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Perviene e con piacere pubblichiamo il pregevole lavoro di Francesco( Ciccio) Gagliardi.

 

“Adesso vi voglio parlare di alcune attività che un tempo non lontano erano fiorenti nel nostro paesello e che hanno contribuito a fare un po’ la storia non solo della nostra terra ma anche la storia delle famiglie che la abitavano.

 

Alludo al mestiere del mulinaro.

E qui mi viene in mente il mulino ad acqua della famiglia Marghella gestito da quel mitico personaggio Sante u Mulinaru; il mulino a cilindri della famiglia di mastro Sesti Palmerino gestito negli ultimi tempi da un personaggio simpaticissimo Carminiellu Caruso, conosciuto da tutti col nomignolo di “fatture”, emigrato poi in Argentina con tutta la sua famiglia; i “Trappiti” dei Policicchio, dei Lorelli, dei Lupi, dei Carratelli, tutti ubicati nel centro abitato; i “Palmenti” un po’ diffusi ovunque perché i nostri terreni erano coltivati e molto fertili ed i vigneti davano uva abbondante dalla quale si ricavava un ottimo vino molto richiesto dalle cantine di Amantea e dei paesi vicini; i forni a legna erano un po’ ovunque.

 

Ogni casolare di campagna aveva il suo forno.

E poi c’erano i forni comunali della zia “ Marianna a Mammana” ubicati Nmienzu u Puritu dove per alcuni anni negli anni novanta suo nipote Sergio aprì un bar ora chiuso definitivamente.

Niente semina, niente grano, niente mulini, niente farina, così i forni sono tutti ora scomparsi.

Io ricordo, però, con tanto affetto la fornaia di Nmienzu u Puritu, Rosa Guzzo, conosciuta da tutti come Rosa a furnara; la fornaia di Via Michele Ianne a za Serafina Paladino, moglie del mitico Zu Serafino che ballava il famoso ciuccio pirotecnico la sera del 2 luglio in occasione della festa della Madonna delle Grazie.

Ricordo le forge di Mastro Palmerino Sesti e di mio zio Stefano Sesti, di Mario Presta conosciuto da tutti amorevolmente col nomignolo di Mario u Pizzutu.

E in ultimo la forgia di mastro Alfonso Lorelli la cui incudine e i martelli, le mazze si trovano nei locali di Via Serafino Sesti.

Scomparsi i contadini, scomparse le zappe, le vanghe, i rastrelli, le accette, le falci da aggiustare, sono scomparsi anche definitivamente i mastri forgiari che con i loro tintinnii sulle incudini allietavano le nostre giornate.

 

Ora le nostre terre sono tutte incolte.

Non ci sono più coltivatori diretti, braccianti, contadini, giornalieri di campagna.

Non essendoci più grano da macinare sono di conseguenza scomparsi i mulini.

Non essendoci più vigneti e quindi uva sono scomparsi i palmenti.

Al posto dei vigneti, degli uliveti, dei frutteti ci sono “spine e calavruni”.

I pochi contadini ormai vecchietti non arano più, non zappano più la terra, non seminano e non raccolgono più il frutto del loro lavoro.

I trappiti che si trovavano nel centro abitato, le cui macine erano mosse dai buoi e dagli asini sono letteralmente scomparsi.

Negli anni 60 il maestro Guzzo Francesco, mio carissimo compare, aveva impiantato un “trappitu” elettrico sottostante l’abitazione di Attilio Miraglia, Nmienzu u Puritu. Chiuso anche quello.

 

Abbiamo avuto vari tipi di mulini nel corso della storia: mulini che utilizzavano l’energia umana specialmente schiavi, cittadini poveri, delinquenti condannati; mulini ad acqua; mulini a vento; mulini elettrici.

L’uso del mulino ad acqua ci è stato descritto addirittura tanti secoli orsono nel Trattato d’architettura di Vitruvio.

Il primo documento scritto che ne rileva l’esistenza risale al I sec. a.C.

Negli scavi di Ostia e di Pompei furono rinvenute alcune macine di mulini.

Per avere un mulino ad acqua necessariamente i nostri mugnai avevano bisogno di acqua in grande quantità.

Ecco perché il mulino di Sante u Mulinaro si trovava lungo il corso del fiume Catocastro che portava le acque provenienti dalle montagne di Lago e da Monte Cocuzzo.

Legava il ciucciu ad un albero e percorrendo un centinaio di metri deviava parte del corso del fiume.

Tale captazione veniva chiamata “la prisa”.

L’acqua veniva incanalata e convogliata lungo i cosiddetti “acquari” e condotta ad una ruota con le pale tramite un dotto in muratura chiamato “saitta”.

La cascata dell’acqua faceva ruotare le pale in modo vertiginoso la cui forza faceva ruotare un asse che poi azionava gli altri macchinari del mulino e la pietra superiore della macina mentre quella inferiore stava sempre ferma.

Mi sono recato sul posto dove una volta c’era il mulino.

Non è rimasto nulla.

Un rudere coperto di rovi, sterpaglie e tanta, tanta sabbia e ghiaia.

Al posto del mulino c’è una industria di calcestruzzi e la ghiaia accumulata in abbondanza lascia intravedere ben poco.

Solo dall’alto della strada provinciale Amantea-Lago è facile intravedere “la saitta”.

I mulini ad acqua sono stati impiegati per molteplici usi prima dell’era industriale.

Da noi, in San Pietro in Amantea, Sante u Mulinaru lo impiegava esclusivamente per la macinatura del grano, del granturco e raramente delle castagne. Mulino o Molino dal latino Molinum derivante da mola.

Qualcuno dice, però, che la parola molino derivi da mulo. Infatti nell’antichità le macine del mulino e dei frantoi venivano fatte girare anche dai muli, animali molto forti e resistenti alla fatica.

L’arte del mugnaio è molto antica, forse una fra le più antiche occupazioni dell’uomo.

In una società rurale e contadina i mugnai godevano di un notevole prestigio sociale.

Erano più ricchi, avevano sempre farina e pane in grande quantità, tanto di essere fatti qualche volta segno di invidia e spesso presi di mira nelle rivolte del pane nei momenti di carestia.

Nel periodo pre industriale veniva sfruttata anche la forza del vento e così abbiamo i mulini a vento che io ho avuto la fortuna e il piacere di visitare a luglio del 2015 in Olanda.

Alcuni mulini antichi sono ancora in funzione, solamente però, per motivi turistici o culturali.

Ho avuto anche la fortuna di visitare un mulino ad acqua ancora funzionante mentre mi trovavo in vacanza nel Veneto e precisamente a Farro di Soligo, nella casa del Maestro.

Nelle vicinanze, a Refrantolo, c’è ancora un mulino che si può tranquillamente visitare pagando però l’ingresso.

E’ il famoso Mulino della Croda dove alcuni anni fa , 5 agosto 2014, per la piena del torrente morirono alcune persone mentre stavano mangiando nello spiazzale del mulino. (prima foto, in alto)

Io sono stato affascinato da questo mulino come furono affascinati alcuni pittori veneti.

Anche il cinema italiano non ha trascurato il mulinetto.

Ha fatto da scenario con il paesaggio circostante al film “Mogliamante” con Marcello Mastroianni e Laura Antonelli nel 1977.

Oggi il Molinetto della Croda è uno dei pochi mulini ad acqua risalenti al XVI secolo ancora funzionanti ed è la testimonianza di una civiltà rurale che l’avvento della società industriale ha soppiantato.

I mulini a vento ebbero origine in Persia circa 3.000 anni fa.

Poi si svilupparono in Olanda e in Inghilterra prima della macchina a vapore e poi negli Stati Uniti d’America usati prevalentemente per prelevare acqua dai pozzi a scopo irriguo.

Dalle nostre parti non sono mai esistiti.

Alcuni sono ben conservati e restaurati a Trapani in Sicilia. Venivano usati nelle saline per macinare il sale o pompare l’acqua di mare da una vasca all’altra.

Molti frantoi i cosiddetti “trappiti”, specialmente nelle Puglie, sono stati recuperati dalle amministrazioni comunali intelligenti e sono ora aperti al pubblico e fanno parte di itinerari turistici. I trappiti erano ubicati in luoghi sotterranei perché il prodotto doveva essere ben conservato in un ambiente dalla temperatura costante altrimenti l’olio si solidificava e si degradava.

C’era una grossa pietra molare fatta girare da un mulo, da un asino o da una mucca, e poi i vari torchi di legno con i famosi fiscoli (fishculi) e poi le vasche scavate nel terreno dove confluiva l’olio.

I trappiti erano privi di luce, venivano illuminati dalle lucerne ad olio.

Ho visitato alcuni trappiti ad Otranto e sono rimasto incantato. Sono ubicati in grotte sotterranee scavate nel tufo.

Il forgiaro era un artigiano e artista del ferro.

Un mestiere antico, ormai scomparso dal nostro paese.

Al mondo dei ricordi appartiene l’arte del ferro battuto.

Ne restano testimonianza in alcuni cancelli e balconi, nei battenti da porta, nei portoni dove ancora oggi si vedono i ferri da cavallo appesi come portafortuna o contro l’invidia “a jettatura”.

Nei silenzi dei mattini non si odono più i colpi di martello che il fabbro ferraio vibrava sull’incudine.

Gli oggetti di uso agricolo e domestico, lavorati con certosina pazienza e maestria, sono quasi scomparsi.

I forgiari sapevano trarre dal ferro mirabili effetti decorativi.

Lavoravano finemente serrature, chiavi, lanterne, balconi, serrande, lasciando squisiti capolavori. Dalle fucine scure ed affumicate uscivano vere opere di bellezza.

E che dire dei battenti da porte?

I suoi colpi sonori annunciavano che qualcuno stava all’uscio.

Non c’era ancora l’energia elettrica e quindi non c’erano i campanelli elettrici.

Le forme dei battenti erano spesso eleganti e fantasiosi.

Il visitatore che bussava alla porta e prendeva in mano un antico battente si rendeva subito conto dell’appartenenza della famiglia che abitava in quella casa.

Infatti, alcuni battenti erano ornati con stemmi nobiliari e monogrammi. I portoni e le porte delle famiglie più umili avevano battenti meno elaborati e complessi.

In tutti, però, si poteva ammirare la maestria di tanti dimenticati artefici del ferro battuto.

Il forgiaro accendeva il carbone e quando era reso incandescente introduceva sotto i tizzoni ardenti il ferro che voleva lavorare. Raggiunta una certa temperatura al punto giusto poggiava il ferro reso malleabile sull’incudine e con abili martellate modellava il ferro.

Nascevano così grandi opere: zappe, vanghe, catenacci, perni delle porte, ringhiere, cancelli, balconi, griglie, mensole, inferriate, accette, chiavi, foglie, fiori, utensili da cucina e altri oggetti. Valeva davvero la pena assistere almeno una volta alla lavorazione del ferro.

Un forgiaro esperto, e quelli di San Pietro in Amantea erano davvero esperti, sapeva realizzare con il minimo impiego di lavoro ed energia, prodotti d’aspetto piacevole che ancora oggi possiamo ammirare.

Bisogna tener presente che allora tutti i manufatti in ferro erano ricavati completamente a mano da metallo grezzo portato al color rosso nella forgia, il cui ventilatore o il mantice, era anch’esso manovrato a braccia, e, girato e rigirato sull’incudine, veniva modellato con ripetuti e sonori colpetti di martello e di mazza da un aiutante e aitante garzone.

Il fattore umano era dunque assolutamente indispensabile.

Col passare degli anni questa arte artigianale è stata sacrificata sull’altare del progresso tecnologico. Gli attrezzi da lavoro di qualunque tipo non si fanno più forgiare a mano ma si comprano nei negozi specializzati a modico prezzo perché costruiti in gran serie.

 

In basso la foto del mulino comunale di Amantea !

Pubblicato in Basso Tirreno

Riceviamo e pubblichiamo con gioia il seguente spaccato della antica Fiera di Amantea, offertoci dalla bella penna di Ciccio Gagliardi che lo ha mirabilmente tratto dalla sua memoria:

“La fiera di Amantea che io ricordo con nostalgia e che ancora è indelebilmente impressa nella mia mente è quella che si svolgeva a Santa Maria: La fiera degli animali del 26 e 27 ottobre di ogni anno.

Chi vive nelle città piene di smog, invivibile, sporche, col traffico che impazzisce, in mezzo a tanti rumori molesti, non sa, non conosce cosa significhi veramente una festa patronale, una fiera di merci e bestiame.

Sì, la Fiera di Amantea che ancora oggi come nel passato si svolge dal 30 ottobre al 2 novembre, giorno dei nostri cari defunti, perciò da qualcuno è anche chiamata Fiera dei morti.

Era una festa grande per tutti i componenti la famiglia, per grandi e piccini.

Era consuetudine, per noi che abitavamo in San Pietro in Amantea, andare alla Fiera a piedi, macchine e pullman non ce n’erano, percorrendo le impervie scorciatoie della contrada Cannavina. Alle Rote, davanti l’abitazione dell’allora capillaru Giorgio, ci fermavamo, le donne si pulivano i piedi dalla polvere e indossavano le scarpe.

Poi, a gruppi, alla spicciolata chi andava verso la Chiazza, chi al Mercato, chi a Piazza Cappuccini e chi andava verso Santa Maria perché doveva comprare o vendere gli animali.

La Fiera di Amantea, come sappiamo, ha origini antiche, e fino a pochi anni fa quando ancora si svolgevano le fiere degli animali, attirava migliaia di famiglie, di contadini, di allevatori provenienti da tutto il circondario.

Le piazze, le vie, le strade, le campagne erano invase dagli animali e dalle bancarelle. Era una festa di colori, di suoni, di scenette piene di un loro sapore paesano.

Si potevano incontrare certe figure caratteristiche, ormai appartenenti ad un irrevocabile passato, come l’arrotino, il ferra ciucci, l’ombrellaio, il banditore che annunciava ai ferari che in questa o quella cantina avevano spillato dalla botte un vino magnifico; o come il cantastorie che cantava le gesta di qualche personaggio famoso e poi offriva per pochi spiccioli il foglietto volante col testo della canzone; o come il sensale, il quale si avvicinava agli animali e menando pacche sulle natiche ne esaltava le doti.

Poi afferrava la mano del venditore che fingeva di non voler vendere e la mano del compratore che fingeva, a sua volta, di non voler comprare e li metteva d’accordo.

Il compratore allora dava al venditore una caparra, un acconto, consacrando così la compravendita più vincolante di un rogito notarile.

Nella fiera si poteva incontrare anche il venditore d’acqua che la misurava e vendeva a bicchieri o il venditore di dolci, famosi i mostaccioli di Soriano, di ceci abbrustoliti, di semi di zucca, di taralli, ciambelle, lupini, frittelle.

I venditori gridavano, offrivano i prodotti più disparati, semplici ed anche assurdi.

La fiera dei miei lontani ricordi era un importante tramite commerciale: spesso le famiglie attendevano per mesi la fiera prima di fare i loro acquisti.

Nella fiera la contadina barattava i suoi prodotti agricoli con stoffe o suppellettili casalinghe, oppure vendeva il maialino, il vitellino, i polli, tutti gli animali che aveva allevato con cura e con enormi sacrifici e che costituivano gli unici introiti del magro bilancio domestico.

Ai giovanotti, invece, offriva il pretesto di iniziare il dialogo amoroso che, di solito, si concludeva all’altare, come avveniva spesso negli incontri voluti o casuali tra una bancarella e l’altra.

Noi ragazzi compravamo qualche fischietto, qualche trombetta, un temperino, un organetto, qualche giocattolo e immancabilmente la famosa gassosa dell’indimenticabile Ricuzzu Morelli e poi al Bar Politano, avendo qualche soldino, un bel gelato alla crema e al cioccolato ed in ultimo, tempo e soldi permettendo, un bel giretto alla giostra in Piazza Mercato Vecchio.

E poi a tarda sera, stanchi ma soddisfatti, ritornavamo al paesello e a casa, intorno al focolare, ad ascoltare o raccontare fatti veri o inventati della fiera. di Francesco Gagliardi.

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