriverebbe la violazione dei principi fondamentali diretti al contenimento della spesa pubblica sanitaria di cui all’art. 2, commi 80 e 95, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), secondo i quali, in costanza di piano di rientro, è preclusa alla Regione l’adozione di nuovi provvedimenti che siano di ostacolo alla piena attuazione di quest’ultimo, essendo le previsioni dell’Accordo e del relativo piano vincolanti per la Regione stessa.

Sarebbe pertanto violato l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto l’impugnato art. 50 si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica. Al riguardo, la difesa statale richiama le sentenze n. 141 e n. 100 del 2010 con le quali la Corte costituzionale ha ritenuto che le norme statali (quale l’art. 1, comma 796, lettera b, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007») che hanno «reso vincolanti, per le Regioni che li abbiano sottoscritti, gli interventi individuati negli atti di programmazione “necessari per il perseguimento dell’equilibrio economico, oggetto degli accordi di cui all’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311”», possono essere qualificate come espressione di un principio fondamentale diretto al contenimento della spesa pubblica sanitaria e, dunque, espressione di un correlato principio di coordinamento della finanza pubblica.

Sotto un ulteriore profilo, la norma in esame, omettendo di quantificare gli inevitabili oneri da essa derivanti e di individuare i relativi mezzi di copertura finanziaria, violerebbe l’art. 81, quarto comma, Cost.

2.– La Regione Calabria si è costituita nel giudizio, chiedendo che il ricorso sia dichiarato irricevibile, «o comunque inammissibile, e in ogni caso nulle e/o non fondate» le questioni promosse.

2.1.– La difesa regionale esamina congiuntamente le censure relative agli artt. 10, 14 e 15 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, osservando in proposito che l’art. 4 del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44, ha abrogato l’art. 77-bis, comma 30, del d.l. 112 del 2008 e l’art. 1, comma 123, della legge n. 220 del 2010. Sono state pertanto eliminate le disposizioni – evocate come parametro interposto – che prevedevano la sospensione del potere delle Regioni di aumentare le tariffe dei tributi regionali controversi. La modifica legislativa in parola è intervenuta dopo la notifica del ricorso ma prima del deposito dello stesso; per questa ragione, secondo la resistente, «si dovrebbero ritenere manifestamente infondate le relative questioni di legittimità costituzionale, piuttosto che estinte per cessazione della materia del contendere».

2.2.– Quanto all’impugnazione dell’art. 16, comma 3, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, la difesa regionale ne eccepisce l’inammissibilità, rilevando come non siano in alcun modo esplicitate le ragioni di asserita difformità rispetto alla disciplina statale, che non sarebbe neppure individuata con precisione.

Nel merito, la questione non sarebbe fondata poiché la norma impugnata, «lungi dall’introdurre una disciplina ulteriore e difforme, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione», si limiterebbe «a chiarire quanto già evidente nell’ordinamento giuridico, ovvero che l’esercizio dell’azione penale svolge altresì efficacia interruttiva del termine di prescrizione, ivi individuato».

2.3.– Con riferimento alle censure promosse nei confronti dell’art. 17 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, la resistente ribadisce che l’art. 4 del d.l. n. 16 del 2012 ha abrogato l’art. 77-bis, comma 30, del d.l. n. 112 del 2008 e l’art. 1, comma 123, della legge n. 220 del 2010, eliminando così le disposizioni – evocate come parametro interposto – che prevedevano la sospensione del potere di aumentare le tariffe dei tributi regionali controversi. Anche in tal caso, pertanto, «si dovrebbero ritenere manifestamente infondate le relative questioni di legittimità costituzionale, piuttosto che estinte per cessazione della materia del contendere».

La difesa regionale aggiunge che, comunque, la norma impugnata non darebbe vita ad alcuna interferenza con il sistema tributario, a seguito della sola anticipazione – rispetto a quanto stabilito dall’art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011 – dell’istituzione dell’imposta sulle emissioni sonore degli aeromobili.

Infondata sarebbe, inoltre, la questione sollevata in riferimento alla decorrenza dell’imposta medesima, atteso che l’istituzione di quest’ultima non inciderebbe sulla sua decorrenza. Al riguardo, la resistente rileva come il comma 7 del censurato art. 17 rimetta alla Giunta regionale il compito di definire le modalità di accertamento, di liquidazione, di riscossione, di recupero e di rimborso dell’imposta, l’applicazione delle sanzioni, oltre all’eventuale stipulazione di apposite convenzioni con le società di gestione degli aeroporti.

La Regione Calabria conclude sul punto precisando che, in assenza della regolamentazione da ultimo citata, non sarebbe rinvenibile alcun profilo di illegittimità costituzionale.

2.4.– In relazione all’impugnativa dell’art. 26 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, nella parte in cui novella il comma 4 dell’art. 7 della legge reg. Calabria n. 8 del 1996, la difesa regionale rileva preliminarmente come siffatta censura non possa che ritenersi infondata, posto che l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale non può comunque derogare alle norme del CCNL del personale dirigente delle Regioni e delle Autonomie locali.

Secondo la resistente, la questione promossa «appare altresì manifestamente inammissibile e/o infondata», poiché non sono state evocate, come parametro interposto, le norme di principio del d.lgs. n. 165 del 2001 attinenti: a) alla separazione tra competenze degli organi di direzione politica e di gestione del rapporto di lavoro (sotto questo profilo – obietta la Regione – l’Ufficio di Presidenza è organo di direzione politica e non potrebbe adottare determinazioni sui diritti economici del personale contrattualizzato); b) al riparto tra la fonte eteronoma (determinazioni unilaterali della P.A. datrice di lavoro) e la fonte autonoma collettiva (il CCNL del personale contrattualizzato), quanto ai diritti economici del dipendente.

In mancanza dell’indicazione delle suddette norme interposte, la questione prospettata sembrerebbe infondata o «tale da legittimare un mero rigetto interpretativo». La difesa regionale esclude, peraltro, che la rilevata carenza motivazionale possa essere sanata in corso di giudizio.

2.4.1.– Quanto alla censura promossa nei confronti dell’art. 26 nella parte in cui sostituisce l’art. 7-bis della legge reg. Calabria n. 8 del 1996, la difesa regionale contesta l’impugnazione del combinato disposto degli artt. 7 e 7-bis, novellati dalla norma impugnata, osservando come, mediante «un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata» della disposizione di cui all’art. 26, possa essere esclusa l’asserita violazione delle prescrizioni di cui all’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010 e dei vincoli al contenimento della spesa per il personale.

La resistente ritiene, inoltre, che non sia stato correttamente evocato, come parametro interposto, l’art. 66, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, trattandosi di una norma che detta i limiti al cosiddetto turn over, valevoli per le sole assunzioni a tempo indeterminato.

Più in generale, la Regione Calabria sostiene che il ricorrente non abbia prospettato il “profilo” della questione di legittimità costituzionale: mancherebbe nel ricorso un esplicito riferimento alla consistenza delle strutture e dei ruoli, qual era prima dell’entrata in vigore della disciplina impugnata, ed, in particolare, il ricorrente avrebbe omesso di considerare l’avvenuto sdoppiamento delle figure di Segretario generale e di Direttore generale del Consiglio regionale, che avrebbe determinato la necessità di un ampliamento dei ruoli e delle strutture dirigenziali.

L’omissione anzidetta determinerebbe l’inammissibilità delle censure formulate.

2.5.– Secondo la resistente, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 sarebbe inammissibile, in quanto il ricorrente non avrebbe adeguatamente argomentato la sussistenza dei presupposti minimi perché la misura prevista dalla norma impugnata possa essere considerata “aiuto di Stato” ai sensi della normativa dell’Unione europea (è richiamata al riguardo la sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2011).

La Regione Calabria contesta anche la fondatezza della medesima questione, poiché il presunto aiuto di Stato consisterebbe in una misura di importo esiguo; circostanza, questa, che è stata riconosciuta dallo stesso ricorrente e che sarebbe ancor più significativa – sempre secondo la resistente – alla luce dell’ambito di azione in cui opera la società beneficiaria.

Nei confronti del comma 2 dell’art. 43 della legge regionale impugnata sarebbe poi prospettabile un ulteriore profilo di infondatezza, consistente «nell’assoluta insussistenza» anche teorica di un’ipotesi di aiuto di Stato. Si tratterebbe, infatti, di importo autorizzato «per la sottoscrizione da parte della Regione Calabria della quota di aumento di capitale sociale […] deliberato dall’Assemblea dei soci nella seduta del 2 luglio 2011, in misura proporzionale alla partecipazione al capitale sociale».

In definitiva, la norma impugnata, lungi dal prevedere alcuna forma di aiuto di Stato, troverebbe la sua ratio nell’esigenza di rispettare un preciso obbligo giuridico gravante sulla Regione Calabria in virtù della sua qualità di socio della SO.G.A.S. S.p.A.

2.6.– Le argomentazioni esposte a sostegno dell’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 43 sono richiamate anche con riguardo alla censura che ha ad oggetto l’art. 44 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011. Pure in quest’ultimo caso, infatti, il ricorrente si sarebbe limitato a qualificare la norma impugnata come aiuto di Stato, senza argomentare in ordine alla sussistenza dei presupposti minimi per poter operare siffatta qualificazione.

2.7.– In merito all’impugnazione dell’art. 52, comma 4, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, la resistente ritiene che un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della disposizione in parola possa escludere la fondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale.

In ogni caso, la medesima difesa precisa che la seconda Commissione del Consiglio regionale ha approvato, in data 9 febbraio 2012 – e quindi già prima della notifica del ricorso di cui si discute – una proposta di legge integralmente sostitutiva del comma 4 dell’art. 52. La Commissione consiliare, in data 15 marzo 2012, ha poi predisposto un emendamento interamente sostitutivo, che si compone di un unico articolo suddiviso in due commi, con il quale, sempre a detta della resistente, «si esplicita in modo dettagliato la conformità della proposta alle disposizioni in materia di contenimento della spesa per il personale (art. 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78), i motivi del rinnovo contrattuale, la quantificazione degli oneri finanziari derivanti dall’applicazione della norma».

La Regione Calabria conclude sul punto affermando che, se siffatta proposta di legge sarà definitivamente approvata dal Consiglio regionale, potrà essere dichiarata la manifesta infondatezza delle questioni promosse.

2.8.– La difesa regionale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità della questione relativa all’art. 55, comma 1, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, rilevando come il parametro interposto (art. 17, comma 10, del d.l. n. 78 del 2009) si riferisca al triennio 2010-2012, mentre la norma impugnata differisce il termine di attuazione del piano di stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili dal 31 dicembre 2011 al 31 dicembre 2014. Pertanto, un eventuale dispositivo di mero accoglimento della questione promossa «parrebbe eccedere l’interesse a ricorrere del Governo statale»; semmai, il ricorrente avrebbe potuto censurare l’art. 55 «solo per la parte della norma impugnata che dispone la sua efficacia sino al 31 dicembre 2012».

2.9.– La resistente ritiene, ancora, che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 sia «mal posta», a causa dell’individuazione del «motivo di diritto» della questione nella «mancata previsione di oneri da parte della legge regionale impugnata». Infatti, a fronte di questa ragione di censura, lo stesso ricorrente riconosce che la disposizione impugnata prevede espressamente un’innovazione legislativa «senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale».

Né, aggiunge la difesa regionale, sarebbe stato dedotto il vizio di irragionevolezza e/o di irrazionalità di un combinato disposto che, da una parte, prevede un ampliamento di organico e, dall’altra, impone un vincolo finanziario a costo zero. D’altronde, nel caso di specie, il fine della norma impugnata non consisterebbe nel contenimento della spesa ma nel «buon andamento amministrativo», da realizzare tramite il potenziamento delle strutture tecniche della Stazione unica appaltante.

2.10.– Da ultimo, la Regione Calabria contesta radicalmente l’impugnazione dell’art. 50 della legge reg. Calabria, ritenendo che il motivo di ricorso, fondato sull’art. 120, secondo comma, Cost., sia «nullo, oltre che inammissibile, stante la genericità delle censure mosse». L’impugnativa sarebbe, in ogni caso, manifestamente infondata.

Secondo la difesa regionale, non sarebbe utilmente richiamabile la sentenza della Corte costituzionale n. 78 del 2011, avendo, quest’ultima, ad oggetto norme di «tenore ben diverso» da quelle contenute nell’art. 50 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011. Queste ultime non determinerebbero, infatti, «alcuna situazione di interferenza sulle funzioni commissariali, idonea ad integrare la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.».

Quanto alla lamentata violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la resistente obietta che essa si fonderebbe su «una erronea valutazione» del dato normativo, poiché con la norma impugnata non sarebbero stati adottati nuovi provvedimenti che siano di ostacolo alla piena attuazione del piano di rientro. Al contrario, il censurato art. 50 assicurerebbe una copertura finanziaria ai debiti contratti dalla Regione nei confronti dei beneficiari della legge reg. Calabria n. 8 del 1999, preesistente rispetto all’adozione del piano di rientro e non interferente con esso. Anzi, l’esigenza di approvare la normativa impugnata sarebbe sorta proprio in conseguenza degli obblighi assunti dalla Regione con il richiamato piano di rientro dal disavanzo sanitario.

Nella prospettiva seguita dalla resistente risulterebbe parimenti infondato il richiamo ai principi fondamentali recati dall’art. 1, comma 796, lettera b), della legge n. 296 del 2006, che non sarebbero in alcun modo violati. Del tutto inconferente sarebbe il riferimento alle sentenze n. 141 e n. 100 del 2010 della Corte costituzionale, trattandosi di pronunzie relative a giudizi nei quali le norme censurate «miravano alla nuova istituzione di strutture in deroga alla normativa in materia di organizzazione del servizio sanitario regionale e di contenimento della spesa pubblica».

Infine, l’asserita violazione dell’art. 81, quarto comma, Cost. è ritenuta dalla difesa regionale «una svista», poiché dalla mera lettura della disposizione censurata si evincerebbe «la radicale previsione della copertura finanziaria, di cui si denuncia, al contrario, la mancanza».

Per quanto concerne, poi, il contenuto dell’art. 50, commi 3 e 4, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, sarebbe di tutta evidenza la manifesta infondatezza, posto che le norme impugnate determinano «una limitazione alle provvidenze previste dalla legge regionale n. 8 del 1999».

3.– In data 1° giugno 2012 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato un atto di rinuncia al ricorso limitatamente all’impugnazione degli artt. 10, 14 e 15 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011.

In particolare, la difesa statale ha preso atto dell’intervenuta emanazione del d.l. n. 16 del 2012, che al comma 4 dell’art. 4, concernente la fiscalità locale, dispone l’abrogazione degli artt. 77-bis, comma 30, e 77-ter, comma 19, del d.l. n. 112 del 2008, nonché dell’art. 1, comma 123, della legge n. 220 del 2010. A seguito delle anzidette modifiche legislative le Regioni e gli enti locali possono deliberare aumenti di tributi; al contempo, sono fatti salvi i provvedimenti normativi relativi all’anno di imposta 2012, emanati prima dell’approvazione del d.l. n. 16 del 2012.

Il ricorrente ha, pertanto, ritenuto che siano venuti meno i motivi d’impugnativa degli artt. 10, 14 e 15.

4.– In data 20 dicembre 2012 la Regione Calabria ha depositato un atto di accettazione della rinunzia parziale.

5.– In prossimità dell’udienza del 15 gennaio 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato una memoria, nella quale – limitatamente alle questioni promosse nei confronti degli artt. 16, comma 3, 17, 26, 32, 43, 44, 50, 52, comma 4, e 55, comma 1, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 – insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso.

5.1.– In particolare, quanto all’impugnativa dell’art. 16, comma 3, la difesa statale replica alle obiezioni della Regione, osservando come, nel caso di specie, non sia necessario individuare la norma statale violata per sostenere le ragioni del contrasto con la competenza dello Stato in materia di prescrizione e di azione penale.

In altre parole, la norma impugnata sarebbe riconducibile ad un ambito materiale in cui la Regione non può dettare alcuna disciplina, neppure «meramente riproduttiva di quella statale».

5.2.– L’Avvocatura generale dello Stato replica anche ai rilievi formulati dalla difesa regionale nei confronti delle censure mosse all’art. 17 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, osservando che nessuna incidenza ha sull’odierna questione l’entrata in vigore dell’art. 4 del d.l. n. 16 del 2012. La norma di riferimento, nel presente caso, sarebbe infatti quella di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 68 del 2011, tuttora in vigore.

Inoltre, non avrebbe rilievo la circostanza – dedotta dalla controparte – secondo cui la disciplina regionale non avrebbe avuto ancora materiale attuazione da parte della Giunta regionale. Secondo il ricorrente, la mancata attuazione non farebbe venir meno l’asserita illegittimità costituzionale, poiché non escluderebbe né posticiperebbe l’efficacia della disciplina legislativa adottata in contrasto con gli evocati parametri costituzionali.

5.3.– L’Avvocatura generale contesta, inoltre, le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa regionale nei confronti delle questioni relative all’art. 26 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, rilevando come, nel caso di specie, non sia necessaria l’indicazione di specifici parametri interposti, desumibili dalla legislazione statale. In ogni caso, aggiunge il ricorrente, ciò sarebbe avvenuto con il riferimento al complesso delle disposizioni recate dal Titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001.

La difesa statale concorda, poi, con la resistente quanto alla necessità che la normativa regionale rispetti i contratti collettivi nazionali.

Da ultimo, il ricorrente ribadisce la natura di norma interposta dell’art. 66, comma 7, del d.l. n. 112 del 2008, non essendovi nella disposizione censurata alcuna specificazione sulla tipologia del rapporto di impiego delle unità di personale da assumere. Quanto alla mancata considerazione della consistenza delle strutture prima dell’entrata in vigore della normativa impugnata, l’Avvocatura generale si limita ad osservare che dalla lettura dell’art. 26 emerge chiaramente l’intento di aumentare la consistenza del personale, anche assumendo personale esterno alla pubblica amministrazione.

5.4.– Con riguardo all’impugnativa dell’art. 43, la difesa statale rileva l’inutilizzabilità della sentenza n. 185 del 2011, trattandosi di una fattispecie in cui i contributi non erano destinati ad una singola società individuata dallo stesso legislatore – come nell’odierno giudizio – ma ad una pluralità di soggetti, molti dei quali privi del requisito dell’imprenditorialità, con la conseguenza che siffatti interventi potevano essere ritenuti non idonei ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri e a minacciare o falsare la concorrenza.

Nel caso oggi in esame, invece, i requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale sarebbero tutti sussistenti; infatti, a) l’intervento proviene da una articolazione dello Stato (la Regione) ed è effettuato mediante risorse pubbliche, b) l’intervento incide indubbiamente sugli scambi tra Stati membri, avendo per oggetto una società aeroportuale, cioè un soggetto che svolge la propria attività in un settore nel quale ben possono operare imprese aventi sede in altri Stati membri, c) l’intervento concede un vantaggio economico al suo beneficiario, che falsa la concorrenza, trattandosi del conferimento di complessivi euro 438.000.

Sarebbe dunque pienamente soddisfatto l’onere di allegazione richiesto dalla sentenza n. 185 del 2011.

Nel merito, poi, la circostanza che il conferimento delle somme avvenga in larga parte con la sottoscrizione da parte della Regione di una quota di aumento di capitale sociale non esclude, per l’entità delle stesse, che tale conferimento costituisca comunque aiuto di Stato.

5.5.– Con riferimento alle censure promosse nei confronti dell’art. 44 della legge reg. n. 47 del 2011, il ricorrente richiama quanto già detto in relazione all’art. 43.

5.6.– In riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 52, comma 4, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, la difesa statale si limita a rilevare che la semplice pendenza di un procedimento legislativo, diretto a modificare le disposizioni impugnate, «non è causa né di inammissibilità né di manifesta infondatezza (sopravvenuta), né, più in generale, di cessazione della materia del contendere».

5.7.– Quanto alle censure promosse nei confronti dell’art. 55, comma 1, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, l’Avvocatura generale dello Stato, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, sottolinea come la prospettazione della Regione non meriti di essere condivisa. A prescindere dall’ambito temporale di riferimento (2010-2012), l’art. 17, comma 10, del d.l. n. 78 del 2009 costituirebbe principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica, per quanto riguarda la limitazione percentuale delle nuove assunzioni. Si tratterebbe, infatti, di una norma che, oltre a fissare limiti quantitativi al turn over, attribuisce alle pubbliche amministrazioni il potere di bandire concorsi per le assunzioni.

5.8.– Con riguardo all’art. 32 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, la difesa statale precisa che l’espressione contenuta nella disposizione in esame, secondo cui le novità introdotte non comporterebbero oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale, costituisce «una mera enunciazione priva di sostanza», a causa dell’«inevitabilità di oneri economici derivanti da aumenti del personale».

In altre parole, l’Avvocatura generale dello Stato muove «dal presupposto, sorretto dal requisito dell’evidenza, dell’impossibilità di assumere unità di personale a costo zero» e ne fa conseguire la violazione del principio di copertura della spesa «per l’evidente inefficacia della mera clausola di stile apposta alla disposizione».

5.9.– In merito all’impugnazione dell’art. 50, il ricorrente insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso ribadendo che la norma censurata realizza una diretta interferenza con il piano di rientro, il quale ha ad oggetto sia la spesa sanitaria futura, sia, soprattutto, le modalità per il ripianamento del disavanzo dovuto alla spesa già sostenuta.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 10, 14, 15, 16, comma 3, 17, 26, 32, 43, 44, 50, 52, comma 4, e 55, comma 1, della legge della Regione Calabria 23 dicembre 2011, n. 47 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale – Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2012. Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002), per violazione degli artt. 81, quarto comma, 117, commi primo, secondo, lettere e) ed l), e terzo, 119, secondo comma, e 120, secondo comma, della Costituzione.

2.– Preliminarmente, deve essere rilevato che, in data 1° giugno 2012, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato atto di rinuncia al ricorso limitatamente all’impugnazione degli artt. 10, 14 e 15 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011. In data 20 dicembre 2012 la Regione Calabria ha depositato atto di accettazione della rinunzia parziale.

Pertanto, il giudizio di legittimità costituzionale, limitatamente agli artt. 10, 14 e 15, deve essere dichiarato estinto (ex plurimis, sentenze n. 278 e n. 262 del 2012; ordinanza n. 266 del 2012).

3.– Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011.

L’art. 24 della legge della Regione Calabria 27 dicembre 2012, n. 69 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario – Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2013) ha sostituito il citato art. 17 eliminando lo specifico profilo oggetto di censura. A seguito della modifica normativa di cui sopra, l’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili (IRESA) è stata istituita come tributo proprio a far data dal 1° gennaio 2013, rispettando così il termine imposto dall’art. 8 del decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68 (Disposizioni in materia di autonomia di entrata delle regioni a statuto ordinario e delle province, nonché di determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario).

La norma impugnata, nella sua versione originaria, è rimasta in vigore dal 28 febbraio al 31 dicembre 2012; non risulta, però, che in questo lasso di tempo la Giunta regionale abbia disposto in merito: «a) alle modalità di accertamento, di liquidazione, di riscossione, di recupero e di rimborso dell’imposta, nonché all’applicazione delle sanzioni; b) alla eventuale stipulazione di apposite convenzioni con le società di gestione degli aeroporti, ovvero con i fiduciari di cui all’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 15 novembre 1982, n. 1085, per l’espletamento delle attività di cui alla lettera a)» (secondo quanto previsto dall’art. 17, comma 7, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, nel testo antecedente alla sua sostituzione ad opera dell’art. 24 della legge reg. Calabria n. 69 del 2012).

In definitiva, non risultando che la norma impugnata, durante il periodo della sua vigenza, abbia avuto applicazione, deve essere dichiarata cessata la materia del contendere.

4.– La questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 16, comma 3, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è fondata.

4.1.– La suddetta disposizione prevede, tra l’altro, che l’esercizio dell’azione penale costituisce causa di interruzione della decorrenza del termine di prescrizione quinquennale previsto per il recupero dell’imposta sui carburanti per autotrazione.

Secondo il ricorrente, la disposizione suindicata violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., perché detta norme in materia di prescrizione e decadenza dei diritti, materia riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, in quanto inerente, sotto il profilo sostanziale, all’ordinamento civile e penale e, sotto il profilo processuale, alla definizione delle preliminari di merito nell’esercizio dell’azione davanti alle giurisdizioni.

4.2.– La norma è chiaramente riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale – l’ordinamento civile e penale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. – in cui la Regione non può emanare alcuna normativa, anche meramente riproduttiva di quella statale (sentenze n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006). Non ha pregio pertanto l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa regionale, secondo la quale il ricorrente avrebbe dovuto indicare la normativa statale violata. L’illegittimità costituzionale non deriva, infatti, dalla violazione di una norma interposta, ma dal puro e semplice sconfinamento della legge regionale in una materia attribuita dalla Costituzione alla competenza esclusiva dello Stato.

5.– La questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 26 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è fondata.

5.1.– La suddetta disposizione sostituisce il testo dell’art. 7 della legge della Regione Calabria 13 maggio 1996, n. 8 (Norme sulla dirigenza e sull’ordinamento degli Uffici del Consiglio regionale), con un nuovo testo, nel quale, al comma 4, è previsto: «Il trattamento economico dei dirigenti di Area Funzionale è definito dall’Ufficio di Presidenza»; è sostituito inoltre il testo dell’art. 7-bis della legge reg. Calabria n. 8 del 1996 con un nuovo testo, che stabilisce: «Le strutture speciali del Segretariato generale e della Direzione generale sono composte ciascuna da tre unità di personale, di cui due possono essere esterni alla pubblica amministrazione».

Ad avviso del ricorrente, la prima norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva allo Stato la materia dell’ordinamento civile e, quindi, la regolamentazione dei rapporti di pubblico impiego privatizzato regolati dal codice civile e/o dalla contrattazione collettiva.

La seconda norma violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la competenza a fissare i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

La stessa norma violerebbe altresì l’art. 81, quarto comma, Cost., perché, pur prevedendo nuove e maggiori spese per la sua applicazione, non indicherebbe i mezzi per farvi fronte.

5.2.– La disciplina del trattamento economico dei dirigenti di area funzionale deve essere ritenuta compresa nella materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Si deve, in proposito, richiamare l’art. 40 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale dispone, al comma 4, che «le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali e integrativi»; inoltre il comma 3-quinquies dello stesso articolo aggiunge che «le Regioni, per quanto concerne le proprie amministrazioni, e gli enti locali possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale e nei limiti dei parametri di virtuosità fissati per la spesa di personale dalle vigenti disposizioni, in ogni caso nel rispetto dei vincoli di bilancio e del patto di stabilità e di analoghi strumenti del contenimento della spesa».

La norma impugnata non provvede allo stanziamento di eventuali risorse aggiuntive nei limiti sopra indicati, ma dispone, puramente e semplicemente, che l’intero trattamento economico dei dirigenti in questione sia determinato dall’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale.

Parimenti meritevole di accoglimento è l’impugnazione proposta nei confronti del citato art. 26, nella parte in cui novella, nei termini prima riportati, l’art. 7-bis della legge reg. Calabria n. 8 del 1996.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che i limiti di cui all’art. 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, costituiscono principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenze numeri 289, 262, 259, 212 e 173 del 2012). In particolare, nella norma statale richiamata si stabilisce che, «a decorrere dall’anno 2011», gli enti pubblici, di cui all’art. 70, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 (tra cui le Regioni) «possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009».

A sua volta, l’art. 2, comma 102, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008) – ripetutamente modificato, a partire dall’art. 66, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, e da ultimo dall’art. 14 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135 – dispone che «Per il quinquennio 2010-2014, le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 523, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, […] possono procedere, per ciascun anno, previo effettivo svolgimento delle procedure di mobilità, ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite di un contingente di personale complessivamente corrispondente ad una spesa pari al 20 per cento di quella relativa al personale cessato nell’anno precedente. In ogni caso il numero delle unità di personale da assumere non può eccedere, per ciascun anno, il 20 per cento delle unità cessate nell’anno precedente».

Di questi limiti non ha tenuto conto il legislatore regionale, il quale, novellando l’art. 7-bis della legge reg. Calabria n. 8 del 1996, ha stabilito che le strutture speciali del Segretariato generale e della Direzione generale del Consiglio regionale siano composte ciascuna da tre unità di personale, di cui due possono essere esterni alla pubblica amministrazione. L’illegittimità di tale norma regionale deriva dall’aver disposto un aumento dell’organico del personale del Consiglio regionale, prevedendo ulteriori tre unità di personale e prescindendo dal rispetto dei vincoli posti dalle norme statali sopra richiamate. Il testo precedente della disposizione era, infatti, il seguente: «La struttura speciale del Segretariato generale è composta da tre unità di personale, di cui due possono essere esterni alla pubblica amministrazione».

Il confronto tra le due disposizioni regionali prima ricordate dimostra l’evidente superamento dei limiti posti dalla normativa statale di riferimento. Né può valere come argomento a favore dell’infondatezza della censura la considerazione, formulata dalla difesa regionale, secondo cui si dovrebbe tener conto dello sdoppiamento dell’originario Segretariato generale nei nuovi Segretariato generale e Direzione generale. Tale rilievo, lungi dal fornire sostegno alla richiesta di rigetto della questione, dimostra, per ammissione della stessa resistente, la fondatezza della censura relativa al superamento dei limiti imposti dalla normativa statale di principio.

Si deve ritenere assorbita l’ulteriore questione di legittimità costituzionale sulla stessa disposizione prospettata dal ricorrente.

6.– La questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 43 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è inammissibile.

Il comma 1 della suddetta disposizione prevede il ripianamento delle perdite relative all’anno 2010 della Società di Gestione per l’Aeroporto dello Stretto (SO.G.A.S.) S.p.A., con una spesa di euro 38.000.

Il comma 2 delibera la copertura di spesa pari a euro 400.000, necessari alla sottoscrizione, da parte della Regione Calabria, della quota di aumento di capitale della SO.G.A.S. S.p.A.

Secondo il ricorrente, le norme di cui sopra violerebbero l’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’ordinamento comunitario, in quando prevedrebbero misure che presentano le caratteristiche degli aiuti di Stato, senza che le stesse siano state notificate alla Commissione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 108, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

6.1.– Questa Corte ha chiarito, in coerenza con la giurisprudenza comunitaria, che perché si possa riscontrare un aiuto di Stato devono ricorrere alcuni requisiti minimi: «deve sussistere intervento dello Stato o di una sua articolazione o comunque effettuato mediante risorse pubbliche; in secondo luogo, tale intervento deve essere idoneo ad incidere sugli scambi tra Stati membri; in terzo luogo, l’intervento deve concedere un vantaggio al suo beneficiario; infine tale vantaggio deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza […]. Non solo, ma la sovvenzione in questione deve superare i limiti al di sotto dei quali l’intervento può essere considerato “di importanza minore” (de minimis) ai sensi del regolamento n. 1998 del 2006 della Commissione del 15 dicembre 2006». La nozione di aiuto di Stato «può ritenersi integrata soltanto ove sussistano tutti i presupposti previsti [dall’art. 107 del TFUE]» (sentenza n. 185 del 2011).

Il ricorrente non allega alla censura, basata sull’asserita violazione della normativa comunitaria sugli aiuti di Stato, elementi di valutazione sufficienti ad operare quel limitato accertamento che, ai sensi dell’art. 108 TFUE, spetta ai giudici nazionali – e quindi anche a questa Corte – per verificare l’inosservanza dell’obbligo di notifica alla Commissione europea imposto dall’art. 108, par. 3, TFUE. La difesa statale si limita a sostenere che i requisiti minimi di cui sopra «devono essere ritenuti sussistenti in via di evidenza; evidenza che risulta da sola sufficiente a soddisfare l’onere di allegazione indicato dalla […] giurisprudenza costituzionale». Invero non di concrete allegazioni si tratta, ma di mere asserzioni del ricorrente, che, per la loro genericità, non consentono di valutare se, nella fattispecie, si possa parlare in senso proprio di un aiuto di Stato, anche in relazione al regime “de minimis” della normativa europea (con riferimento al comma 1 dell’impugnato art. 43, che prevede una spesa di euro 38.000).

7.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è parimenti inammissibile per genericità.

7.1.– La disposizione impugnata dispone il contributo regionale straordinario di euro 150.000 a parziale copertura delle spese relative alle mensilità arretrate per il personale dell’Ente Fiera di Cosenza.

Anche in questo caso, il ricorrente asserisce che la norma prima indicata abbia le caratteristiche dell’aiuto di Stato, la cui compatibilità deve essere rimessa alla valutazione della Commissione europea, previa notifica alla stessa, nella specie non prevista.

Il ricorrente non fornisce tuttavia alcun elemento di valutazione in ordine alle ragioni per le quali il contributo di cui sopra costituirebbe aiuto di Stato, pur essendo inferiore alla soglia minima di euro 200.000 in un triennio, indicata dall’art. 2 del regolamento n. 1998 del 2006 della Commissione. Nel ricorso, peraltro, non si trova alcun riferimento ad eventuali contributi corrisposti allo stesso soggetto nel medesimo triennio.

8.– La questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 52, comma 4, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è fondata.

8.1.– Con la norma censurata si autorizza la Giunta regionale a «rinnovare fino al 31.12.2012, a domanda dell’interessato, i contratti di collaborazione al personale già assegnato all’Osservatorio del Turismo, attualmente in servizio presso il Dipartimento Turismo, Sport, Spettacolo e Politiche Giovanili per la gestione del sistema informativo turistico».

Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile, nella quale rientra anche la regolamentazione delle modalità di affidamento e rinnovo dei contratti di collaborazione, e del terzo comma dello stesso articolo, che riserva allo Stato la fissazione dei principi in materia di coordinamento della finanza pubblica, in concreto dettati dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001 e dall’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010.

La resistente comunica che è in corso l’iter di approvazione di una legge regionale integralmente sostitutiva dell’impugnato comma 4 dell’art. 52 ed aggiunge che, se tale proposta sarà definitivamente approvata dal Consiglio regionale, potrà essere dichiarata l’infondatezza della questione relativa.

La difesa statale obietta che la semplice pendenza di un procedimento legislativo non è causa di inammissibilità del ricorso né di cessazione della materia del contendere.

8.2.– Preliminarmente, si deve rilevare che il procedimento legislativo regionale di cui al paragrafo precedente non è, al momento, giunto a conclusione e che, pertanto, nessuna incidenza può avere lo stesso sul presente giudizio.

Nel merito, si deve osservare che la disciplina impugnata rientra nella materia dell’ordinamento civile, attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Questa Corte ha già affermato che sono costituzionalmente illegittime le norme regionali che autorizzano le amministrazioni a disporre la proroga di contratti di collaborazione, in quanto «una simile disposizione, attenendo ad uno degli aspetti della disciplina (di diritto privato) di tali contratti, vale a dire la loro durata, incide[va] sulla materia dell’ordinamento civile» (sentenza n. 289 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 170 del 2011).

Si deve ritenere assorbito l’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale prospettato del ricorrente.

9.– La questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 55, comma 1, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è fondata.

9.1.– La disposizione impugnata modifica il termine finale per l’attuazione del piano di stabilizzazione del personale appartenente alla categoria dei lavoratori socialmente utili, precedentemente previsto per il 31 dicembre 2011, posticipandolo al 31 dicembre 2014.

Il ricorrente ritiene che la norma citata sia costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi in materia di coordinamento della finanza pubblica, in concreto dettati dall’art. 17, comma 10, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102.

9.2.– Questa Corte ha già affermato, proprio con riferimento ad un’analoga previsione legislativa della Regione Calabria, che le norme statali in tema di stabilizzazione dei lavoratori precari costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenza n. 310 del 2011).

Deve essere disattesa l’obiezione, avanzata dalla difesa regionale, secondo cui la norma statale interposta (art. 17, comma 10, d.l. n. 78 del 2009) si applicherebbe solo al triennio 2010-2012 e non anche al 2013 e al 2014. Tale eccezione si fonda su una erronea interpretazione del dato legislativo. Infatti, lo scopo perseguito dal legislatore statale è quello di consentire, nel triennio 2010-2012, la stabilizzazione dei precari nelle amministrazioni pubbliche, mediante la previsione di una riserva di posti in concorsi banditi per assunzioni a tempo indeterminato. La ratio dell’intervento legislativo statale è pertanto quella di favorire l’assorbimento del precariato nelle pubbliche amministrazioni. Lo scopo perseguito dal legislatore regionale, con la norma impugnata, è invece diametralmente opposto; infatti si dispone la proroga al 2014 del termine finale di stabilizzazione dei precari, con l’effetto di sfuggire ai limiti prescritti dalla normativa statale. Pertanto, se l’eccezione della difesa regionale fosse accolta, si legittimerebbe anche per il futuro una prassi delle Regioni, le quali, anziché rispettare i vincoli statali, si limitassero in modo illegittimo – come nel caso oggetto del presente giudizio – a prorogare la stabilizzazione di precari assunti sulla base di leggi regionali che non avevano previsto i limiti di cui sopra.

10.– La questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 32 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è fondata.

10.1.– La disposizione censurata apporta modifiche all’art. 1 della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2007, n. 26 (Istituzione dell’Autorità regionale denominata “Stazione Unica Appaltante” e disciplina della trasparenza in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture), ed in particolare: modifica il comma 4 dell’art. 1, prevedendo l’incremento da una a tre delle “sezioni tecniche” della Stazione unica appaltante (SUA); introduce il comma 4-bis nel medesimo art. 1, disponendo che «per ogni sezione tecnica è […] previsto un dirigente equiparato a quello di servizio della Giunta regionale»; introduce l’ulteriore comma 4-ter, il quale dispone che «Il Direttore generale della Stazione Unica Appaltante è autorizzato ad apportare le relative modifiche al regolamento di organizzazione, in deroga a quanto previsto al comma 1 dell’articolo 2».

Il ricorrente ritiene che le norme ora citate violino l’art. 81, quarto comma, Cost., perché, incrementando da una a tre le “sezioni tecniche” della Stazione Unica Appaltante, per l’acquisizione di beni e servizi nell’ambito sanitario regionale, e prevedendo l’assunzione di tre dirigenti, ometterebbero di quantificare gli inevitabili oneri derivanti dall’istituzione delle nuove sezioni tecniche (e, in particolare, dal costo del personale necessario al funzionamento delle stesse) e di individuare i relativi mezzi di copertura.

10.2.– Il legislatore calabrese, aumentando da una a tre le sezioni tecniche, ha previsto nell’organico regionale due nuove figure di dirigenti, con il conseguente obbligo di ricoprire queste sopravvenute carenze dell’organico stesso. Nessuna indicazione contiene la norma impugnata sui mezzi per far fronte alle maggiori spese derivanti da tale incremento.

La previsione dell’assenza di oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale, contenuta nel comma 1 della disposizione impugnata, – ritenuta dalla difesa regionale sufficiente ad escludere la violazione del parametro costituzionale evocato dal ricorrente – costituisce una mera clausola di stile, priva di sostanza, in quanto né il testo della disposizione né la difesa regionale forniscono alcuna spiegazione del modo in cui si potranno affrontare le inevitabili spese derivanti da un aumento di organico, senza incidere sul bilancio. Questa Corte ha già chiarito che la copertura di nuove spese «deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri» (sentenza n. 213 del 2008). A ciò deve aggiungersi che «La mancanza o l’esistenza di un onere si desume dall’oggetto della legge e dal contenuto di essa» (sentenza n. 115 del 2012).

Nel caso di specie, sia l’oggetto della norma impugnata, sia il contenuto della stessa dimostrano l’inevitabilità di nuove e maggiori spese a carico del bilancio regionale, delle quali non si indicano i mezzi di copertura.

11.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 50 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011 è fondata.

11.1.– La norma censurata dispone la copertura finanziaria dei debiti contratti dalla Regione nei confronti dei beneficiari della legge della Regione Calabria 29 marzo 1999, n. 8 (Provvidenze in favore di soggetti affetti da particolari patologie).

Il ricorrente ritiene che la disposizione impugnata violi: a) l’art. 120, secondo comma, Cost., perché l’applicazione di tale norma comporterebbe una interferenza con l’esercizio delle funzioni del Commissario ad acta, nominato ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost. ed incaricato dell’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione Calabria; b) l’art. 117, terzo comma, Cost., che riserva allo Stato la fissazione dei principi in materia di coordinamento della spesa pubblica sanitaria; c) l’art. 81, quarto comma, Cost., perché ometterebbe di quantificare gli inevitabili oneri derivanti dalla sua applicazione, e di individuare i relativi mezzi di copertura finanziaria.

11.2.– La norma censurata, assicurando la copertura finanziaria di debiti pregressi contratti dalla Regione, incide sul già deficitario bilancio regionale della spesa sanitaria, con ciò interferendo in modo evidente con l’operato del Commissario. In termini simili si è pronunciata questa Corte, in relazione ad una legge della stessa Regione Calabria: ogni intervento che possa aggravare il disavanzo sanitario regionale, «avrebbe l’effetto di ostacolare l’attuazione del piano di rientro e, quindi, l’esecuzione del mandato commissariale. Ne deriva, perciò, la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 131 del 2012).

Si devono ritenere assorbite le altre censure di legittimità costituzionale prospettate dal ricorrente.

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, comma 3, della legge della Regione Calabria 23 dicembre 2011, n. 47 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale – Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2012. Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 26 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, nella parte in cui novella gli artt. 7, comma 4, e 7-bis della legge della Regione Calabria 13 maggio 1996, n. 8 (Norme sulla dirigenza e sull’ordinamento degli Uffici del Consiglio regionale);

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011;

4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 50 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011;

5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 52, comma 4, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011;

6) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 55, comma 1, della legge reg. Calabria n. 47 del 2011;

7) dichiara estinto il processo limitatamente alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10, 14 e 15 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011;

8) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera e), e 119, secondo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

9) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 43 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, promossa, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

10) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 della legge reg. Calabria n. 47 del 2011, promossa, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2013.

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