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trebiatura

Al termine della mietitura del grano le donne raccoglievano i covoni che venivano portati sull’aia dove si costruiva “la timugna”.

Sul tetto veniva posta una croce fatta di spighe di grano a guardia del grano. L’attesa della trebbiatura era uno dei momenti più carichi d’ansia perché era forte il timore che potesse piovere, grandinare o che potesse sprigionarsi un incendio. La pioggia e la grandine avrebbero danneggiato i covoni, l’incendio avrebbe distrutto tutto il raccolto. Prima dell’uso della trebbiatrice i covoni di grano venivano sparsi sull’aia e su di essi veniva fatta passare una grossa pietra “la triglia” tirata da due grossi e robusti buoi in un continuo movimento circolare per fare uscire i chicchi di grano dalla spiga.

Gli uomini, poi, con forconi di legno “tridenti” sollevavano la paglia che col vento veniva separata dai chicchi, i quali, venivano raccolti, questa volta dalle donne, in grandi cesti (crivi) e così il grano “cernuto” veniva separato dalla pula.

La paglia veniva raccolta e usata principalmente come foraggio per il bestiame o messa nei porcili. La trebbiatrice da noi arrivò negli anni cinquanta.

 

La introdusse mio cognato mastro Eduardo Perri. Una sola volta, nell’immediato dopoguerra, venne da noi una grande e rossa trebbiatrice.

Era di proprietà di Francesco Socievole. Si fermò a trebbiare il grano in contrada Vallone ai lati della provinciale Cosenza – Amantea, vicino l’abitazione di zio Antonio Gagliardi.

Fu una grande festa non solo per il vicinato ma per tutta la popolazione sampietrese. Era la prima volta che vedevamo una grande macchina di colore rosso tirata da un grande trattore che trebbiava il grano.

Le donne che lanciavano i covoni, gli uomini addetti alla trebbiatura che li spingevano all’interno della trebbiatrice senza che qualche spiga fuoriuscisse. Che spettacolo! Da una parte usciva la paglia, da un’altra la pula, da un’altra parte i chicchi di grano che andavano a finire nei sacchi di juta che venivano subito chiusi e legati con lo spago e portati via dalle donne nei granai che poi erano grandi “casciuni” che si trovavano nei nostri scantinati o magazzini.

 

Giugno, la falce in pugno.

Così recita un antico proverbio contadino. Vuol dire che la mietitura del grano doveva avvenire nel mese di giugno, quando cioè il grano era completamente maturo e le spighe si ripiegavano sotto il loro peso.

Le piantine del grano venivano tagliate, da uomini esperti, con una grande falce e poi riunite in fasci. Le donne poi facevano i covoni per comporre le gregne. Per incominciare a mietere il grano si aspettava quando il sole era alto e si lavorava fino all’imbrunire, prima della umidità della sera.

La falce era ed è uno strumento a mano d’uso antichissimo formata di un corto manico al quale è unita una lama curva avente un lembo dentato. Si operava con la mano destra mentre con la sinistra, le cui dita erano protette da “cannuoli” di canna, s’isolava il manipolo da tagliare per poi depositarlo a terra e farne dei fasci. La falciatura e la trebbiatura del grano sono solo il momento finale della raccolta del grano.

 

Bisognava prima preparare il terreno.

Si partiva nel mese di luglio e agosto col dissodare il terreno e poi a novembre si seminava il grano.

La sera prima della semina il grano veniva mischiato con una soluzione di acqua e “pietra turchina” (minerale a base di rame) perché impediva al grano di diventare nero quindi inutilizzabile al fine della semina. A marzo venivano tolte dal campo seminato le erbacce cattive. Seguiva la sarchiatura.

Questa operazione era eseguita per lo più dalle donne utilizzando come attrezzo “u zappuniellu”, attrezzo molto piccolo e meno pesante della zappa che veniva usata dagli uomini robusti. L’operazione consisteva non solo nel distruggere le erbe infestanti ma per favorire principalmente la circolazione dell’aria nel terreno rimescolando lo strato superficiale.

A giugno poteva iniziare la mietitura e poi la trebbiatura, lavoro molto duro, però erano una festa per tutta la famiglia che coronava un lungo periodo di lavoro. Le macchine per la mietitura del grano da noi non sono mai arrivate. Non erano adatte a causa del terreno scosceso e collinare del nostro territorio. Però, in seguito alla meccanizzazione agricola la mietitura manuale è oggi scomparsa.

Ricordo una poesia che la mia maestra di quinta elementare, la cara e indimenticabile Lillina Luciani, mi ha fatto imparare a memoria che serviva per farmi ricordare i mesi dell’anno e le loro caratteristiche:

Gennaio mette ai monti la parrucca……/ Luglio falcia le messi al solleone / Agosto, avido ansando le ripone.

Pubblicato in Italia

San Pietro in Amantea. Scrive Ciccio Gagliardi:” E’ passato molto tempo dall’ultimo mio intervento sul “Quotidiano”.

E’ dal mese di giugno che non scrivo. Sapeste quanto mi dispiace.

 

 

E chiedo scusa ai miei 10 lettori che a Corso Mazzini mi fermano e mi chiedono:- Hai finito l’inchiostro?-

Non ho finito l’inchiostro e mi dispiace davvero, però questa situazione politica che si è venuta a creare con l’avvento del Sig. Renzi mi ha fatto stare male.

Cosa avrei dovuto scrivere? Che fa schifo? Che fa pena? Che le tasse sono aumentate? Che il Pil non cresce? Che la disoccupazione aumenta giorno per giorno? Che i poveri sono diventati sempre più poveri e sono in continuo aumento?

Mi fanno pena e mi fanno schifo tutti quei personaggi che ogni santo giorno appaiono in televisione e spocchiosamente affermano che le cose in Italia vanno a gonfie vele.

Per loro sicuramente che percepiscono un lauto stipendio.

Non vanno bene per milioni di italiani che fanno ogni giorno la fila alla mensa della Caritas per avere un piatto caldo.

Questi poveracci non fanno pena, mi fanno rabbia, perché vorrei che la gente per bene scendesse in piazza come faceva una volta e facesse sentire la sua voce.

Per questi motivi sono stato in rispettoso silenzio. Non ne vale più la pena parlarne e scrivere.

Gli elettori non contano più. Non hanno più voce in capitolo.

Come un ammasso di pecore belanti siamo costretti a dire sempre di sì. Guai ad opporsi. Sarebbe la fine.

Cosa mi ha spinto allora a scrivervi? E’ stato un articolo apparso su un giornale nazionale con una intervista ad un noto e famoso architetto italiano: Ricostruiamo tutti i paesi distrutti dove erano prima, perché tutto si può ricostruire come hanno fatto le nazioni europee che dopo i bombardamenti della seconda guerra hanno ricostruito le case e gli edifici pubblici come prima, meglio di prima.

Falso.

La maggior parte di quei paesini distrutti dal terremoto nelle Marche e nell’Umbria non verranno mai ricostruiti come prima, perché è impossibile ricostruirli.

Lo dicono gli esperti, lo confermano i geologi, lo sostengono i tecnici del Genio Civile.

Il motivo è semplice: il terreno è ad elevato rischio sismico.

E poi è franoso, argilloso e presenta lesioni e fratture visibili ad occhio nudo. Ma queste cose non le dicono.

Per loro la priorità è la consultazione del prossimo 4 dicembre.

Le priorità invece sono: assicurare e subito ai tanti bambini che hanno abbandonato i loro paesi e le loro scuole la continuità dell’anno scolastico; garantire ai tanti sfollati non un solo piatto di lenticchie calde ma tutti i servizi essenziali; le tende e i container vanno bene per l’emergenza, ma ora che il crudo inverno in quelle zone colpite dal sisma sta per arrivare, servono casette vere e sicure; e servono sostegni adeguati e urgenti agli agricoltori e alle imprese.

Ma la cosa prioritaria e necessaria è snellire le pratiche burocratiche.

Basta con le pastoie, con firme, contro firme, con domande in carta bollata, con pareri degli esperti, dei Comuni, delle Province, delle Regioni, del Genio Civile, dei Vigili del Fuoco.

Se si incominciano a preparare gare di appalto come sempre si è fatto i tempi si allungherebbero e la gente non avrebbe mai una casetta decente e gli allevatori una stalla per il bestiame.

Tutto si può costruire, tutto si deve costruire. E’ vero.

Bisogna fare presto perché i soldi ci sono.

Bisogna pure dire, però, che tutto non si può costruire sullo stesso posto di prima perché è impossibile farlo.

Ma nessuno fino ad oggi, nemmeno le più alte cariche dello Stato, hanno messo sull’avviso gli abitanti delle Marche e dell’Umbria ormai sistemati negli alberghi della riviera marchigiana.

E chissà per quanto tempo ancora.

Francesco Gagliardi

Pubblicato in Basso Tirreno

Riceviamo e con piacere pubblichiamo l'articolo di Francesco Gagliardi:

Un tempo nelle nostre campagne esistevano solo case coloniche, le cosiddette “turre”, massimo due stanzette ed una cucina.

Poi a parte c’erano le stalle per l’asino e per le vacche, il pollaio, il porcile, il fienile, la legnaia,un magazzino con i sacchi di farina di frumento e di granoturco.

Insomma, tutto quanto bastava per rendere la turra una struttura sufficiente a se stessa, qualche villa padronale, una chiesetta e una o due case di piccoli artigiani.

L’acqua da bere bisognava andarla a prendere con i barili nelle fontanelle sparse qua e là.

E per i bagni?

Ma quali bagni, non rientravano nelle consuetudini dei contadini.

D’estate qualcuno si immergeva lungo il corso dei fiumi o nelle cibbie.

Le chiesette nelle nostre contrade sono due.

Una dedicata al Profeta Elia si trova nella omonima contrada, l’altra dedicata all’Arcangelo Michele si trova nella contrada Gallo.

Ce n’era un’altra in contrada Colopera, ora non esistono più neppure le pietre.

Nelle contrade c’erano finanche le scuole elementari, perché c’erano tantissimi alunni nell’età dell’obbligo scolastico.

Il numero degli alunni non deve trarci in inganno.

Moltissimi di loro frequentavano la scuola soltanto durante i mesi invernali. In autunno e primavera abbandonavano la scuola e si dedicavano al lavoro dei campi.

Ecco perché la maggior parte degli abitanti erano analfabeta o semianalfabeta.

Quasi tutti gli abitanti del paese non sapevano né leggere né scrivere, a stento sapevano fare la loro firma.

Ci sono atti addirittura del Comune dove compare questa dicitura: Per il Sindaco analfabeta segno di croce dell’Assessore anziano.

Delle donne poi non ne parliamo.

Non avevano mai preso in mano neppure l’abbecedario.

La gente, oltre essere analfabeta, non sapeva neppure parlare l’italiano.

Pochissimi erano in grado di esprimersi nella lingua che oggi tutti usiamo.

Mentre i figli delle famiglie benestanti frequentavano regolarmente gli studi i bambini e le bambine dei contadini venivano subito impiegati nelle faccende domestiche e nei campi.

Ogni turra possedeva un forno che veniva usato ogni 15-20 giorni e serviva a cuocere il pane non solo per la famiglia numerosa che abitava quella turra, ma anche per le famiglie vicine e indigenti che non avevano il forno.

Ma il forno veniva usato anche per infornare i fichi, la ghianda e le castagne per gli animali.

Mentre le donne nei cosiddetti “catoi” erano intente a impastare la farina, un uomo, spesso il padrone, provvedeva ad accendere il forno con la legna e le frasche che le donne avevano raccolto nei boschi circostanti.

La legna veniva attizzata con il forcone.

Intanto il forno si scaldava.

Le fascine accese crepitavano allegramente e il riverbero delle fiamme tingeva di rosso il volto del fornaio.

Quando il forno era ben caldo veniva ripulito dai tizzoni e dalla cenere mediante il rastrello e messi in un angolo del forno, poi con uno “scupolo” un po’ bagnato, il fondo del forno veniva ripulito accuratamente.

Infine seguiva l’infornatura mediante una lunga pala.

Alla fine la bocca del forno veniva chiusa con una porta in ferro.

L’uomo o la donna addetti al forno sapevano quanto tempo occorreva per la cottura del pane. Quando la porta veniva rimossa usciva dal forno un odore caratteristico di buon pane che da tempo abbiamo ormai dimenticato. Era festa grande in casa quando la mamma faceva il pane.

Ognuno voleva una pagnottina per sé e quando si impastava la farina con l’acqua tutti volevano mettere le mani nella madia ( a Majlla ), togliere la pasta lievitata, partirla, foggiarla a pagnotte e farvi sopra il segno della croce. Mi vengono in mente alcuni versi di una poesia di Ferruccio Greco:

…e sientu ancora mò l’adduru anticu

Chi saglia ppe re scale d’intra u vicu

Quannu u pane ni purtava a furnara

Na sporta de fatiga duce e amara.

Ricordo pure una poesia del poeta Francesco Pastronchi molto bella e che oggi, purtroppo, nelle nostre scuole non si fa più imparare a memoria. S’intitola :

Il pane.

Pane, ti spezzan gli umili ogni giorno,

lieti se già non manchi alla dispensa.

A lor quale più sacra ricompensa

Di te, che giungi fervido dal forno?

Come biondeggi al desco disadorno,

così tra vasi d'oro; in te si addensa

ogni ricchezza, e la più bella mensa

di tua ruvida veste non ha scorno.

Figlio del sole, tu ne porti un raggio

in ogni casa, e a chi di te procaccia

onestamente, illumini la fronte.

Ma più risplendi, quando nel viaggio,

stanco, il mendico dalla sua bisaccia

ti trae, sedendo al margine di un fonte.

E che dire della poesia di Gianni Rodari.

Se io facessi il fornaio, vorrei cuocere il pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare.

Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole.

Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chili i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.

Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame!

Il più bel giorno di tutta la storia.

San Pietro in Amantea by Francesco Gagliardi

 

Pubblicato in Basso Tirreno

Foto san pietroSan Pietro in Amantea è quasi come il paesino Rio Bo descritto magistralmente dal grande poeta Aldo Palazzeschi, solo che il ruscello che lo bagna non si chiama Bo.

 

Accoccolato a levante ai piedi delle colline Ripostelle e Timponi Ferri, dal fondo valle e da Amantea risulta invisibile, né del resto verrebbe voglia di cercarlo all’ignaro viaggiatore, distratto da una vista di singolare fascino.

“Tre casettine…un verde praticello, un esiguo ruscello…un vigile Cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla…c’è sempre disopra una stella, una grande magnifica stella, che occhieggia con la punta del cipresso. Chi sa se nemmeno ce l’ha una grande città”.

Palazzeschi descrive un paesaggio immaginato dalla fantasia di un fanciullo. Rio Bo è davvero un piccolo paese, con poche case, un fraticello, un ruscello con un alto cipresso che fa da sentinella al villaggio. Le case hanno i tetti spioventi. Sopra questo piccolissimo paese c’è sempre una stella che di notti sembri che giochi con la punta del cipresso: questa è una stella davvero splendente e innamorata di questo paese così minuscolo ma bello che non la possiede neanche una grande città. La vita in questo paesello si svolge serena e tranquilla, fatta di cose piccole e semplici. Non c’è il rumore e il frastuono delle grandi città, non c’è confusione. Tutto si svolge regolarmente.

 

Anche San Pietro in Amantea è un paesino minuscolo ma bello e tranquillo e il nostro caro poeta scomparso Giacomino Launi nella poesia “U paise miu” ce lo descrive proprio così, con “nu truppiellu’e case anniricate”. Le case, è vero, sono quattro casette “ncapu ‘nu cozzariellu, ammunzellate”, attaccate le une alle altre, la maggior parte ad un piano.

Sembrano le casette di Natale. Porte e finestre quasi uguali, con una scalinata esterna. L’altro poeta vivente, il caro amico e collega Michele Sconza Testa, lo descrive come un antico paese, “ameno luogo di quiete serena” che “s’erge silente sul lieve pendio di un verde colle”. Il verde colle è Timpone Ferri che ogni tanto, d’estate, qualche sciagurato cerca di distruggerlo. Le case sono antiche, imbrunite dal tempo che ci ricordano passioni, letizie, eventi e il triste abbandono dell’emigrante, che spinto dalla fame e dal bisogno, dovette abbandonare i propri affetti. E sul campanile della vecchia chiesa una rude campana riempie la quiete del borgo di soavi note. A sera si sentono i canti degli uccelli e uno zeffiro mite che dolcemente spira e allieta, ristora e rallegra i cuori dei pochi residenti.

 

Nella grande piazza principale, una delle più belle e più grande della Calabria, non c’è un cipresso ma un albero maestoso che fa da sentinella al paese le cui chiome verdi si scorgono da lontano. Al di sopra di questo albero secolare ( ha 1016 anni) c’è davvero sempre una stella che occhieggia con le punte dell’albero e sembra che voglia guidare il viandante o il pellegrino verso la Chiesa della Madonna delle Grazie.

Anche San Pietro in Amantea è un paesino sperduto come Rio Bo e, malgrado ciò, ci sono molte validissime ragioni per venirlo a visitare. Offre panorami unici, incantevoli, scorci di rara bellezza. E’ un paesino collinare dove si sta proprio bene, l’aria è buona ( tantissimi anni fa molti cittadini di Amantea venivano ad estivare nel nostro paese ), il vino ottimo ( ne sanno qualcosa i veri intenditori e quelli che frequentavano le cantine da Chiazza e da Taverna), la gente cordiale e affabile, le strade pulite. Tantissime persone si innamorarono di questo borgo antico e lo scelsero per i loro soggiorni estivi. D’estate è bello fare magnifiche passeggiate lungo la vecchia strada statale fino alla Contrada Cannavina, C’è un panorama mozzafiato. Amantea sembra essere sotto i tuoi piedi. Si vede un mare azzurro intenso e durante le giornate limpide si vedono il Vulcano Stromboli col pennacchio di fumo, Lipari, Panarea, Alicuti e Filicuti e certe volte finanche l’Etna. Se poi qualcuno desiderasse fare lunghissime passeggiate tra le campagne e tra i boschi, magari in cerca di frutta fresca e di notevoli attrazioni naturalistiche, consigliamo la passeggiata lungo la strada comunale S. Pietro- Sant’Elia, regolarmente asfaltata. E in ultimo vi consiglio di visitare San Pietro in Amantea specialmente nei mesi estivi perché vi si svolgono tantissime feste e sagre paesane. San Pietro in Amantea è un paese di spiccate tendenze festaiole. Si comincia con le feste organizzate dal Bar della Piazza nel mese di giugno, con la grande festa della Madonna delle Grazie dell’1 e 2 luglio. Il 23 e 24 luglio con la festa di Sant’Elia nella omonima contrada. E poi il 12, 13, 14 agosto con le varie sagre paesane e col caratteristico ballo del “purcelluzzu”. Il 23 e 24 agosto con la festa del nostro Santo Patrono San Bartolomeo Apostolo. Una volta si svolgeva una grande fiera di merci e bestiame frequentata da tanti commercianti provenienti da altre provincie. E infine il 28 e 29 settembre con la festa di San Michele Arcangelo nella Contrada Gallo. Cibi genuini in abbondanza e carne di maiale nero allevato con cura dai contadini del luogo. Il tutto innaffiato da un ottimo e genuino vino locale.

 

Il centro storico e le contrade si prestano per una visita attenta e debitamente “slow”, le cose da vedere e da gustare sono tante.

Intanto, amici lettori e carissimi “Mantioti”, segnatevi la ragione ultima e vera per la quale vi sto dicendo tutto questo: dal 22 giugno u.s. potrete visitare ed ammirare la vecchia casa di Don Achille Lupi in Via del Popolo riconvertita in centro sviluppo innovazioni gastronomia calabrese e la vecchia chiesa di San Bartolomeo Apostolo nella omonima Via in parte distrutta dal terremoto del 1904 e riconvertita in sala polifunzionale e centro espositivo arte orafa calabrese. Ma speriamo al più presto potrete visitare e ammirare, restando a bocca aperta, Il Museo delle Comunicazioni in Contrada Muglicelle, a 500 metri dal centro abitato, lungo la vecchia statale e prima della Variante, voluto ardentemente e realizzato con enormi sacrifici, malgrado le alterne vicende, dal dinamico e intraprendente Frate Francescano Padre Pio Marotti, Parroco di San Pietro in Amantea.

Pubblicato in Basso Tirreno

Che nessuno tocchi San Pietro. Si comprende benissimo quanto Francesco Gagliardi ami il”suo” San Pietro in Amantea, se coglie, come nel caso, ogni occasione per tutelarlo.

(Foto Simone Vairo)

 

Questa volta approfitta della “Grotta dei desideri” per richiamare alla nostra attenzione il Centro diurno per i diversamente abili di San Pietro in Amantea, chiuso dai NAS, lui sostiene, come leggerete, “per un puro cavillo burocratico”.

Francesco sostiene che sia stato chiuso perché “secondo i NAS era stata cambiata la destinazione d’uso”. Poi, conclude, che il centro è chiuso da 5 anni.

Possibile ci chiediamo e gli chiediamo che in 5 non si sia potuto risolvere questo problema burocratico? O c’era e c’è altro, Ciccio?

Ma eccovi la sua bellissima lettera aperta :

“Il 4 agosto u.s. si è svolta in Amantea nel bellissimo e suggestivo “Parco della Grotta” la 12ma Edizione “Grotta dei Desideri”.

 

Ospite della serata l’affascinante Anna Falchi.

Presentatore impareggiabile ed elegantissimo il giornalista Ernesto Pastore che è poi l’ideatore di questa riuscitissima annuale manifestazione che quest’anno ha visto sfilare bellissime modelle che hanno indossato abiti abilmente confezionati per l’occasione da ben 25 stilisti provenienti da ogni parte d’Italia.

Ai primi tre classificati, ad Anna Falchi e ad un’altra attrice che non ricordo il nome, sono stati dati in dono vini pregiati della nostra terra di Calabria ed una bellissima targa ricordo con un disegno fatto a suo tempo da un ragazzo che frequentava il Centro diurno per i diversamente abili di San Pietro in Amantea, ora chiuso per un puro cavillo burocratico.

 

Il Centro si trova in località Terramarina in Via Quattro Canali ed è stato chiuso a marzo del 2011 perché secondo i NAS era stata cambiata la destinazione d’uso.

Per una semplice pastoia burocratica un centro all’avanguardia è stato chiuso malgrado le vibrate proteste dei ragazzi che frequentavano con profitto il Centro, dei genitori dei ragazzi, del Sindaco di San Pietro in Amantea, dei Sindaci del circondario e dell’allora Direttore del Distretto Sanitario di Amantea dott. Tullio Lupi.

Nel mese di marzo del 2012 davanti ai locali del Centro c’è stata finanche una vibrata protesta ripresa e trasmessa dal TG3 Calabria.

Ecco cosa ha scritto il giornalista Ernesto Pastore sulla “Gazzetta del Sud” dell’8 marzo 2012.-

La protesta silenziosa in difesa del Centro diurno. I diversamente abili combattono per riottenere le “ali per volare”.

I genitori, i sindaci del comprensorio, gli operatori sanitari, ma soprattutto gli stessi disabili si sono ritrovati davanti al presidio assistenziale per gridare il proprio dissenso e pressare le istituzioni regionali ed i giudici del Tribunale Amministrativo ad affrontare la questione e a pronunciarsi per la riapertura della struttura-.

 

Sono passati 5 lunghi anni e il Centro è ancora chiuso.

Le istituzioni regionali insensibili al grido di dolore dei ragazzi tacciono e non vogliono affrontare la questione per la riapertura della struttura.

Il giornalista Ernesto Pastore, che si è sempre prodigato per l’apertura del Centro, anche quest’anno in occasione della Serata di Gala “Grotta dei Desideri” ha affidato ad Anna Falchi come del resto fece lo scorso anno con Valeria Marini e con la giornalista sportiva RAI Sig.ra Peroni, ospiti d’onore della riuscita manifestazione, di farsi carico del problema perché le istituzioni, ancora una volta, latitano e restano insensibili di fronte alla categoria dei più deboli.

 

Caspita! Questa è disperazione vera.

Affidarsi ad una giornalista sportiva e a due soubrette della televisione per risolvere il problema è davvero un fatto eccezionale.

Vuol dire che le nostre istituzioni del Comprensorio di Amantea non sono capaci di nulla.

di Francesco Gagliardi”

Il Centro Diurno oggi

 

Pubblicato in Basso Tirreno

Eccovi l’ultima fatica di Francesco Gagliardi San Pietro in Amantea –Usanze – Tradizioni – Mestieri di altri tempi – Calo demografico– Paese in lenta agonia.

 

 

 

Sarà presentato prossimamente il nuovo libro scritto dal maestro Francesco Gagliardi: San Pietro in Amantea, Usanze-Tradizioni-Mestieri di altri tempi- Calo demografico- Lenta agonia. In questo libro Francesco Gagliardi racconta la storia come tanti suoi paesani hanno vissuto la loro lontana giovinezza in un contesto culturale e produttivo ormai scomparso e cancellato dalla tecnologia. La loro esperienza non esiste più. Essi potranno ritrovare una realtà completamente differente, che non possono riconoscere, poichè è estranea al loro concreto passato. Il maestro Gagliardi in questo suo ultimo libro ha saputo concretamente costruire il ricordo della loro immaginazione con la più appassionata speranza e di rendere vive ancora delle esperienze lavorative che non esistono più e che costituiscono il sofferto rammarico di non poterle rivivere. Ti fa gustare la gioia di una vita che il cosiddetto progresso ha cancellato persino dalla memoria. Ad abbellire le molteplici e varie situazioni fanno bella mostra di sè delle fotografie a colori, che ritraggono e illustrano la visione e il contenuto delle molteplici e diverse problematiche trattate.

Ed eccovi la Introduzione di Domenico Ferraro

“E’ vero! La situazione sociale e antropologica nei paesi della Calabria è vissuta nella più sofferta solitudine. L’abbandono è reale. San Pietro in Amantea ne può rappresentare la loro più completa esperienza. La povertà è stata lo stimolo a ricercare il benessere in paesi lontani.

Il ritorno non è facile per tutti. Solo i più fortunati possono d’estate partecipare alle feste patronali. La maggioranza sogna un ritorno immaginario. I giovani sperano di coronare il desiderio e la curiosità di conoscere la località di provenienza dei propri genitori. San Pietro in Amantea può costituire il simbolo disperato di una Calabria, che vive sparsa nel mondo, estranea alla cultura della nuova residenza, ma sospinta a vivere nell’immaginazione la tradizione antropologica, che ne forma la sostanza e lo spessore della loro personalità.

L’autore ha saputo costruire il sogno di tanti suoi conterranei. Anche lui ha sperimentato la sofferenza dell’emigrante. Ma,poi, ha avuto la fortuna e il desiderio struggente del ritorno e l’ha potuto realizzare.

In questo libro racconta la storia come tanti suoi paesani hanno vissuto la loro lontana giovinezza in un contesto culturale e produttivo ormai scomparso e cancellato dalla tecnologia. La loro esperienza non esiste più. Essi potranno ritrovare una realtà completamente differente, che non possono riconoscere, poiché è estranea al loro concreto passato. Gagliardi ha saputo concretamente costruire il ricordo della loro immaginazione con la più appassionata speranza e di rendere vive ancora delle esperienze lavorative, che non esistono più e che ne costituiscono il sofferto rammarico di non poterle rivivere. Ti fa gustare la gioia di una vita, che il cosiddetto progresso, ha cancellato persino dalla memoria.

Per ricordare il passato, si sofferma a descrivere gli antichi mestieri, i valori tradizionali, i costumi della gente, i comportamenti nei rapporti sociali, le caratteristiche degli attrezzi di lavoro. Tratteggia la fisonomia e la personalità dei protagonisti. Aleggia sui ricordi un alone di nostalgia e di appassionata poesia. Ti fa vedere la vita di tutti i giorni come viene impiegata. Ti conduce per mano a rivedere come si svolgevano i mestieri, i vari e molteplici lavori artigianali ed agricoli, come producevano gli oggetti d’uso, gli strumenti di lavoro, attrezzi d’ogni genere e specialità. In questi impegni intravedi una vivace attività lavorativa, che costituiva l’essenza stessa della loro sofferta esistenza. La vitalità del ricordo è realizzata attraverso la conoscenza diretta di ciò che rimane della cultura materiale e del dialogo delle persone anziane.

Ti accorgi come l’autore vive il tempo decorso con nostalgia, pregna di tanta poesia. La descrizione degli ambienti è minuziosa, particolareggiata. Non sfugge alla sua attenzione l’impegno degli operatori. Hai l’impressione che nella descrizione ti faccia rivivere gli attimi di quelle esperienze. Anche lui pregusta il passato con nostalgia, poiché ha la memoria di ricordare in modo specifico e preciso le persone, il loro soprannome, il loro linguaggio,il loro modo d’essere, le caratteristiche della loro personalità. A lui non sfugge nulla che possa essere interessante. Ti fa immergere in una realtà, che diventa immaginazione, sospiro, desiderio. Rivivi con lui la ricostruzione di una esperienza concreta esistenziale, che non esiste più. Ma il solo ricordo ti catapulta in un mondo dove tutto è creazione personale, è intelligenza viva, è attuazione fantasiosa, oggi inimmaginabile. Tutto era espressione della propria personalità. Rivivi gli antichi lavori delle donne in casa, in campagna, nei boschi. Percepisci come l’autore partecipi alla descrizione della vita decorsa con la nostalgia di chi la ripercorre idealmente con vivacità di pensiero, di desiderio sofferente. Egli ne esalta la bellezza e si rammarica che il progresso l’abbia distrutta.

Il realismo descrittivo lo sospinge ad individuare le persone non solo con il loro nome e cognome, ma, anche, con la caratteristica specifica con cui erano conosciuti da tutti i compaesani. Ne risultano personalità straordinarie, non solo per quello che facevano, che operavano,ma,anche, per la caratteristica del loro comportamento, del loro atteggiamento, del loro linguaggio. Tutti sono descritti e presentati con meticolosità e chiarezza fotografica, di modo che si ha un ambiente paesaggistico e una comunità di personalità sui generis.

Francesco Gagliardi possiede la capacità linguistica di vivificare e vivacizzare attività e mestieri artigianali, che l’industrializzazione ha distrutto completamente e definitivamente. Sono state cancellate dal maldestro progresso lavori, che costituivano non solo l’impegno produttivo delle persone, ma, anche, lavori artistici che l’uomo del passato ha saputo costruire con la sua arte artigianale. Oggi, sono ammirati come vere opere d’arte di finissimo pregio e di valore inestimabile e molti di essi sono sospiratamente ricercati come testimonianza della vita passata o come reperti di cultura materiale conservati nei musei. L’autore descrive con precisione ogni piccolo risvolto di un lavoro, di una attività, degli attrezzi utilizzati, te ne fa vedere i modi come è stato realizzato, la materia di cui è composto, l’uso che se ne faceva. Da tutto ciò si evince anche la psicologia dell’autore, l’interesse che l’ha spinto a produrre un suo manufatto. Vedi in ciò tutto un trascorso, che non si potrà più ripetere. La nostalgia, che percepisci, ti sospinge ad immaginare una realtà che fu storia vera, che non si potrà più riattuare, poiché l’uomo e la sua vita non possono essere riciclati. Il riconoscimento delle persone avviene mediante un nomignolo, che ricorda la loro specifica caratteristica lavorativa, oppure la personalità che esprimevano nella vita sociale dell’ambiente o nel modo espressivo del loro linguaggio. Gagliardi ti rappresenta i suoi compaesani come effettivamente e realmente erano, come vivevano, come parlavano, come agivano. Li fotografa con un linguaggio pittorico, che, oggi, non ritrova riscontri. Inoltre, percepisci la gioia di presentarti un mondo, che lui ha personalmente sperimentato o ha scrupolosamente osservato attraverso il racconto degli anziani o dei suoi antenati. Il passato, così, rivive nel presente, anche se esprime tristezza e melanconia di una convivenza profondamente umana,fatta di rapporti, d’interessi reciproci, di lavori faticosi di tutta la comunità. Ma realizzati con l’entusiasmo e la passione di chi crea ed attua una propria necessità vitale. Vive l’intensità di una esistenza sociale in tutti i suoi risvolti belli e brutti. Non sono esclusi le rivalità, le gelosie, i comportamenti non sempre esprimenti correttezza, ma descritti sempre con fedeltà e precisione di linguaggio.

Gagliardi, anche in questa presente fatica letteraria, ha la capacità di rendere attuale un passato, che rappresenta la storia di noi tutti meridionali e non solo la vita decorsa del suo paese e la sua esperienza personale. Attraverso l’esistenza, i costumi, i valori e le tradizioni di una comunità, si scrive la storia del progresso umano, tecnologico e l’emancipazione di una popolazione, che dal lavoro agricolo manuale, ha raggiunto un significativo benessere.

Il conoscere e il sapere come una volta si viveva e si pensava c’insegna ad apprezzare il nostro presente e a ricordare come eravamo e come il progresso materiale, in modo lento avvince le comunità umane. La descrizione, che Gagliardi fotografa, esprime non solo il ricordo di un costume di vita, ma, anche, la storia di un passato, che ha originato la realtà presente. Egli ha il merito di scrivere non come gli intellettuali di professione, che costruiscono le loro opere attraverso la ricerca e la consultazione di altri trattati similari. Egli,invece, utilizza il vissuto reale come testimonianza delle sue opere, che indicano i comportamenti, i costumi, il linguaggio espressivo e comunicativo. La sua storia assume l’originalità creativa di cui riesce a trasformare il vissuto dei costumi, i valori ideali e le tradizioni avite in linguaggio descrittivo, in pitturazione policromatica e in poesia vivente.

Ad abbellire, inoltre, le molteplici e varie situazioni fanno bella mostra di sé delle fotografie a colore, che ritraggono e illustrano la visione e il contenuto delle molteplici e diverse problematiche trattate. Il suo linguaggio, le sue espressioni, le sue descrizioni assumono una dimensione più complessa e più veritiera della realtà, che riflettano e descrivono. In ciò consiste la bellezza dell’arte comunicativa di Gagliardi. La facilità del linguaggio, sempre aderente alle situazioni, che rappresenta, facilitano la comprensione dei fatti narrati e ne costituiscono la verità storica.

La conoscenza delle nostre tradizioni culturali antropologiche, i comportamenti morali, gli ideali valoriali umani contribuiscono a comprendere la complessità delle problematiche decorse e a individuare i processi, che stimolano l’andamento dell’evoluzione: il passato esiste solo se si accorda con le esperienze del presente e del futuro.

Pubblicato in Basso Tirreno

Questa estate 2016 sarà ricordata a lungo per le stragi dell’Isis che hanno insanguinato le piazze, le vie, i supermercati, le chiese della nostra cara e martoriata Europa.

L’ultimo atto terroristico si è verificato alcuni giorni fa in un paesino al nord della Francia e per giunta in una chiesa cattolica.

Il tragico attentato è costato la vita ad un anziano sacerdote che aveva terminato di celebrare la Santa Messa.

I terroristi islamici, fino ad ieri, avevano colpito un giornale satirico, un supermercato ebreo, uno stadio, un teatro di musica giovanile, un caffè, un aeroporto, una stazione di metrò, una festa in piazza, un festival di musica, ma mai si erano avventurati in una chiesa profanandola ed uccidendo un sacerdote.

Ora basta.

Questo vile attentato in una chiesa cattolica in Europa con un sacerdote che si rifiuta di inginocchiarsi e poi sgozzato come un capretto ci ha fatto finalmente capire che siamo davvero in guerra e che coloro i quali cercano ancora di minimizzare l’accaduto e che parlano di gente isolata, di disperati, di pazzi, sbagliano e mentiscono sapendo di sbagliare e di mentire.

Non ha più senso parlare di gesti isolati.

Sono azioni ben pianificate ed organizzate.

Ma in tanti, purtroppo, non lo vogliono capire.

Alle migliaia di martiri cristiani che la chiesa cattolica annovera si è aggiunto ora un vecchio prete sgozzato nella sua chiesa davanti ai suoi parrocchiani da parte di islamici.

Da molto tempo, ormai, siamo stati abituati ad ascoltare le storie orribili che provengono dall’Asia e dall’Africa: persecuzioni, torture, carcerazioni, chiese bruciate.

Quanti cristiani sono stati costretti alla fuga? Quanti sono stati costretti ad abbandonare le loro case, i loro affetti, i loro paesi?

Quelli che si sono rifiutati di rinnegare la propria fede, di rinnegare Gesù sono stati barbaramente uccisi.

Ma sono cose orribili che si verificano in paesi lontani e le notizie orribili trasmesse dalle televisioni non muovono più le nostre coscienze.

Abbiamo cercato sempre di minimizzare. Queste tragedie non possono accadere qui da noi.

Ora, però, nel luglio del 2016 sono accadute nella cattolica Francia a noi molto vicina non solo geograficamente.

Per la prima volta in questo secolo è stata attaccata una chiesa cattolica e sgozzato un sacerdote perché occidentale, ma principalmente perché infedele, cioè un cristiano praticante. Il messaggio è chiaro: Vogliono portare la persecuzione dei cristiani in Europa, in casa nostra, nelle piazze, nelle discoteche, nelle chiese. Hitler e le SS, malgrado tutti i massacri e i crimini commessi, non hanno mai oltrepassato le porte delle chiese e dei conventi durante i rastrellamenti degli ebrei.

Non hanno mai violato la casa di Dio.

Ora è giunto davvero il momento di aprire gli occhi. L’Islam è una minaccia per l’Europa, è un pericolo per l’unità del mondo occidentale.

I cristiani dovrebbero rendersi conto delle differenze radicali esistenti tra l’Islam e il cristianesimo. Si può convivere con l’Islam?

Chi dice di sì non conosce l’Islam e non ha mai letto il Corano.

Francesco Gagliardi

Pubblicato in Mondo

Il 22, 23 e 24 luglio nella ridente contrada di S. Elia del Comune di S.Pietro in Amantea ogni anno si svolgono i festeggiamenti religiosi e civili in onore del Profeta Elia,

 

 

 

 

vissuto nel IX secolo avanti Cristo. Il profeta ebreo Elia, il cui nome significa “il mio Dio à Jahvà” visse sotto il regno di Acab, che aveva imposto il culto del dio Baal. Annunciò al Re, come castigo, un terribile flagello: tre anni di siccità. Rivolto al Re disse:-Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada, né pioggia, se non quando lo dirò io-. Lanciò poi la sfida sul monte Carmelo contro i 400 profeti di Baal. Sull’altare di Elia si accese prodigiosamente una fiamma e l’acqua invocata da tre lunghi anni scese copiosa a porre fine alla siccità. Il popolo credette in lui e linciò tutti i sacerdoti idolatri. Ma Elia non riuscì a sottrarsi all’ira dell’intrigante moglie del Re, Jezabel, di origine fenicia, che aveva dapprima favorito e poi imposto il culto del dio Baal.

Perseguitato, sconfortato, pregava ogni giorno Dio di farlo morire, perché credeva ormai che il suo lavoro, la sua stessa vita gli apparivano inutili.. Gli apparve un Angelo del Signore che lo confortò e gli porse una focaccia e una brocca d’acqua. Poi gli apparve Dio stesso, restituendogli l’indomito coraggio di un tempo. Allora comprese che Dio non propizia il trionfo del bene con gesti spettacolari, ma agisce con longanime pazienza. Allora Elia, con rinnovato zelo, tornò in mezzo al popolo a predicare la parola dell’unico Dio, ma non assistette al suo pieno trionfo.

Visse sempre al cospetto del Dio vivente. Egli stava alla presenza di Dio che rappresentava l’unico tesoro per cui abbandonare tutti i beni terreni. Non aveva casa, abitava nel luogo che il Signore gli indicava: nella solitudine sulle rive del Cherit, nella dimora della vedova di Zarepta a Sidone oppure nelle grotte del Carmelo. Era vestito di pelli come l’altro penitente, il Battista ( la pelle dell’animale defunto ricorda la caducità del corpo umano). Elia non si affanna per avere il pane quotidiano. Vive nella fiducia di essere assistito dal Padre Celeste che lo mantiene in modo meraviglioso; un corvo gli porta nella solitudine dell’eremo il cibo quotidiano; a Zarepta si sazia con il cibo inesauribile della vedova; prima di andare al Monte Santo dove gli apparirà il Signore, riceve da un Angwelo il pane celeste. Morì misteriosamente nell’850 a.c. su un carro di fuoco. Elia fu uno dei più grandi profeti e la sua missione fu di incitare il popolo alla fedeltà all’unico Dio. Eliseo, suo discepolo, prese il suo posto e portò con pieno successo l’opera di riedificazione spirituale. Fu anche l’unico testimone della misteriosa fine del suo maestro.

La chiesetta rurale è stata costruita in epoca remotissima quando le contrade del vasto territorio comunale di San Pietro in Amantea erano popolatissime e le terre erano tutte coltivate. Gli agricoltori avevano l’uso di fare continua dimora in campagna specie durante i raccolti estivi in case coloniche volgarmente chiamate “turre” e i proprietari terrieri, per venire incontro alle esigenze religiose dei braccianti, nei loro terreni fecero costruire alcune chiesette per mantenere vivo il culto religioso e la comodità della Messa nelle Domeniche e negli altri giorni festivi. Era il parroco del centro abitato che si recava percorrendo impervie stradine di campagna a dorso di un mulo a celebrare le Sante Messe, il quale aveva il diritto di percepire le decime Sacramentali. Le decime erano imposte ai fedeli dalla chiesa come sostentamento dei bisogni del Clero. Furono soppresse nel periodo 1848-1861. Dopo l’Unità d’Italia furono abolite in tutto il Regno, con Legge 4 luglio 1887. Allora non esisteva la cosiddetta congrua, il famoso assegno mensile che lo Stato pagava al Parroco per il suo ufficio e per le spese del culto. Erano i devoti, che con le decime e con le questue, mantenevano il clero locale e la comodità della Messa nelle domeniche dei mesi estivi.

La località di Sant’Elia ora è facilmente raggiungibile da Amantea, Campora San Giovanni e da San Pietro in Amantea percorrendo stradine di campagna regolarmente asfaltate. Fino a pochi anni fa nella omonima contrada si svolgeva anche una fiera di merci e bestiame. Il Comune di San Pietro in Amantea con delibera del Consiglio Comunale in data 30 settembre 1923 ripristina la fiera bestiame di S. Elia per il 24 luglio di ogni anno a cominciare dal 1924.

Le Sante messe vespertine, ore 19,00, saranno celebrate dal parroco Padre Pio Marotti . La Santa Messa del 24 sarà celebrata all’aperto, tempo permettendo, perché la chiesa è piccola e non può contenere tutti i fedeli Durante la festività di Sant’Elia tutta la comunità della contrada si veste a festa. La Statua del Profeta viene portata in processione, seguita dalla banda musicale di Amantea, lungo le principali vie della contrada e per devozione viene fatta sostare davanti alcune case dove i proprietari offrono ai fedeli per devozione dolciumi e bevande non alcoliche.

Festeggiamenti civili: 22 luglio “Serata con gli amici”, pasta con la mollica. Karaoke. “A Milunata” per tutti con bibite offerte dal Comitato festa.

23 luglio: Serata di musica leggera con il gruppo “Quelli come noi”. Ospite il cantante “Ciccio Svedese”.

24 luglio: Estate in musica. Revival anni 60-70 con il gruppo musicale “Contrabanda. A fine serata riffa con ricchi premi. Fuochi d’artificio.

Francesco Gagliardi

Pubblicato in Basso Tirreno

Scrive Francesco Gagliardi:

Il 5 giugno si è votato in 1342 Comuni e 7 capoluoghi di Regione. Sono stati chiamati alle urne 15 milioni di elettori.

 

Hanno votato soltanto il 62% degli aventi diritto al voto.

E come era prevedibile questo primo turno ci ha consegnato una Italia divisa, spaccata, frantumata, disorientata, sgarrupata direi.

 

Nessun sindaco delle grandi città è stato eletto al primo turno.

Fanno eccezione le città di Cagliari, Salerno e la nostra amata Cosenza.

 

Nella nostra città l’ex Sindaco Mario Occhiuto, defenestrato dalla sua stessa maggioranza in Consiglio Comunale alcuni mesi fa, ha ottenuto una vittoria schiacciante umiliando i suoi avversari politici che per anni saranno costretti a leccarsi le ferite.

I voltagabbana, i traditori, i saltimbanco, i poltronieri sono stati zittiti e messi alla berlina dagli elettori cosentini che fessi non sono.

 

A Roma ha prevalso il Movimento 5 Stelle.

A Milano i candidati del centro sinistra e del centro destra.

A Napoli si è imposto il Sindaco uscente De Magistris.

 

Il candidato del Pd non è riuscito a superare neppure la soglia del primo turno.

I brogli elettorali delle primarie e le lotte interne non hanno evidentemente giovato alla candidata Sindaco Sig.ra Valente.

 

Anche a Bologna il sindaco uscente del Pd Merola non è riuscito a farsi eleggere al primo turno come fece 5 anni fa.

Chi realmente ha vinto?

Chi davvero ha perso?

 

Secondo il teatrino della politica hanno vinto tutti, nessuno ha perso.

Un dato è certo: a Roma il Movimento 5 Stelle ha triplicato i suoi voti, il Pd è crollato ovunque, Forza Italia si è liquefatta.

Le periferie delle grandi città hanno cambiato colore bocciando il Pd perdendole tutte.

 

Ormai è chiaro:il Pd di Renzi ha seri problemi Cosa succederà fra 15 giorni?

Le sorprese non mancheranno. Il 19 giugno, al ballottaggio, ne vedremo delle belle.

La riflessione vera si farà fra 15 giorni.

 

Ma veniamo alla nostra Cosenza.

A Cosenza non ha pagato la scelta di defenestrare il Sindaco in carica a soli tre mesi dalla scadenza naturale del suo mandato, non ha pagato la scelta del candidato del Pd Guccione, ritenuto dagli elettori cosentini come un ripiego dopo il gran rifiuto di Lucio Presta imposto da Renzi e non ha pagato neppure la scelta del Pd di correre in questa tornata elettorale insieme agli scissionisti di Forza Italia, Verdini in particolare.

 

Il Pd, puntando su Guccione, aveva fatto illudere i vari candidati consiglieri comunali nelle liste elettorali, che avrebbe vinto addirittura al primo turno vantando la strana alleanza e il sostegno degli ex berlusconiani.

Era sceso a Cosenza lo stesso Verdini e si era fatto fotografare insieme all’ex consigliere regionale di Forza Italia Morrone e all’ex Assessore Regionale Giacomo Mancini Junior. (vedi foto)

Il risultato che i due hanno ottenuto è stato un vero disastro. Il partito di Verdini ha fatto flop dappertutto.

Non ha portato nessun voto. In nessun comune è stato determinante e si è visto finalmente che il peso elettorale è vicino allo zero.

Non si sono ancora finiti di contare i voti che subito sono iniziate le discussioni e le accuse.

 

Una cosa è certa: il Pd non ha ottenuto un buon risultato, c’è stato un evidente arretramento ovunque.

E Renzi da la colpa agli altri che non sanno fare squadra. I dirigenti del suo partito, invece, danno la colpa alle alleanze strane e stravaganti.

C’è un proverbio calabrese un po’ volgare che dice: - A scusa du piritaru è la cammisa rutta-

Francesco Gagliardi.

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