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“Appello di Salerno chiamata a pronunciarsi sul ricorso contro la sentenza di primo grado presentato da Luigi de Magistris, per l’avocazione e revocazione delle inchieste ‘Why Not’ e ‘Poseidone’ quando era pm a Catanzaro: “reati estinti perchè prescritti ed inoltre essendoci i presupposti per un’assoluzione piena per la presenza di alcune criticità e irregolarità”.

Il tribunale salernitano aveva assolto ex l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, l’avvocato ed ex senatore, Giancarlo Pittelli, l’ex sottosegretario alle Attività Produttive, Giuseppe Galati, l’ex procuratore generale facente funzioni della Corte d’Appello di Catanzaro, Dolcino Favi, e l’imprenditore Antonio Saladino.

Il parametro utilizzato dai giudici d’Appello salernitani nel dichiarare la prescrizione è rappresentato dall‘articolo 129 del codice di procedura penale: dagli atti non risulta evidente che il fatto non sussiste o che gli imputati non avessero commesso i reati contestati o, ancora, che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Dunque, non c’era evidenza dell’innocenza degli imputati che rispondevano di abuso d’ufficio. Il collegio si è limitato a enucleare gli atti che sembravano sintomatici di uno sviamento della funzione giudiziaria perché diretti a favorire alcuni indagati. Con una pronuncia del genere, si lascia spazio ad un’azione di tipo risarcitorio, quindi, in ambito civile.

De Magistris: magistrati autonomi e coraggiosi”

“A distanza di oltre dieci anni dai fatti Magistrati autonomi, onesti e coraggiosi stabiliscano quello che tutte le persone perbene che hanno avuto modo di conoscere i fatti ben sapevano”. A dirlo, il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris in merito alle motivazioni, appena depositate, della sentenza nel processo di Salerno nel quale era difeso dall’avvocato Elena Lepre per la revoca del procedimento Poseidone da parte del procuratore di Catanzaro Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’avocazione del procedimento Why Not da parte del procuratore generale Dolcino Favi che, dunque, “furono illegittime. Nella sentenza si riconosce che gli imputati, per i capi di imputazione loro contestati, hanno commesso abuso d’ufficio nel sottrarmi le indagini. Atti illeciti, al fine di cagionarmi un danno ingiusto ed un vantaggio ingiusto agli indagati”. “Non vi è nessun precedente nella storia giudiziaria del nostro Paese – aggiunge l’ex pm – una criminale ragion di Stato condusse a fermare indagini che entravano nel cuore del sistema criminale dei rapporti tra criminalità organizzata, affari, politica, settori di magistratura e forze dell’ordine, con il collante della massoneria deviata”.

“Il Consiglio Superiore della Magistratura che sapeva o aveva il dovere di sapere come stavano realmente i fatti, avendo acquisito atti ed avendo ascoltato i valorosi magistrati di Salerno che indagavano sui magistrati di Catanzaro, decise, su sollecitazione del Ministro della Giustizia Mastella e della Procura Generale della Cassazione, di strapparmi la toga di pubblico ministero e trasferirmi da Catanzaro per incompatibilità ambientale. Difesero l’ambiente criminale e corrotto e trasferirono chi aveva individuato corrotti e corruttori. So bene che cosa avevamo scoperto e stavamo scoprendo, eravamo arrivati al cuore corrotto dello Stato, evidentemente verità che non dovevano scoprirsi. Con una violenza istituzionale senza precedenti hanno distrutto prima me e i miei collaboratori e poi i magistrati di Salerno, autonomi e coraggiosi, che avevano accertato l’onesta’ e la correttezza del mio operato e verificato che era in atto un’attività criminale, da parte di vari esponenti delle istituzioni e della magistratura, per fermarmi. Avete distrutto il mio difficile e complesso lavoro investigativo ma non avete distrutto la mia coscienza. Provo anche vergogna per tutti quelli che nelle Istituzioni in quegli anni, soprattutto nella magistratura, rimasero alla finestra a guardare lo spettacolo di deviazioni criminali senza precedenti. Se i criminali di Stato hanno vinto in quegli anni è stato anche per questa colpevole inerzia. Oggi, però, è come se mi sentissi di nuovo magistrato”.

Redazione quicosenza

Pubblicato in Italia

Da Iacchite -18 Gennaio 2019 Fonte: Il Fatto Quotidiano di Antonella Mascali

La notizia di 15 magistrati indagati dalla Procura di Salerno, inchiesta nata sulla base di atti trasmessi dal procuratore antimafia di Catanzaro, Nicola Gratteri, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris l’ha letta ieri di primo mattino.

Il flashback per lui è stato inevitabile.

È tornato indietro di una decina di anni, quando era ancora un magistrato e mai avrebbe pensato di lasciare la toga. Quel passo fu la conseguenza per la “punizione ” subita a causa di due inchieste condotte da pm a Catanzaro.

Si era messo contro tutti.

Chi segue le cronache politico-giudiziarie ricorderà i casi Why Not e Poseidone.

Sindaco, leggendo di questa indagine su magistrati calabresi cosa ha pensato?

Non mi permetterei mai di entrare nel merito delle indagini attuali, non sarebbe opportuno. Certo, mi sono ricordato di quando fui mandato via dalla Calabria. Lo Stato, attraverso il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto all’epoca da Giorgio Napolitano, scelse di mandare via il pubblico ministero che indagava su criminalità organizzata, massoneria deviata, poteri corrotti e di lasciare al proprio posto i magistrati che mi avevano sottratto le inchieste Poseidone e Why not.

Comunque, che quella sottrazione fosse illegittima è stato accertato…

Ci sono voluti ben dieci anni ma proprio qualche mese fa, a novembre, finalmente la Corte d’appello di Salerno, accogliendo un mio ricorso, ha accertato la verità. Ha dichiarato responsabili di abuso di ufficio i magistrati che mi sottrassero le inchieste dell’epoca a Catanzaro (l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone in concorso con l’ex senatore di FI Giancarlo Pittelli e con l’ex sottosegretario del ministero delle Attività produttive Giuseppe Galati per Poseidone; l’ex Pg facente funzioni di Catanzaro Dolcino Favi in concorso con l’imprenditore della Compagnia delle Opere Antonio Saladino, per Why Not. Per tutti è stata dichiarata la prescrizione, ndr)”. Insomma, ormai è chiaro che tolsero me e lasciarono il sistema.

Cosa intende per sistema?

Un intreccio deviato composto da magistrati, pezzi dello Stato e pezzi della politica.

I magistrati indagati o arrestati negli ultimi anni cominciano a essere tanti. Come mai secondo lei?

Ritengo che ci sia una responsabilità del Csm nel corso degli anni. Io non sono stato fermato in Calabria dalla lupara ma da Palazzo dei Marescialli che dovrebbe valutare chi, fra i magistrati, va fuori dai binari della giustizia. Invece, il Csm ha fermato chi adempie al proprio dovere. Durante la mia epoca ci fu un’azione contro le mie inchieste da parte del ministero della Giustizia guidato da Clemente Mastella, della Procura generale della Cassazione, titolari dell’azione disciplinare e del Csm. Strumentali furono le decine di interrogazioni parlamentari che legittimavano le ispezioni ministeriali. Ne subii per due-tre anni senza soluzione di continuità.

Dal suo punto di vista di ex magistrato, oggi c’è o non c’è una questione morale dentro la magistratura?

Lo pensavo già dieci anni fa e resi dichiarazioni ai pm di Salerno un centinaio di volte. Purtroppo non penso che sia particolarmente cambiata la situazione. E tengo a ricordare che i magistrati salernitani che avevano individuato la correttezza del mio operato e la responsabilità di chi voleva fermarmi, furono trasferiti dal Csm, l’allora procuratore addirittura fu sospeso (il procuratore Luigi Apicella e i pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, ndr). Non è mai accaduto nella storia giudiziaria una violenza istituzionale del genere nei confronti miei e dei colleghi di Salerno.

Cosa ne pensa della serata organizzata da “Fino a prova contraria” della giornalista Annalisa Chirico con politici, imprenditori e magistrati ?

Non voglio giudicare nessuno, non mi permetto ma da magistrato non sarei andato.

Cosa ne pensa del video del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dopo l’a rresto di Cesare Battisti?

Inguardabile.

Da sindaco di Napoli, come legge la bomba alla pizzeria di Gino Sorbillo, in pieno centro storico, l’ultima di una serie?

Torno a esprimere la mia solidarietà a Sorbillo ma sono convinto che Napoli oggi sia particolarmente matura, nella sua stragrande maggioranza dei cittadini, a respingere queste intimidazioni. Ho visto una reazione molto forte verso un atto vile e criminale, è stato giustamente considerato un atto contro la città.

Pubblicato in Calabria

La Corte di Appello di Salerno ha parzialmente riformato la sentenza emessa dai giudici di primo grado per il procedimento sullo scontro tra Procure. L’inchiesta risale ai tempi in cui il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris era magistrato ed è legata alla revoca del procedimento Poseidone e all’avocazione del procedimento Why Not all’allora pm.

Il 20 aprile 2016 i giudici salernitani avevano assolto Salvatore Murone, Giancarlo Pittelli, Giuseppe Galati, Antonio Saladino, Dolcino Favi, e Pierpaolo Greco.

Il primo cittadino di Napoli, parte civile, ha impugnato la sentenza di primo grado affinché i giudici di Appello volessero ritenere le condotte contestate agli imputati sussumibili nell’abuso d’ufficio, pur consapevole che fossero già coperti da intervenuta prescrizione.

La Corte di Appello di Salerno ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, ritenendo i fatti sussumibili nel reato di abuso d’ufficio, per il quale ha dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. (Ansa)

La Corte di Appello di Salerno ha parzialmente riformato la sentenza emessa dai Giudici di primo grado per il procedimento sul cosiddetto scontro tra Procure. L'inchiesta risale ai tempi in cui il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris era magistrato ed è legata alla revoca del procedimento Poseidone e all'avocazione del procedimento Why Not all'allora pubblico ministero. Il 20 aprile 2016 i giudici salernitani avevano assolto Salvatore Murone, ex procuratore aggiunto di Catanzaro; Giancarlo Pittelli, senatore di Forza Italia; Giuseppe Galati, ex sottosegretario alle attività produttive; Antonio Saladino, ex presidente della compagnia delle opere della Calabria; Dolcino Favi, ex procuratore generale facente funzione a Catanzaro e l'avvocato Pierpaolo Greco. Il primo cittadino di Napoli (difeso dagli avvocati Elena Lepre e Stefano Montone), parte civile nel procedimento, ha impugnato la sentenza di primo grado affinché i giudici di Appello volessero ritenere le condotte contestate agli imputati sussumibili nel reato di abuso d'ufficio, pur consapevole che fossero già coperti da intervenuta prescrizione in quanto relativi al 2007. La Corte di Appello di Salerno ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, ritenendo i fatti sussumibili nel reato di abuso d'ufficio, per il quale ha dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.

«Esprimo grande soddisfazione per il fatto che, seppur a distanza di così tanto tempo e seppur con tante ingiustizie che ho dovuto subire, la Corte d'appello di Salerno abbia riconosciuto la responsabilità per il delitto di abuso d'ufficio». Così il sindaco di Napoli Luigi de Magistris commenta la decisione della Corte d'Appello di Salerno che ha parzialmente riformato la sentenza emessa dai giudici di primo grado del procedimento cosiddetto Scontro tra Procure. «Da oggi abbiamo la prova - ribadisce de Magistris - che le inchieste Why Not e Poseidone, che riguardavano i rapporti tra criminalità organizzata, istituzioni, politica e massoneria deviata, che arrivavano fino al cuore dello Stato, mi furono illecitamente sottratte, affinché non arrivassi alla verità e non mi si consentisse di fare le doverose indagini che svolsi nell'esclusivo adempimento delle norme costituzionali e nel rispetto della legge. Ho tanta amarezza nel cuore, ma oggi lo Stato, anche se in parte, mi ha ripagato con una sentenza cosi importante». De Magistris conclude ringraziando «il mio avvocato Elena Lepre per il lavoro encomiabile svolto al mio fianco in questi anni».

Pubblicato in Basso Tirreno

Per l’illecita revoca dell’inchiesta “Poseidone” all’ex pm Luigi de Magistris, attualmente sindaco di Napoli, nella requisitoria del processo per illecita avocazione dell’inchiesta “Why Not”, i sostituti procuratori della Repubblica di Salerno Alfano e Minerva chiedono quattro condanne.

I magistrati hanno chiesto tre anni di reclusione per l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro Salvatore Murone e per Giancarlo Pittelli, avvocato e parlamentare, ex coordinatore regionale di Forza Italia in Calabria

Due anni e sei mesi sono stati chiesti dai due pm per Giuseppe Galati, ex sottosegretario alle attività produttive, e per Antonio Saladino, ex presidente della Compagnia delle Opere della Calabria

La notizia è stata resa nota dal collegio difensivo di Luigi De Magistris, composto dagli avvocati Stefano Montone e Elena Lepre.

I quattro sono accusati di corruzione in atti giudiziari insieme all’ex procuratore della Repubblica di Catanzaro Mario Lombardi, nei confronti del quale non si è proceduto perché deceduto.

Il sindaco de Magistris, parte lesa in questa vicenda, si è costituito parte civile nel processo.

Lo stesso De Magistris ha affermato di attendere «con tanta fiducia e sete di giustizia» la sentenza anche se – ha sottolineato – arriverà «con molto ritardo».

Il processo è durato cinque anni e De Magistris, dal 2011 sindaco di Napoli, è stato ascoltato in dibattimento. «In aula – ha evidenziato l’ex pm di Catanzaro – ho ricostruito vicende gravissime e mi auguro che la sentenza possa ricostruire un pezzo di storia e verità. Le due inchieste avrebbero fatto luce su fatti gravissimi accaduti nel nostro Paese».

La prossima udienza del processo in corso a Salerno, nel quale sono coinvolti, a vario titolo, magistrati, imprenditori ed esponenti politici, è fissata per il prossimo 17 marzo. La sentenza è prevista per la fine di marzo.( Da Iacchitè 4 marzo 2016)

Pubblicato in Italia

Si scioglie come una bolla di sapone al sole l’ultimo troncone della inchiesta Why not.

La famosa inchiesta per far luce sugli appalti pubblici truccati e sui politici che ‘regalavano’ posti di lavoro.

Il PM aveva richiesta l’ assoluzione per l’ex vice presidente della Regione Calabria, Nicola Adamo, e per i due ex assessori, Ennio Morrone e Dionisio Gallo, mentre aveva chiest condanna a due anni per gli altri due imputati, Franco Morelli e Giancarlo Franzè.

Alla fine una sola condanna ; quella a carico di Giancarlo Franze’, coordinatore del consorzio Brutium, l’impero economico riconducibile ad Antonio Saladino, il principale indagato dell’inchiesta.

Una pena di due anni e sei mesi.

 

Parliamo di un società che sarebbe stata utilizzata per assumere personale ‘fidato’ e fare incetta di fondi pubblici e comunitari con il beneplacito dei politici più in vista della Regione Calabria.

Una ipotesi in Calabria molto attendibile ma difficilmente dimostrabile

Ed infatti sono stati assolti per non aver commesso il fatto i politici calabresi Nicola Adamo (ex vicepresidente Regione Calabria), Franco Morelli (ex consigliere regionale), Dionisio Gallo ed Ennio Morrone (ex assessori regionali).

 

L’accusa contestava che politici e dirigenti avrebbero commesso una serie di reati contro la pubblica amministrazione per aggiudicarsi appalti dalla Regione promettendo posti di lavoro in cambio di cospicui pacchetti di voti.

L’ inchiesta prese le mosse nel 2006 e venne promossa dal pm Luigi De Magistris.

Il gup Abigail Mellace scagiono’ completamente 17 persone , mentre 27 imputati furono rinviati a giudizio.

Poi l’impugnazione della Procura generale con un ricorso alla Cassazione

Oggi, invece, la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Catanzaro.

Ora non resta che aspettare eventuali altri gradi di giudizio.

Pubblicato in Calabria

E due.

L’ex vicepresidente della Giunta Nicola Adamo incassa la seconda assoluzione nel processo WHY NOT.

Nicola Adamo, era stato già assolto con formula piena nel corso del processo di primo grado ed ora lo è stato anche in Appello.

Ed ecco che i suoi difensori, i penalisti Fabio Viglione ed Ugo Celestino, nell’esprimere la propria soddisfazione dichiarano: “Ancora una volta il puntuale accertamento giurisdizionale ha confermato l’assoluta estraneità alle accuse mosse nei confronti dell’onorevole Adamo.

La decisione della Corte di Appello, nel confermare la sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Catanzaro, chiude definitivamente una vicenda che ha visto sempre il nostro assistito fermo nella protesta di innocenza, dimostrata pienamente nel corso del lungo processo.

Dopo i clamori dell’inchiesta, è giusto dare atto dell’epilogo dell’accertamento anche a tutela dell’immagine pubblica del nostro assistito che si è sempre difeso all'interno del processo nel pieno rispetto dell'autorità giudiziaria.”  Catanzaro, 21/02/2014 Avv.ti Fabio Viglione ed Ugo Celestino

Come non essere d’accordo.

Pubblicato in Calabria

Scrive Giancarlo Pittelli già parlamentare di Fi e Pdl:

“La Sesta Sezione della Corte di Cassazione (notoriamente composta da magistrati collegati da vincoli affaristico-massonici a quei “ poteri forti” responsabili della prematura e traumatica fine della luminosa carriera del magistrato Luigi De Magistris) hanno sancito che l’inchiesta Why Not, ab imis fundamentis, era una vera e propria bufala costruita sul nulla, che meritava la demolizione da parte dell’ ottimo Giudice di merito Abigaille Mellace il cui divisamento è stato oggetto di ripetuti e lusinghieri apprezzamenti da parte del Procuratore Generale d’udienza.

Non avevo dubbi sull’esito finale della vicenda per coloro i quali, da Peppino Chiaravalloti ad Agazio Loiero ed a tutti gli altri, sono stati inopinatamente sottoposti alla gogna del processo.

Si chiude così una delle tante vicende servite soltanto a rendere notorietà all’attuale “Re Travicello” di Napoli (l’appellativo è di Marco De Marco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) ed a consentirgli il comodo ed insperato approdo all’agognato proscenio politico nazionale attraverso una scientifica pianificazione della mistificazione, del contrabbando di un’immagine del tutto falsa.

Il prezzo dell’effimero successo conquistato da costui è stato altissimo. Basta volgere lo sguardo alla storia della Catanzaro degli anni dal ’94 al 2007: carriere stroncate, onorabilità distrutte, vite personali e familiari disintegrate, personaggi integerrimi raggiunti dal sospetto attoniti ed incapaci di sopportarne il peso schiacciante.

La fine di “Why Not”, intitolazione che richiama alla mente il gusto di una tragica scommessa, mi induce ad alcune riflessioni.

C’è da chiedersi perché e come tutto ciò sia potuto accadere: come un qualsiasi magistrato del pubblico ministero, al quale la Costituzione e le disposizioni ordinamentali e processuali attribuiscono un potere così ampio ed assoluto sul presupposto di una sua corretta utilizzazione, sia riuscito ad imbastire decine di inchieste penali prive di qualunque fondamento, ad usare la polizia giudiziaria per finalità diverse da quelle istituzionali, a costruire, con la complicità di consulenti informatici e bancari, prove inesistenti in uno con la gestione mediatica del proprio martirio.

E’ presto detto in ragione, prima di tutto, di una considerazione di ordine generale sull’abnormità del potere attribuito ai pubblici ministeri in assenza di qualsivoglia tipo di controllo sul rispetto effettivo del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Mi spiego.

Il principio costituzionale è affidato alla gestione del singolo magistrato inquirente che, di fatto, è libero di scegliere quali fatti illeciti perseguire e quali relegare nel dimenticatoio in vista della spugna prescrizionale. E nessuno conoscerà mai il criterio selettivo che avrà guidato il pubblico ministero nell’atto di scegliere l’indagine alla quale dare privilegiato impulso accantonando, nel contempo, altre – e magari più serie e fondate – vicende meritevoli d’approfondimento investigativo.

Si tratta di una distorsione del sistema che consente di fatto all’inquirente di scegliere – ed in ciò consiste l’aspetto paradossale – l’inchiesta più vantaggiosa per le sue ambizioni, siano esse di carriera o, come è accaduto a Catanzaro, di visibilità mediatica e, dunque, politica.

Tutto ciò in assenza di qualsivoglia tipo di controllo, interno od esterno che sia.

La vicenda catanzarese, a parte l’aspetto di ordine generale, è stata caratterizzata da una serie di “errori” clamorosi compiuti da quanti, in assoluta buona fede e nel fedele rispetto dei principi di diritto processuale penale, hanno ritenuto, attraverso doverose decisioni, di esercitare imprescindibili prerogative.

Intendo riferirmi al compianto Mariano Lombardi, Procuratore Capo – galantuomo ed amico caro e leale, finito anch’egli nel mirino del suo sostituto e dei suoi compiacenti fiancheggiatori – ed ai vertici della Procura Generale presso la Corte d’Appello. Tutti fedeli custodi della legge, rigorosi interpreti dell’altezza dei rispettivi ruoli e funzioni.

Ebbene, costoro hanno applicato la legge nel revocare, il primo, l’assegnazione a De Magistris dell’indagine “Poseidone” e nell’avocare, gli altri, l’inchiesta “Why Not” miserevolmente naufragata proprio ieri sotto i colpi di maglio dei giudici di legittimità. Non hanno sicuramente agito contro i principi e ciò è stato ribadito, senza equivoci, dalla Cassazione e dal CSM.

Ma nell’applicare la legge dello Stato costoro hanno inconsapevolmente fornito al De Magistris un formidabile alibi, una straordinaria “via di fuga” (commodus discessus) rispetto ad ineludibili responsabilità che, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare in prima persona con conseguenze devastanti per la sua immagine e per la sua carriera. Hanno agito senza prevedere quali conseguenze i loro atti avrebbero provocato. Ritenevano di trovarsi davanti alle mere “irregolarità” di un qualsiasi normale sostituto e non già al cospetto di chi aveva già provveduto alla pianificazione di un preciso disegno!

Rivendico un triste primato: allorquando ricevetti il “bigliettino augurale” a firma dell’odierno cadente sindaco di Napoli (meravigliosa città dalla quale dovrà ben presto fuggire inseguito da folle inferocite se non anche da forze di polizia- a tutela della sua incolumità, s’intende! -) capii subito il “gioco” del Nostro e, nel corso della mia conferenza stampa del 30 marzo 2007, appreso del fatto che il Procuratore Lombardi gli aveva “tolto” la gestione dell’indagine “Poseidone”, dissi senza mezzi termini che l’atto si traduceva in un vantaggio straordinario per De Magistris che avrebbe svestito immediatamente i panni dell’impostore per assumere quelli del martire. Chiunque può verificare il contenuto delle mie dichiarazioni e del mio solenne impegno, nei confronti della comunità tutta, a contribuire al disvelamento della verità sull’intera vicenda.

Avevo ragione.

Gli atti conformi alla legge con i quali gli venivano revocate od avocate le deleghe d’indagine di Poseidone e Why Not, rappresentavano il migliore viatico per l’ascesa verso la bramata notorietà (fino a quel momento rimasta reclusa nel ristretto ambito cittadino), il trampolino dal quale spiccare il volo verso le poltrone del potere mediatico e politico. Proprio come era accaduto al suo amico Di Pietro!

Quegli atti hanno fatto sì che non dovesse affrontare le verifiche della giurisdizione sul suo operato, che non dovesse subire la vergogna delle bocciature nelle pubbliche udienze che avrebbe dovuto ineluttabilmente affrontare.

Avrei voluto assistere al balbettio di immaginari e sconnessi teoremi, al confronto sulle prove, all’espressione di tesi giuridiche tratte da personali e segrete pandette.

Avrei voluto che fosse costretto ad impattare, munito di quel bagaglio culturale e tecnico-giuridico di straordinaria pochezza che ha dimostrato di possedere, contro lo spesso muro della moralità e dell’onestà intellettuale di quanti, in ragione del suo agire, hanno sofferto e pagato. Talvolta anche con la vita.

Pubblicato in Catanzaro

In 153 pagine le motivazioni della sentenza emessa Why not ma soprattutto una parte di storia della Regione Calabria, quella storia che vorremmo leggere nelle pagine di sociologia politica e di civiltà sociale di una terra che perde sempre più il suo profilo di terra di uomini forti per diventare terra di nessuno. Sono le motivazioni della sentenza di primo grado emessa, il 31 luglio 2012, dai giudici del Tribunale di Catanzaro per 26 imputati della maxi inchiesta Why not giudicati con rito ordinario. Nove le condanne emesse: 3 anni e 6 mesi per Giancarlo Franzè (ex dirigente della società “Why not”), 2 anni per Rosalia Marasco (dirigente regionale del dipartimento Personale), 8 mesi per Rosario Calvano, un anno e 6 mesi per Antonino Gargano (l'ex presidente di Fincalabra), un anno per Michele Montagnese, così come per Michelangelo Spataro, e Filomeno Pometti, 8 mesi anche per l'ex consigliere regionale Dionisio Gallo (Udc) e per l'ex assessore Domenico Basile (An). Vennero assolti Aldo Curto, Marino Magarò, Gennaro Ditto, Ennio Morrone, Francesco Morelli, Nicola Adamo, Pasquale Citrigno, Pasquale Marafioti e A. G.. I reati estinti per intervenuta prescrizione riguardavano Antonio Mazza, Rosario Baffa Caccuri, Giorgio Ceverini, Ernesto Caselli, Giuseppe Pascale, Antonio Esposito, Clara Magurno e per la principale teste dell’accusa, Caterina Merante.

Ora si attende che il collegio difensivo e i sostituti procuratore generali Eugenio Facciolla e Massimo Lia valutino quanto hanno scritto i giudici della prima sezione penale per presentare eventuale appello.

Al centro del processo c'erano le modalità dell'affidamento da parte della Regione di alcuni servizi a società private che impiegavano lavoratori interinali. In premessa i giudici sottolineano come «emerga il carattere sistematico e reiterato di azioni delittuose (realizzatesi sotto due diverse amministrazioni politiche) attraverso le quali venivano raggirate le regole per l'aggiudicazione di appalti pubblici in palese violazione dei criteri di economicità ed efficienza e con sviamento dalla finalità pubblica che deve viceversa ispirare l'azione dei pubblici amministratori». Secondo quanto sostenuto nelle motivazioni «i provvedimenti della Regione per l'affidamento a trattativa privata alle società sono illegittimi in quanto contengono una falsa attestazione e violano le tassative e inderogabili norme di legge che disciplinano rigorosamente i casi in cui gli appalti di servizi possono essere affidati a trattativa privata».

LE CONDANNE La pena più pesante riguarda il socio amministratore della Why not Giancarlo Franzè riconosciuto colpevole per quattro capi di imputazione relativi ai progetti “Sorveglianza idraulica”, “Censimento patrimonio immobiliare” e “For Europe”. Secondo i giudici nella sua veste di amministratore della società avrebbe dovuto esercitare «poteri di gestione e di controllo per vigilare e impedire la perpetrazione di eventi illeciti». Tre, invece, le condotte ascritte all'ex dirigente Rosalia Marasco in relazione ai progetti Ipnosi, Bifor e Infor. In relazione a quest'ultimo, i giudici evidenziano il «dolo intenzionale che si ravvisa nella condotta tenuta dalla Marasco allorquando, nonostante le irregolarità commesse dalla Why not nella fase esecutiva, il mancato tempestivo avvio di progetti che per mesi non registravano alcun risultato utile e le inefficienze e le disfunzioni segnalate, non esitava a prorogare gli appalti con il riconoscimento di retribuzioni aggiuntive, attestando falsamente nei suoi provvedimenti l'ottimo livello delle prestazioni rese dalla società che implicitamente assumeva di avere verificato». «Forte e solido» viene definito il rapporto tra la Marasco e Caterina Merante. L'ex assessore Gallo e il dirigente Calvano sono stati condannati per la vicenda “Silva Brutia”. Per il Tribunale «risulta dimostrato che i soggetti pubblici hanno operato al solo scopo di consentire al Consorzio Brutium di accedere illegittimamente alle risorse di cui avevano la disponibilità (e ciò anche in previsione del tornaconto elettorale che dalla operazione sarebbe derivato per il soggetto politico)». La condanna dell'ex assessore Basile è relativa al progetto Red. L'ex componente della giunta regionale «ha proposto la delibera aderendo in maniera acritica a tutte le condizioni indicate nella proposta progettuale del consorzio. Ma il progetto non era stato neppure predisposto dai competenti uffici regionali del dipartimento». È emerso, al contrario, che quel progetto venne redatto da un dipendente della Why not. Gargano, Spataro, Pometti e Montagnese sono stati, infine, condannati per la vicenda relativa al risanamento dell'azienda Tesi. Per i giudici catanzaresi «il contesto in cui il fatto è avvenuto, l'abnormità della violazione di legge commessa e l'entità della condotta complessivamente tenuta dagli imputati, del tutto sfornita di qualsivoglia giustificazione e anzi quasi clandestinamente posta in essere senza coinvolgere i componenti del consiglio di amministrazione di Fincalabra, che apprendevano del finanziamento al di fuori delle sedi istituzionali, in difetto di qualsiasi anche apparente finalità di interesse pubblico, sono dati ampiamente sufficienti a comprovare che l'azione è sorretta da quella intenzionale volontà che costituisce l'elemento soggettivo del delitto di cui all'articolo 323 del codice penale (abuso d'ufficio, ndr)».

NESSUNA CORRUZIONE L'accusa di corruzione nei confronti di Nicola Adamo ed A. G., assolti nel processo Why Not, era «incongruente» secondo il Tribunale di Catanzaro. «All'esito dell'istruttoria dibattimentale - sostengono i giudici - non è stata raggiunta la prova della piena responsabilità degli imputati. In particolare, non è stato acquisito alcun elemento idoneo a ricostruire in coerente e logica successione la concatenazione degli eventi». Nelle motivazioni della sentenza i giudici evidenziano inoltre che «l'emendamento normativo regionale, indicato nell'imputazione, che avrebbe in qualche modo favorito gli interessi imprenditoriali del gruppo G., non è attribuibile ad Adamo e non può in alcun modo a lui ricondursi. E ancor meno può considerarsi il corrispettivo del presunto finanziamento per la campagna elettorale». «Emergono dunque - sostengono ancora i giudici - le incongruenze dell'ipotesi dell'accusa. Quanto alla dazione di denaro, il prezzo dell'ipotizzata corruzione ammonterebbe a 50mila euro ma nessuno dei testi ascoltati, nel corso del dibattimento, ha riferito della percezione, da parte di Adamo, di una qualsiasi somma». Anche il principale teste d'accusa Arturo Zanelli (marito di Caterina Merante), che sostenne di aver partecipato personalmente al prelievo dei 50mila euro dalle casse della Despar di G., è stato smentito dalle dichiarazioni rese da due dipendenti dell'azienda che lui stesso aveva indicato come presenti durante le operazioni di prelievo del denaro. g.maz. Ilcorriere della Calabria 

 

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