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Molti anni orsono, durante una delle prime estati passate lontane dal Mare di Ulisse, mi trovavo a Edmonton, nel nord ovest canadese, alla guida di una Galaxy 500 Ford del 1964 comprata usata per circa 600$.

 

Era molto bella e grande come erano allora le macchine americane. Nera all’esterno e rossa internamente. Andavo alla ricerca di non so cosa. Le immense foreste dei pini canadesi sembravano proseguire all’infinito. Un’attrazione irresistibile. Lasciavo la città percorrendo l’autostrada 43 nord che portava in Alaska, ma non era quella la mia destinazione. Il luogo che attirava i miei interessi si chiamava Grand Prairie. Una cittadina distante da Edmonton circa 460 km. Uno dei passaggi del cigno trombettiere che è la più grande specie vivente degli uccelli acquatici del mondo. È chiamato cigno trombettiere perché il suo verso ricorda il suono di una tromba. La loro apertura alare media è di 2 m. Il nome Grand Prairie deriva dalla sua vicinanza alle grandi praterie del nord e dell’ovest e ricoprono buona parte della Provincia dell’Alberta. Due giorni dopo ripresi la strada. Direzione nord ovest e mi ritrovai a Peace River, in quello che allora era poco più di un villaggio. Venni a contatto, per la prima, volta con alcuni indiani del nord, le loro usanze e riti. La danza del sole, una delle più sacre cerimonie delle popolazioni pellerossa delle Grandi praterie, si svolgeva da quelle parti in località riservata e segreta. Questo giustificava la numerosa presenza di indiani nel piccolo paese. Così mi spiegava Mahigan, un “Cree”, nel suo inglese molto particolare, mentre consumavamo un bibitone di caffè seduti nell’unico coffee shop di Peace River. Mahigan era un trapper, un cacciatore di pelli, mi spiegava che la cerimonia non era per tutti e si trattava di un’esperienza di grande impatto emotivo. Finito il litrozzo di caffè mi ritrovai in strada, invitato dal trapper a seguirlo fino a raggiungere una piccola radura in mezzo a betulle, abeti rossi, pioppi e libellule. Uno strano cerchio fatto di arbusti occupava gran parte dello spazio. Nel centro un bel po’ di pietre levigate di fiume. Si trattava di uno spazio dove gli indiani costruivano la loro “Sweat lodge”, una capanna sudatoria. Un luogo dove mettersi alla prova nel sopportare il calore resistendo al gran desiderio di voler uscire al più presto all’aria aperta. Nella capanna del sudore si imparava a controllare le proprie paure restando dentro fino alla fine della cerimonia. Secondo Mahigan, in quel sudario l’uomo affrontava il suo da sempre irriducibile nemico: sé stesso. Non avevo nessuna voglia di tornarmene in città e così chiesi a Mahigan se potevo accompagnarlo per un po' di giorni mentre lui piazzava le sue trappole nei boschi. La mia richiesta lo colse di sorpresa. Dopo qualche minuto mi disse di si, ma solo per pochi giorni.
Dopo aver tirato su il tepee insieme a Mahigan, lo stesso mi invitò ad entrare in quella straordinaria costruzione. Mahigan, così mi disse di chiamarlo, mentre lo accompagnavo nelle foreste che circondavano il villaggio di Peace River. Un'antica leggenda indiana della tribù Beaver diceva: 'Bevi l'acqua del fiume Peace River e tornerai ancora'. Il fiume era uno dei sistemi fluviali più lunghi e più belli dell'intero Canada ed era stato, per lungo tempo, la principale via di comunicazione utilizzata sia dai primi esploratori che dalla Hudson Bay Company e ancora prima dalle popolazioni pellerossa dei Beaver e dei Cree, che in quell’area avevano i loro insediamenti. Il villaggio di Peace River era situata lungo le rive dell’ omonimo fiume, nei pressi della confluenza tra i fiumi Peace, Smoky e Heart Rivers. _Camminai insieme a Mahigan per circa 4 ore fino a raggiungere Kaufman Hill e Sagitawa Lookout, situati in una posizione strategica per apprezzare l’incredibile bellezza della Peace River Valley. Quelle foreste e praterie, mi diceva Mahigan, erano importanti corridoi naturali per alci, cervi dalla coda bianca, orsi bruni, volpi, coyotes e lupi e ospitava anche una grande varietà di uccelli. Quel tardo pomeriggio lo aiutai nel costruire il tepee. Sarebbe stata la prima volta per me entrare in una “casa” pellerossa. Un tepee. Realizzato normalmente con pelle di bisonte fissata intorno a dei pali molto lunghi e progettato a forma di cono. I tepees son fatti per tenere caldo in inverno e fresco in estate. In tempi passati, alcuni erano piuttosto grandi. Potevano ospitare 30 o 40 persone comodamente. L’ingresso è costituito da un lembo di pelle di animale selvatico. Tempo permettendo, l'ingresso veniva sempre posizionato verso est, verso il sole nascente. Se il tempo era cattivo o si stava preparando una tempesta, il ‘flap’ veniva posizionato nella parte riparata dal vento. Mahigan mi spiegò alcune regole sul tepee. Se lo sportello di pelle dell’ingresso era aperto, era un invito ad entrare. Se l'aletta era stata chiusa, bisognava annunciare se stessi e attendere l’invito ad entrare. All’interno del tepee, l’ospite si sedeva al fianco sempre del capo famiglia, il quale sedeva lontano dall’ingresso. Queste erano le regole che tutti sapevano e rispettavano nel villaggio. Le donne avevano la responsabilità di posizionare il tepee. Il tepee era il loro castello. Veniva costruito da loro e poi smontato per il trasporto.

Il primo freddo autunnale cominciava a farsi sentire. Il paese di Peace River era ormai lontano anni luce da dove mi trovavo insieme al trapper Mahigan. Bizzarro nome per un meticcio Cree, quello di chiamarsi Lupo. Il giorno che lasciammo Peace River per addentrarci nelle foreste che la circondavano, con Mahigan mi recai in un negozio di alimenti vari. Comprammo 100 pounds di farina (poco più di 40 kg), 20 pounds di bacon (circa 8 kg), 10 pounds di caffè (4 kg), 10 pounds di zucchero (4 kg) e 10 pounds di sale (4 kg). Insieme a tutto questo, comprò anche carne secca di manzo, riso, tè, fagioli secchi, frutta secca, baking soda (il saleratus, vale a dire il lievito), aceto, salamoie e senape. Il tutto venne caricato sul dorso del suo cavallo.

Mi ero avvolto in una pelle di cervo dalla coda bianca e indossavo pantaloni di pelle di orso, il vento del nord aveva bruciato il mio viso. Al mattino, senza preavviso, Mahigan mosse la frusta facendola sibilare attraverso l'aria e al suo secco comando il cavallo reagì andando in avanti velocemente. Sono riuscito in tempo a tenermi aggrappato alla “slitta” ricavata da un vecchio cofano anteriore di un camion Al nostro ritorno al tepee, dopo aver disseminato trappole dappertutto, Mahigan, mi invitò al silenzio più assoluto. A differenza di altri indiani, parlava inglese. I Cree hanno vissuto nelle terre del nord per migliaia di anni. Durante tutto questo tempo hanno sviluppato un enorme rispetto e comprensione verso l’ ambiente che li circondava. Loro sanno e comunicano con la terra in un modo che noi, provenienti dal sud industrializzato e ricco, non riusciamo neanche a percepire . Per me, il rumore del cofano di camion usato come slitta sul ghiaccio sembrava normale, mentre Mahigan avvertiva in esso la differenza tra la vita e la morte. Nel mese passato con lui mi raccontò e mi insegnò molte cose come, per esempio, camminare nel bosco per produrre il meno rumore possibile. Mi raccontò anche che andando a caccia nel nord aveva incontrato un altro popolo: gli Inuit, i discendenti di quello che gli antropologi chiamano la cultura Thule, un popolo nomade proveniente dall’Alaska occidentale e che si estese verso est. Oggi ci sono circa 160.000 Inuit che vivono nelle regioni artiche dell'Alaska, Canada, Groenlandia e Chukotka, la Russia. L’esistenza Inuit si basa essenzialmente, sulla caccia. Il loro sostentamento e mezzi di mantenimento della vita stessa deve venire dalla propria astuzia, abilità e ingegno. In quei trenta giorni Mahigan mi parlò molto anche del suo popolo, delle loro abitudini e riti e degli orsi, in particolare del Grizzly. Gli uomini e le donne tradizionalmente avevano ruoli molto specifici. L'uomo era il cacciatore; costruiva la slitta, strumenti e gestiva i cani o il cavallo. Le donne preparavano il cibo, gestivano il campo, curavano le pelli e con esse cucivano i vestiti. La figura dell’orso, nella mitologia di quasi ogni tribù di pellerossa nordamericani è considerata come un toccasana con impressionanti poteri magici e svolge un ruolo importante in molte cerimonie religiose. Gli orsi sono simboli di forza e saggezza per molti nativi e sono spesso associati con la guarigione e la medicina. L’orso viene considerato uno dei sei guardiani direzionali, associato con l'Occidente e il colore blu. Mahigan mi parlò di un popolo pellerossa, gli Zunis, che attribuivano poteri di guarigione agli orsi e scolpivano con la pietra feticci dell’animale per protezione e come porta fortuna. L’artiglio di un orso era uno dei talismani che venivano messi nei pacchetti di medicina, che i guerrieri di alcune tribù indossavano come collana. A volte il Trapper si lasciava andare e mi raccontava storie straordinarie sugli orsi. “Nel percorrere in un bosco il sentiero di un orso, inevitabilmente ci racconterà la sua lunga storia al fianco del primo popolo del nord America.” Come simbolo dei nativi, l'orso è uno spirito libero come il gran vento. Un animale enorme che si foraggia apparentemente in pace con frutti di bosco. Gli indiani sono stati i primi a conoscere la loro ferocia, se provocati. Mahigan a volte era un vero fiume in piena: “A causa di questa tempesta potenzialmente furiosa, appena sotto la superficie dello spirito degli orsi, i nostri antenati erano estremamente prudenti e rispettosi di questo animale”. La simbologia dell’orso è stata arricchita da osservazioni fatte dai saggi delle tribù. Queste vitali figure tribali erano da sempre portate alla comprensione più profonda di come la natura comunicava le proprie intenzioni in tutte le sue forme. “Questi saggi riuscirono a trovare i collegamenti tra uomo e bestia e da quelle associazioni arrivarono a interpretare i significati più profondi che indirizzarono i nostri antenati all'azione, e alla saggezza”. Questo pensiero, mi raccontava il trapper, proveniva da un saggio indiano Shoshone che, deciso a colmare le differenze fra i vari mondi dell’universo, si mise a camminare in trance. Durante il suo peregrinare, gli apparve il sito di un clan di orsi che stavano effettuando quello che sembrava essere una danza rituale. Questi non erano spiriti di orsi ma veri e propri orsi che si reggevano sulle zampe posteriori e ballavano sotto i raggi dorati del sole. Il saggio Shoshone capì che quello era una danza di ringraziamento per la guarigione e la protezione dei loro piccoli. Da quel momento in poi la tribù Shoshone ha dedicato la propria Danza del Sole, con l'orso figura centrale del rituale a simboleggiare la protezione, la forza e la continuità della progenie della tribù. Di tutti questi racconti di Mahigan, ciò che ad oggi mi rimane è la stranezza. Forse dovuta in gran parte al suo inglese molto particolare. Durante la notte, mentre l'oscurità copriva come una coperta la prateria, e le foreste del nord dell’Alberta, un senso di solitudine si impadroniva del tepee... era durante queste notti che coyote e lupi con i loro ululati portavano il terrore nella mia persona. Dopo che giravano per i boschi, questi animali rapaci attaccavano e ferivano senza nessuna provocazione e senza pietà. Mahigan aveva la buona abitudine di tenere sempre a portata di mano un fucile, in caso di ripetuti attacchi di questi animali.

In almeno due occasioni il fuoco si impadronì della prateria e del bosco. Per proteggere le loro fattorie molti contadini del nord scavavano nella terra una lunga e profonda trincea che chiamavano "guardia del fuoco". Ma le fiamme, alimentate dai venti, spesso riuscivano a superare questi solchi. In quella parte del West canadese, la sopravvivenza era il primo pensiero che svegliava ogni mattina ogni uomo e donna. Chi viveva nei ranch e nelle fattorie isolate aveva sulle proprie spalle il peso di tutto ciò che succedeva. Al contrario, chi abitava nelle cittadine del West aveva a disposizione "servizi" un po' meno primitivi ma sempre e comunque assolutamente insufficienti. Vigeva quindi la regola del "chi fa da sé, fa per tre". La vita nelle interminabili praterie e foreste dell’ovest canadese era ogni giorno una sofferenza, completamente l'opposto da ciò che ci è stato tramandato da film e libri in maniera romanzata. Gli uomini e le donne dovevano lottare contro ogni genere di avversità: sopravvivere però non significava solo curare le ferite o sistemare ossa rotte. Significava anche prodigarsi per riuscire a mettere qualcosa sotto i denti, mantenere la famiglia, lottare contro le malattie. Mahigan era un fiume in piena sul West. Gli sfortunati che rimanevano intrappolati negli spietati deserti delle “Bad Lands” nel sud dell’Alberta, potevano contare su alcuni accorgimenti in caso di immediato bisogno. Quando per esempio rimanevano senza viveri o senz'acqua. Per poter sopravvivere e non morire di fame, una preziosa alternativa erano i pipistrelli. Venivano catturati battendo con un grosso bastone le volte delle caverne e, prima di pulirli, aspettavano fin quando i parassiti non ne abbandonavano i corpi. Quindi venivano spellati e arrostiti sul fuoco. La loro carne era bianca, tenera e deliziosa. Serpenti e lucertole erano un'altra alternativa, così come i petali dei fiori. Se essi però risultavano amari o generavano un liquido incolore, si passava subito alla ricerca di qualcos'altro. La corteccia degli alberi, specialmente di betulla e salice, veniva cotta sui carboni fin quando non risultava abbastanza masticabile.

Erano passati quasi trenta giorni da quando in un caffè di Peace River, avevo incontrato Mahigan. Al mattino, come quasi tutte le mattine, andavo con lui a controllare le trappole messe giù nei giorni precedenti. Avevo notato un certo disagio e fastidio sottolineato dal silenzio dell’anziano trapper. Un silenzio che durava da circa tre giorni. Una sera, mentre eravamo seduti all’interno del tepee preparando dei fagioli in scatola con dei wurstel, Mahigan ruppe finalmente il silenzio, e, nel suo inglese molto colorito, iniziò a raccontarmi una delle tante storie Cree. “ Un certo padre, desideroso che suo figlio venisse favorito dagli spiriti degli antenati, lo portò in tutti i luoghi sacri dei vari difensori; come gli spiriti aiutanti erano chiamati, e in ciascuno di questi luoghi il giovane figlio veniva lasciato per almeno tre giorni e tre notti, a digiunare e a meditare. In questo modo il figlio mise da parte molta conoscenza e molto potere. Ogni grande lago gli aveva rivelato i propri tesori di vita nascosti. Ogni particolare formazione collinare o montagnosa aveva i suoi poteri nascosti in varie forme. Quando il giovane figlio, finalmente, sentì di avere acquisito sufficiente conoscenza e saggezza, che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita, chiese al padre di riportarlo a casa. Ma il padre non si riteneva per nulla soddisfatto e così decise di costruire un tepee vicino ad un ruscello di acqua limpidissima e fresca. In quel tepee, il padre ordinò al figlio di vivere in totale solitudine per un lunghissimo periodo di tempo. Quando l’uomo decise di tornare in quel luogo dove aveva lasciato il proprio figlio, all’improvviso fu sorpreso nell’udire una voce di donna insieme a quella del figlio, provenire dal tepee. I due stavano cantando una bellissima canzone d’amore. L’uomo si fermò non lontano dal tepee e sentì il figlio dire: ‘Si! Verrò con te. Ho supplicato mio padre di riportarmi a casa ma non lo fece perché non si riteneva soddisfatto dalle prove che avevo superato. Durante le tantissime lune trascorse in piena solitudine in questo tepee, mi struggevo per amore e non per il potere; allora guidami tu, dolcissima donna ed io ti seguirò ovunque’. A queste parole, visto che i due giovani non venivano fuori, il padre decise di entrare nel tepee senza essere invitato. Alzato il lembo di pelle che costituiva l’entrata al tepee, l’uomo si ritrovò al suo interno ma non vi trovò nessuno. Il tepee era vuoto. Guardando verso l’apertura conica della sommità della tenda, l’uomo vide due uccelli appollaiati sui pali incrociati. Non aveva mai visto uccelli simili a quelli in tutta la sua vita. Avevano ambedue il petto completamente rosso”. All’alba del mattino successivo, raccolte le poche pelli di volpe rossa e di procioni argentati, ci mettemmo in marcia verso Peace River dove arrivammo intorno alle 11. Durante il tragitto ci imbattemmo in una situazione non molto felice: due grossi orsi si trovavano sul nostro sentiero. Dopo un po’ decisero di andarsene. Non ho mai avuto così tanta paura nella mia vita. L’orso, un animale che è sempre stato circondato da una nomea non degna del suo carattere. Prima di accompagnarmi alla mia Galaxy 500 nera che avevo lasciata parcheggiata in paese, Mahigan mi disse, “Tornatene in città. Ricordati che, per sua natura l’orso è un animale che rasenta la timidezza, non gli piace la vita sociale, infatti vive in branco unicamente con la femmina al momento del parto. Il suo territorio è di circa una ventina di chilometri quadrati, è – di fatto – un animale opportunista per quanto riguarda il cibo. I suoi bocconcini prediletti sono le radici, le bacche, germogli vari, qualche fungo e l’alimento che lo fa impazzire è il miele. E’ un grande ‘camminatore’ e viene chiamato plantigrado poiché si muove appoggiando tutta la pianta delle zampe”. Queste furono le ultime parole di Mahigan, prima di andarsene. Dovetti restare nel villaggio per far ricaricare la batteria dell’auto. Ripartii il mattino seguente per tornarmene “in città”.

Qualche mese più tardi, nello Hub dell’università dell’Alberta me ne stavo seduto a sorseggiare un buon caffè canadese e pensavo alle parole di Mahigan e molte persone occidentali mi apparirono afflitte da una sorta di ‘sindrome dell'orso’ : non riuscivano più a socializzare, erano spesso pigri ed introversi e questo li portava progressivamente a quella condizione psicologica chiamata solitudine. Qualche esperto psicologo scriveva, infatti, che l'essere “orsi” poteva essere considerato come una sorta di “pharmakon” parola che racchiudeva in sé due significati: cura e veleno. L'essere orsi diventava veleno quando non era altro che una fuga, uno scappare da un mondo che si percepiva come ostile, per trovare riparo in sé stessi; in quei casi però il chiudersi avrebbe determinato proprio l'effetto contrario, in quanto, tagliando i ponti col mondo, si sarebbero tagliati i ponti anche con tutto ciò che poteva dare identità che a quel punto, anziché essere difesa, avrebbe vacillato. Si giungeva così ad un paradosso in cui ci si ritirava dal mondo per sfuggirlo ma in quella solitudine ci si accorgeva che non si era per nulla al riparo, ma anzi si incontrava spesso la rabbia e ci si sarebbe sentiti in colpa proprio per esser rimasti soli. Tutto ciò sarebbe spesso determinato dalla carenza di significativi rapporti sociali, che portano alla progressiva mancanza di passione e all'indifferenza affettiva, caratteristiche tipiche dell'apatia, la quale si manifesterebbe in quella propensione a non voler affrontare alcuna attività in quanto ogni azione sarebbe privata del senso del piacere, che a quel punto solo il rinchiudersi in sé potrebbe sostituire. L’essere “orsi”, e in particolar modo la solitudine che ne conseguirebbe, se da una parte potrebbe rappresentare un segnale di sofferenza, dall'altra nella giusta misura, potrebbe rappresentare un momento fondamentale dell'esistenza umana per comprendere meglio una situazione o per riprendere la propria strada smarrita. La solitudine come un momento prezioso per poter esprimere la creatività, dove, anche se in apparenza sembrerebbe una perdita di tempo in cui non si starebbe facendo nulla, in realtà ci si ritroverebbe in una sorta di “incubazione” essenziale per poter rinascere. In questi casi il ritirarsi come fa un orso sarebbe utile per recuperare quelle potenzialità assopite dalla routine quotidiana, dai compiti e dai ruoli che ogni giorno vengono richiesti; ci si ritirerebbe dal mondo per meglio comprenderlo, per poter avere uno sguardo nuovo sulle cose e sulle relazioni che abitano il nostro intimo, perché solo staccandosi per un momento dal mondo, sarebbe possibile guardare alla quotidianità con occhi nuovi.

Beaumont sur Mer luglio 2016 Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Primo Piano

Ciò che accomuna la storia dei vari popoli (greca, latina, africana, cinese, etrusca, indiana, ecc.) è che ai primordi di ogni civiltà, ci fossero tanti racconti di dei e d'eroi con altrettanti miti e/o leggende, attraverso i quali era spiegata ogni cosa del creato.

 

E’ curioso come i diversi popoli, attraverso le gesta di dei ed eroi, personificazione dei fenomeni naturali, abbiano spiegato i tanti misteri della natura. Ogni popolo si è infatti adoperato nel narrare una propria cosmogonia, offrendo una raccolta tanto ricca da trasportarci ora nell’Olimpo dei Greci, ora al Pantheon dei Romani, ora alla Corte di Odino o ai totem indo-americani, ora ai feticci dell’Africa o alla teocrazia dei Messicani ed Aztechi.

 

 

In Calabria ad Amantea viveva una ragazza. Mentre tutto il popolo prendeva parte ai riti di Bacco, la giovane donna osò sfidare il dio rimanendo al proprio telaio, indifferente ai festeggiamenti.

Bacco allora, si trasformò in fanciulla e andò da lei a consigliarle di partecipare alla festa; la giovane non solo si rifiutò ma parlò anche male del dio, il quale per punirla prima si trasformò in toro, poi in leone e infine in pantera. La giovane donna dallo spavento impazzì e Hermes la tramutò in pipistrello durante la notte in attesa di essere vinta dall’amore e diventare libellula.

 

La tradizione ritiene che la madre della ragazza sia stata un'inquilina del Palazzo di don Pantu, una delle numerose residenze assegnatele dalla leggenda nel corso della sua turbolenta vita.

Donna fortemente avversa all’amore, si racconta che andasse continuamente in cerca di tutti gli uomini della zona, dei quali faceva letteralmente scempio. Una volta infatti condotti in un luogo segreto, li faceva puntualmente uccidere o tramite qualche suo servitore oppure attraverso qualche altro espediente, tipo buttarli in mare da una rupe, laddove il malcapitato di turno cadeva vittima di qualche famelico animale marino, ma anche profonde fosse munite di punte di spada, denti di forcone e lame di rasoio. Chiunque si trovava a passare nei dintorni, non poteva fare a meno di ascoltare i pianti e i lamenti degli sventurati innamorati della figlia della perfida Madre.

 

Tra le tante sue vittime vi è una storia che i racconti popolari annoverano particolarmente. La storia di un uomo di mare perdutamente innamorato.

Il marinaio era approdato sulla spiaggia di Amantea dopo anni di girovagare senza meta. Era odiato sia dalla Madre della ragazza che da una stupida ipocrita. Un giorno si recò sul lungomare per chiedere consigli sul da farsi a Nettuno.

Volendo allontanare il marinaio dalla vita della propria figlia, alla madre venne consigliato di assumere il viandante al suo servizio come barcaiolo, almeno così disse agli amici e conoscenti.

Da quel momento in poi l’uomo non fu più visto, anch'egli vittima probabilmente di qualcuno degli innumerevoli tranelli orditi dalla crudele Madre e dalla bigotta amica della figlia.

Da quel giorno il nomade innamorato iniziò a vagare disperatamente per i boschi e per gli oceani alla ricerca della giovane donna, perché era talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma lei appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche dell’uomo che gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla.

 

Lei, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto l’innamorato la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, iniziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici e il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero.

Durante il loro viaggiare intorno al mondo, alcuni calabresi riportarono, qualche anno più tardi , che, seduto su di un grosso tronco, al quale i pescatori legavano le loro barche, in un posto imprecisato dell’Oceano Pacifico, lo sfortunato amante aspettava pazientemente e quotidianamente l’improbabile apparire dell'amata e fu così per diverso tempo, fino a smarrire la ragione e a morire, con gli occhi fissi sul mare nella vana attesa della sua adorata Amanteana. C'è chi sostiene di vederlo ancora oggi, seduto su quel tronco di sequoia con lo sguardo fisso ad est, rivolto verso quel lontano mare di Ulisse come in perenne attesa di qualcuno...

 Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Primo Piano

Apate era la divinità dell'inganno, lei era uno degli spiriti nel vaso di Pandora.

I suoi genitori erano Nyx ed Erebus.

In Mineralogia dal suo nome deriva l'Apatite che è il fluoro fosfato di calcio .

Questo minerale prende tale nome perché "inganna" potendosi confondere per caratteristiche esterne con altri minerali .

La dea Era, furiosa per un ennesimo tradimento dell'olimpico marito Zeus, si rivolse proprio a Apate la quale le prestò un cinto che era in grado di far sembrare veritiere le menzogne all'ascoltatore.

E’ a questa divinità che i politici locali e non solo, si rivolgono ogni qual volta hanno bisogno di fare credere ai loro “sudditi votanti” tutto ciò che dicono.

Fra l’altro, racconta Esiodo, che un vaso era stato dato in dono a Pandora da Zeus, il quale le aveva raccomandato di non aprirlo.

Pandora, che aveva ricevuto da Ermes il dono della curiosità, non tardò però a scoperchiarlo, liberando così tutti i mali del mondo.

Sul fondo del vaso rimase soltanto ‟Elpis” (la speranza), che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse richiuso.

Prima di questo momento l’umanità aveva vissuto libera da mali, fatiche ed angosce di sorta e gli uomini erano immortali, così come gli dei.

Dopo l’apertura del vaso il mondo divenne inospitale, ottuso, prevaricatore e tiranno.

Il fascismo è nato, esiste e viene continuamente reinventato e riutilizzato dai Potenti proprio per offrire ai piccoli borghesi un falso evento dopo l’altro, un falso bersaglio dopo l’altro, una finta rivoluzione dopo l’altra.

Questo non succederebbe se la classe capitalistica considerasse i ceti medi per natura conservatori.

Sa bene che, quando si proletarizzano e si impoveriscono, potrebbero fare blocco con gli operai e in generale coi lavoratori subordinati.

Per impedire quest’alleanza, viene ogni volta scatenata una multiforme offensiva ideologica e propagandistica: ad esempio, si dice al piccolo borghese che il suo nemico sono i lavoratori garantiti e i sindacati, e al contempo, con il frame della sicurezza, gli si dice che deve temere l’immigrato.

Ma questo non basta, perché è un discorso tutto difensivo, ce ne vuole anche uno offensivo, massimalista, pseudo-rivoluzionario.

Un’ennesima variante di fascismo.

Oggi quel discorso è quello contro la Casta.

In questo tourbillon senza fine, ci si dovrebbe chiedere: “Come farà l'Italia a guardare lontano senza la sua cultura, la sua vera forza?”

Noi italiani siamo come dei nani sulle spalle di un gigante.

E il gigante è la cultura, una cultura antica che ci ha regalato la capacità di cogliere la complessità delle cose.

Si tratta di un capitale enorme che va conservato e alimentato.

Sono parole, episodi, fatti di cronaca che in parte conosciamo, triste repertorio di una memoria collettiva che va risvegliata, di fronte alle pericolose derive del presente.

Idee che a torto abbiamo pensato annientate e che invece si annidano nella condotta e nelle parole di molti di noi.

Nel razzismo strisciante o addirittura assunto come bandiera, nel fondamentalismo organizzato e in certa arroganza della divisa, nell’estremismo cieco e nella persistenza “operosa” di ideologie distruttive, nell’irrisione insolente dell’avversario, ma anche nel qualunquismo e nell’indifferenza di chi non vota e se ne lava le mani.

Il più grave problema di questo Paese, storicamente, è l’ignavia della piccola borghesia, che è la più becera d’Europa e oscilla perennemente tra l’indifferenza a tutto e la disponibilità a qualunque avventura autoritaria.

In Italia come in poche altre nazioni, non c’è nulla di più facile che spingere l’impoverito a odiare il povero.

Avventura vicaria, naturalmente, vissuta per interposto Ducetto che sbraita.

Giusto un brivido ogni tanto, per interrompere il tran tran, godersi l’endorfina e tornare al proprio posto.

Finché non sente il dolore, l’italico ceto medium rimane apatico.

Quando inizia a sentirlo, non sa dire cosa gli sia successo, blatera incoerentemente, dà la colpa ai primi falsi nemici che gli vengono agitati davanti (a scelta: i migranti, gli zingari, i comunisti, quelli che scioperano, gli ebrei…) e cerca un Uomo Forte che li combatta.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Cronaca

C’è una delinquenza come fenomeno criminale e un comportamento simile radicato nelle pieghe e nelle piaghe più profonde della società calabrese, confuso con tradizioni che di atavico e territoriale sembrano avere poco o nulla in comune.

 

Senza far sconti a niente e a nessuno bisogna prendere coscienza che certi atteggiamenti di tantissimi calabresi, sono accomunati da mancanza di rispetto sia verso la propria terra che verso i concittadini, in nome di un egoismo da clan.

 

Ne vengono fuori alcuni caratteri, ma sarebbe più puntuale parlare di simulazioni, che da secoli animano il teatro tragicomico Bruzio e che in parte chiariscono il sottosviluppo della regione.

A tale proposito rimane sempre non detta tutta la verità sul famoso sottosviluppo meridionale. Poco tempo fa il calabro-piemontese Eugenio Scalfari si è lasciato andare, in tarda età, sollecitato da Antonio Gnoli sul perché gli italiani non siano mai cambiati e restino sempre “diversi”, Scalfari ha sottolineato che il popolo meridionale detesta lo Stato sin dalla sua nascita, e per via dell’occupazione piemontese.

 

Dice Scalfari: “Non fu Unità! Fu occupazione piemontese, e se l’avesse fatta il Regno di Napoli, che era molto più ricco e potente, sarebbe andata diversamente.

La mentalità savoiarda non era italiana.

Cavour parlava francese.

E gli italiani quel nuovo Stato l’hanno detestato.”

 

Una verità che nel Mezzogiorno è nota da tempo. Va da sé che finché a scuola si insegneranno solo bugie, la strada resta in salita.

Resta il fatto che la società calabrese, pur evolutasi con gran fatica in questi ultimi 150 anni, porta con sé tracce di un mondo contadino fatto di omertà, di maschilismo, di machismo, di soprusi e violenza.

La fusione di queste sfaccettature determina comportamento malavitoso fatto da assoluta mancanza di rispetto per tutto ciò che non è proprio (ad es. l’accumulo o lo smaltimento abusivo di rifiuti nella terra del vicino o in quella demaniale); dalla totale mancanza di consapevolezza della storia dimostrato dagli scempi perpetrati anche di recente su siti archeologici di rilievo; dall’esterofilia dilagante che ha fatto della regione terreno privilegiato per tutto ciò che da fuori proviene: dalle nuove colture inadatte al territorio come l’eucaliptus capace di distruggere e rendere arido il terreno, ma anche le palme; rifiuti tossici interrati o inabissati nel profondo del mare.

A tutto questo si aggiunge la capacità dei calabresi di mortificare la loro terra attraverso infrastrutture incompiute. Una per tutte la Salerno-Reggio Calabria; case gigantesche simili a ruderi all’esterno, al set di una soap opera all’interno con punte di cattivo gusto riscontrabili nell’arredamento e non solo, dotate di cucine e salotti giganteschi che la famiglia preserva in eterno preferendo vivere in squallidi garage.

 

Durante una qualsiasi elezione, tutti i candidati dicono sempre che i voti della malavita non li vogliono, lo dicono pubblicamente, anzi lo urlano.

Poi, nelle ultime 48 ore al candidato viene il panico di non essere eletto e quindi fa i patti con gli innominabili e infrequentabili. Ovviamente nel momento in cui gli vengono consegnati i pacchetti di voti che spesso determinano chi sarà il sindaco.

I delinquenti, quindi vorranno quantomeno cogestire il comune. Interverranno sulle assunzioni da parte della Giunta, intervenendo sul piano regolatore, su altre faccende apparentemente meno importanti. Il comportamento malavitoso connaturato a gran parte della popolazione non è dunque da meno. L’odore di questo atteggiamento, lo si respira anche se si ha il naso chiuso.

E’ un quadro abbastanza desolante, eppure squallidamente vero. Elettori-clienti sempre pronti a bussare alle porte del politico di turno, caratterizzati da sacche di povertà materiale e soprattutto culturale, attraversati da pregiudizi e luoghi comuni duri a morire.

 

Il plotone di esecuzione sempre pronto a dare il colpo di grazia a coloro che osano disturbare nel ricordare che questa Terra un tempo si chiamava Magna Grecia, quando i Romani abitavano ancora nelle capanne e nelle grotte.

Una buona parte della popolazione di un qualsiasi Comune calabrese deve fare i conti con auto incendiate, familiari intimiditi, spari contro le case, devastazione delle proprietà, in un disastro che non sta negli eventi ma sta in ciò che si ripete ogni giorno e, ripetendosi, non fa più notizia.

Le liste di amministratori calabresi legati alla delinquenza sarebbero più di una, tanto da costituire un vero e proprio volumetto rilegato e custodito da qualche alto funzionario del Ministero degli Interni.  

 

Il numero dei disoccupati nel primo semestre del 2015 è rimasto pressoché stabile rispetto al periodo corrispondente del 2014, a fronte del calo delle forze di lavoro.

Il tasso di disoccupazione si è attestato intorno al 25%. La piccola escursione in questa vicenda di straordinaria corruzione e di degrado politico e amministrativo è ritmata ossessivamente dalla ripetizione di disfunzioni, trasgressioni, violazioni di norme e regolamenti, e pratiche arbitrarie di gestione. Quando la popolazione deciderà di mandare a spasso quei politici ed amministratori corrotti e dediti al malaffare, forse solo allora per la Calabria e i calabresi sarà un nuovo giorno, altrimenti questa “martoriata e dimenticata” Terra, figlia prediletta di tutti i Governi, ma sempre bistrattata e calpestata, resterà sottomessa e soggiogata a questa “longa manus” della criminalità, in cui, molti “politici e amministratori” si trovano a proprio agio. 

Beaumont sur Mer Marzo 2016                     Gigino A Pellegrini & G el Tarik

topolinoeminnieTopolin, Topolin, viva Topolin!

Assomigli a tutti noi, sei furbo e birichin

e percio’ noi gridiam, viva Topolin!

Solo tu – Topolin! – puoi capir – Topolin!

i mille e mille sogni di un bambin, ah! ah! ah!

Noi gridiamo in coro, evviva, evviva, urra’, si’, si’!

Topolin, Topolin, viva Topolin!

Che fa sempre divertire i grandi ed i piccin

e percio’ noi gridiam, viva Topolin!

 

Da oltre 50 anni il settore pubblico trasferisce al Sud più risorse di quanto ne riceva, con l’obiettivo di aiutare lo sviluppo. Eppure, paradossalmente, sono cresciuti i consumi, alimentati da una diffusa economia sommersa, ma non uno sviluppo autonomo. La verità è che i trasferimenti pubblici da soluzione della difficile economia del Sud, si sono trasformati in problema.

La classe politica locale e regionale si è trovata a gestire risorse crescenti in un quadro di grande fragilità storica della società civile.

In tale contesto, la “castina” locale, per ottenere il consenso politico, fatte salve alcune eccezioni, si è concentrata nel distribuire benefici particolari, piuttosto che offrire beni e servizi collettivi.

A tale proposito, sarebbe opportuno far luce sulle ragioni del disagio sociale che oggi paralizza questa cittadina, come tutta la Calabria. Ricostruire gli eventi che hanno condotto alla all’impantanamento.

 

Un’analisi seria dalla quale far scaturire una nuova visione capace di dare voce a chi da troppo tempo è rimasto nell’ombra per costrizione o volutamente. Una maggioranza, questa, silenziosa, priva di una coscienza collettiva e incapace di ribellarsi.

Una maggioranza di morti viventi sempre più numerosa che va ad infoltire le fasce di disagio sociale che si stanno estendendo in modo minaccioso e autodistruttivo. In realtà, negli ultimi anni, in questa parte d’Italia, per ciò che riguarda la cosiddetta “società civile”, caratterizzata da una debolezza della cultura civica, sono accadute cose di non poco conto: le stragi di ‘ndrangheta, la collusione fra privati cittadini e potere amministrativo, il peso sempre crescente della criminalità organizzata nella vita quotidiana, nell’economia, nell’organizzazione sociale. Peraltro, molte patologie sociali: mancanza del vivere comune, con endemica complicità di gruppi sociali ed enti pubblici con la criminalità. Senza tralasciare i comportamenti anti solidale e razzismo strisciante che non provengono dal di fuori, ma dal ventre della collettività.

 

Una cittadina può considerarsi marcia quando può credere che gli sia lecito perseguire impunemente il “bene particolare”. Un “bene” fatto di mazzette, facili concessioni edilizie, manipolare posti nella pubblica amministrazione, ecc. Tuttavia, qui, non si tratta di negare l’esistenza di gruppi, di settori, attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta di una civile, anche se difficile, convivenza sociale.

Pertanto, per spiegare quel circuito economico-sociale alternativo- (che evade il fisco, ma, anche, la normativa sul lavoro regolare, o quello sulla sicurezza e sull’inquinamento ambientale e sull’appropriazione indebita di suolo demaniale) - a questa “società civile”, il punto di partenza non può che essere la coscienza collettiva.

Molti potrebbero pensare che la diffusione dell’economia sommersa non sia che l’effetto di una situazione di sottosviluppo economico, come accade in molti Paesi arretrati. Ma, non è del tutto così, da queste parti.

Se si è toccato il fondo, forse bisogna darsi da fare e smetterla di parlare a bassa voce. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò Machiavelli, era necessaria tutta la miseria di Israele.

Fin dalla nascita della Repubblica, un sistema politico centrale, ad alta densità di corruzione, sembra aver dato in comodato d’uso tutto il Sud al malaffare.

 

La corruzione, in altri termini, non scava soltanto voragini nei bilanci pubblici, ma produce un grave deficit di convivenza.

Inoltre si assiste indifferenti all’assegnazione di risorse addizionali e un vantaggio concorrenziale proprio ai meno onesti, ai più spregiudicati e abili nel reinvestire la pioggia di denari, nella costruzione delle loro reti clientelari, con l’introduzione di elementi di arbitrarietà nelle politiche di controllo e vigilanza e nella produzione di norme che finiscono per diventare largamente assolutorie della corruzione medesima, specie ove la stessa si concretizza come procedura difensiva per la rimozione di ostacoli, come pratica di condoni e scudi, come smantellamento del sistema dei controlli e delle autorizzazioni.

Le conseguenze sono state rilevanti, perché, non solo non si sono rafforzate adeguatamente attività capaci di stare sul mercato, ma si è determinato l’effetto perverso di favorire l’economia sommersa e la sua componente criminale. Si è sviluppata una piccola imprenditorialità operante soprattutto, nel settore di alcuni servizi, a bassa produttività, (commercio, alberghi, ristoranti, altri servizi ad personam), per la quale lavoro nero ed evasione fiscale sono requisiti strutturali per stare sul mercato; stessa pratica anche nell’edilizia, nelle attività commerciali e nell’arbitrarietà di gestire l’Amministrazione pubblica. Un esempio recente: il tanto discusso rinnovo dell’incarico di responsabile dei servizi manutentivi del Comune, scaduto il 31 gennaio scorso, come pure il rinnovo dello “staff” del sindaco.

 

In aggiunta, le difficoltà che le poche attività imprenditoriali meridionali sane incontrano per carenza di infrastrutture e servizi, inefficienza e arbitrarietà di alcune amministrazioni pubbliche.

Del resto, è significativo che le regioni meridionali si segnalino per la più ampia diffusione del lavoro nero e non regolare (che raggiunge punte di oltre il 20%, ovvero il doppio delle regioni del Centro-Nord), e per il maggior radicamento dell’economia criminale che attira sempre più i giovani.

A questi se ne aggiunge un’altra particolarmente, presente: una vasta area di dipendenti del settore pubblico, spesso precari, con remunerazioni molto basse o sussidi esistenziali, che integrano il loro reddito con il lavoro nero, o irregolare e addirittura incarichi “a costo zero” a dei “volontari” amanti della propria cittadina.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Forse è il caso di smetterla di pulire con scopa e paletta, è arrivato il momento per gli Amanteani di togliere la fascia a questo “sindaco” e alla sua maggioranza ed iniziare a presenziare agli eventi, governare la nostra città e tutelare i nostri cittadini, che da anni, continuano a spendersi per la crescita e lo sviluppo della comunità e del territorio.

 

Un altro dei fenomeni preoccupanti dei rapporti fra il cittadino e l’amministrazione pubblica, è quello della richiesta o offerta di compensi (spesso a mezzo di intermediari) per ottenere dei servizi dovuti, dei favori legittimi, o caso più diffuso, dei favori illegittimi.

Ecco che si affaccia il dramma della corruzione elettorale dove la colpa in fondo è del corpo elettorale, non educato, che baratta così nobile ufficio col vile e incosciente di appoggiare il favorito o il prepotente; è del popolo, che si dimentica la ragione del suo diritto, per asservire sé e la cosa pubblica alle ambizioni, alle pretese, agl’interessi personali; di questo passo in tutti i comuni d’Italia si andrà allo sfacelo.

Non meraviglia la forte volontà di pochi (troppo pochi) nel combattere contro questa immonda fungaia della corruzione come sistema che consente il perpetuarsi di vincoli, di cordate e compromessi anche elettorali. Già, perché il sistema di corruttela per essere efficiente deve avere una sua stabilità che può essere assecondata soltanto da una continuità amministrativa e gestionale.

Insomma, è facile comprendere come il cittadino tenuto in uno stato costante di bisogno economico, sociale e culturale, si rivolga per necessità al potente di turno non potendo in alcun modo rivendicare i suoi diritti presso gli uffici pubblici, tenuti in mano da vincoli burocratici e consorterie di partiti e di affari. Il cittadino diviene cliente del potente di turno che, da dominus romano, ne dispone liberamente elargendogli, a piacimento e discrezione, i suoi favori. Non c’è da stupirsi se gli stessi pochi cittadini, riflettendo sul caso di una povera pensionata che chiede di ottenere la pensione, evidenzino come la donna sappia bene che accettando la proposta della intermediazione illecita, per corrompere il funzionario di turno, essa compia un fatto immorale e illecito; ma con sommo realismo evidenziano come questa signora non abbia scelta, benché abbia un diritto, sia in fondo il soggetto più debole rispetto al mostro di una burocrazia tentacolare e fuori da ogni controllo.

La donna paga per ottenere un rapido disbrigo della pratica che altrimenti sarebbe sempre l’ultima, fuori posto o mancante di qualche documento; paga per evitare questo prolungarsi dello stato di sofferenza materiale e psicologico, violando però il suo senso morale e l’ordine legale. Non si vuole giustificarla, anzi si ritiene che faccia molto male; soprattutto perché, ripetendo questo caso per mille e centomila si finirebbe, così com’è stato, per invadere tutti gli uffici pubblici di richieste o offerta di compensi.

 

Anzi, con questo breve scritto si vuole esprimere un giudizio allarmato sul rischio di una illegalità dilagante nella pubblica amministrazione affermando che questo caso delle pensioni, può essere ripetuto per qualsiasi altro atto, per qualsiasi affare piccolo o grande che sia. Oggi che lo stato è divenuto gestore diretto o indiretto di una serie interminabile di enti, l’occasione di traffici indebiti è centuplicata.

La consapevolezza dell’antico male della corruzione elettorale come modo di conquista del voto, della corruttela quale sistema con cui amministrare il potere pubblico; si arriva così facilmente alla collaborazione con il male affare. Alla bassa ‘Ndrangheta, tradizionalmente dedita allo sfruttamento delle attività minute, lecite e illecite, che quotidianamente si svolgono nelle piccole città come nelle grandi, si affianca, dominandola, l’alta ‘Ndrangheta che sapientemente è diventata portatrice di preferenze elettorali e abile intermediaria di appalti tra gruppi privati e amministrazioni pubbliche e di concessioni; non meno violenta della prima, che ne è divenuta il braccio esecutivo, ma molto più scaltra e potente in virtù del controllo che esercita sul territorio e sulla vita pubblica urbana.

 

Il disinteresse per il cittadino, da parte delle amministrazioni pubbliche, che è sotto gli occhi di tutti e che ha caratterizzato gran parte della classe politica italiana almeno dal secondo dopoguerra, si è accentuato oggi che i parlamentari vengono nominati e non eletti perché non c'è voto di preferenza e chi entra a Montecitorio o a Palazzo Madama acquisisce quel ruolo in virtù della sua collocazione in lista, quella che ha voluto il segretario del suo partito.

Nessun merito nel successo, nessuna campagna elettorale alla "vota Antonio", come insegnava il principe Totò con la gustosa piece del candidato, quando i voti si dovevano conquistare, uno ad uno, non solo nei confronti dei partiti alleati ma anche dei compagni di lista, per poter rientrare nel numero dei seggi assegnati. A pioggia, questo atteggiamento si riverbera anche sul modo di gestire la cosa pubblica nelle piccole collettività. Da quando si è insediata questa Amministrazione, le sono state rivolte una serie di domande che riguardavano e riguardano tutta la comunità: sulla gestione dello “Studio tecnico” e sulla conferma del suo discusso dirigente responsabile, la notizia è di pochi giorni fa; sull’assunzione del pensionato padre del sindaco “a costo zero”.

 

Quest’ultimo ha esercitato il ruolo di segretario comunale per moltissimi anni; all’assegnazione, nepotisticamente, del mitico progetto del ponte sul fiume Colongi. Alcune di questi quesiti venivano estesi alle autorità competenti e forze dell’ordine: l’appropriazione indebita di beni demaniali presso Coreca; i cancelli abusivi sulla strada che attraversa il villaggio turistico “Trevi Village; l’alquanto dubbia assegnazione da parte degli Uffici Demaniali, dei lotti estivi sulle spiagge di Amantea.

Delle decine di domande, alla data odierna, nessuna risposta è giunta alla cittadinanza. Una dimostrazione di dissenso contro queste malefatte potrebbe essere quella di scegliere di ritrovarsi in piazza, tutti assieme. Potrebbe essere una imperdibile occasione per sottoscrivere idealmente un "patto " per il bene di Amantea, che dovrebbe far sentire naturalmente impegnati quanti amano questa città e vogliono vederla "liberata" dalla prepotenza amministrativa e dalla criminalità, dall'arroganza della corruzione, dalla volgarità dell'illegalità.

 

Quando si parla di legalità non ci si riferisce solo al rispetto di norme imposte dall'alto, ma alla pratica quotidiana di regole condivise.

La legalità è un'esigenza fondamentale della vita sociale per promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune, antitesi al degrado morale, sociale e istituzionale che mina le fondamenta del vivere civile, anche del rilancio culturale di una città che merita di tornare a sorridere.

“Di fronte a tutti i pericoli, di fronte a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, tutti i frazionisti, tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, una volta di più, la capacità del popolo di costruire la propria storia”.

 

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Cronaca

Appena ritor nato dal lonta no Canada, Gigi El Tarik si cala nelle brume morali del suo (no stro) paese e ne trae una sollecitazione per chiunque abbia la one stà intellet tuale e morale di accettarla più che di comprenderla. Sospettiamo che ognuno pensi che queste sollecitazioni siano dirette ad altri!

In una qualsiasi cittadina con un minimo di sensibilità “liberal democratica” quello che sta accadendo da noi sarebbe considerato inammissibile. Nei prossimi giorni si celebreranno le false “festività”, liturgia ormai inutile in quanto insignificante; ma che – nell’immaginario dell’Amministrazione sola al comando e dei suoi vassalli – significherà “ascolto e consenso”, come i sondaggi pilotati, gli incontri blindati, i Nazareni e le Leopolde. Nonostante tutto, la cittadinanza silenziosa continua a sostenerla, proprio con il silenzio, nella sua rovinosa progressione. A qualcuno potrebbe sembrare strano questo silenzio assenso. In realtà ci sono motivi atavici. La forza di questa Amministrazione è composta anche da una schiera ciarliera di Sparaballe, di giornalai che hanno dimenticato che l’adulazione e il servilismo minano profondamente la qualità della già barcollante situazione sociale. Il silenzio degli intellettuali locali in questo periodo ci dà un quadro che ricorda tristemente l’arroccamento nella turris eburnea della cultura ai tempi del Fascismo. Intellettuali: non dovreste avere a cuore la libertà? Dove è finita la responsabilità civile, sociale e politica che vi sono state affidate da donne e uomini coraggiosi vissuti prima di voi, che vi hanno consegnato un Paese che credeva nel proprio futuro, che anche l’oltraggioso silenzio della maggior parte di voi sta riducendo ad una farsa da operetta? Mentre in Municipio si “discute” con parole sempre più vuote di soluzioni per risollevare la città, si continua ostinatamente a ignorare le persone che soffrono. Disoccupati costretti a lavorare in nero, precari imprigionati nel limbo dei contratti a termine, pensionati che stentano ad arrivare alla fine del mese, immigrati preda dello sfruttamento, giovani che non studiano e hanno abbandonato la ricerca di un lavoro stabile. Persone, queste, che rappresentano una fetta consistente della popolazione: si tratta di una maggioranza invisibile, perché ignorata da politici e benpensanti, è silenziosa, perché incapace di riconoscere la sua forza. Bisognerebbe far luce sulle ragioni del disagio sociale che oggi paralizza questa parte della Calabria e ricostruire gli eventi che hanno condotto alla crisi in cui siamo impantanati, proponendoci una nuova visione progressista capace di dare voce a chi da troppo tempo lavora senza ricevere nulla in cambio. Una maggioranza invisibile, fatta da precari, disoccupati, volontari e pensionati. Benché oggi appaiano come realtà frammentate, dovrebbero diventare i protagonisti di un progetto politico inedito, dopo aver mandato a casa gli attuali padroni del paese. Questa maggioranza invisibile era ed è ancora convinta che la legge tutela il cittadino consentendogli di agire in giudizio contro l’amministrazione inadempiente. La legge, in teoria, dovrebbe stigmatizzare un simile comportamento della pubblica amministrazione, prevedendo dei meccanismi processuali rapidi e puntuali a difesa del cittadino. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai corrotti e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Siamo un popolo corrotto, corruttore e corruttibile. Nessuno escluso. Amore e odio dunque, conformismo e simpatia si mescolano nelle parole. Voi mi sconvolgete. Siete i più simpatici tra gli italiani, siete gentili pieni di energia ed allegria ma allo stesso tempo complici di questa situazione aberrante.  Una visione d’insieme dovrebbe abbracciare anche i molti sintomi del saccheggio sistematico di risorse comuni praticato, in un’atmosfera d’impunità, da una cerchia corrotta e corruttrice: i “misteriosi” bilanci pubblici, i ricorrenti disastri ambientali, l’ignorare le innumerevoli richieste di chiarimento su varie faccende che riguardano tutti i cittadini, il consumo dissennato del territorio, il degrado di opere e servizi pubblici. Spesso realizzato “a norma di legge”, visto che di norme e regolamenti questa élite corrotta può condizionare contenuti, interpretazioni, rigore nel controllo e nell’applicazione. “Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Un paese può considerarsi corrotto quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il “bene particulare” nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi pubblici, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza. Proviamo allora a immaginare l’ascesa lungo questa “scala di corruzione” fino ai piani più alti, dove “incenso e mirra” dei corruttori cedono il passo all’oro, espressione tangibile di un potere d’acquisto che si converte in esercizio arbitrario dell’autorità pubblica. “La corruzione” nel nostro sistema di governo cittadino significa replicare e perfezionare in ogni centro di potere gli ingredienti base della corruzione sistemica. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò Machiavelli, è necessaria tutta la miseria di Israele. Più prosaicamente, si coglie in questo quadro la piena sintonia con quel grumo di interessi opachi che accomuna ampi e trasversali segmenti della nostra classe dirigente verso un obiettivo condiviso: estendere il proprio invisibile dominio cleptocratico, rendendo più efficiente e sicura l’appropriazione congiunta della smisurata rendita della corruzione.

Un vecchio sciamano, pellerossa della tribu' degli Stoney nel sud deserti ficato dell'Alber ta, le “Bad Lands” , era un guaritore che usava la Rosa di Jericho per curare.

 

Un giorno il vecchio saggio venne chiamato dalla figlia di una donna che lamentava forti dolori addominali. Lasciato il suo teepee, raggiunse la donna ammalata. Dopo averla osservata per qualche minuto, inizio' a recitare le sue preghiere e, davanti agli occhi increduli della giovane figlia dell'inferma, poggio' il piccolo bulbo secco di una rosa di Jericho sullo stomaco della donna.

Con le mani fece cadere qualche goccia d'acqua sulla pianta, che come per magia si apri' trasformandosi come se fosse una piccola felce.

 

Quasi simultaneamente il dolore scomparve, mentre la pianta si apriva al contatto con l'acqua. La giovane figlia stupita, chiese allo sciamano spiegazioni. Il vecchio indiano, senza scomporsi piu' di tanto, le spiego' che quella pianta viene spazzata dai venti come piccola sterpaglia, sradicandosi da sola quando l'acqua e' troppo scarsa diventando nomade come la tribu' a cui appartenevano.

I canadesi, per non dire tutti i nordamericani, a differenza degli Europei sono abituati a cambiare molto spesso località, a spostarsi in luoghi diversi soprattutto per trovare nuovi lavori, perchè i posti di lavoro in Canada non sono "a vita" come in Italia. Questo e' uno dei motivi per cui le case, si fa per dire, sono costruite con materiali poco costosi, ed in modo che si possano costruire velocemente, come pure gli arredamenti che non sono sofisticati come in Europa.

Così dovendo cambiare città, la casa sarà più facilmente vendibile oppure potrà essere demolita, se non addirittura spostata in altro luogo. Il fratello di Vanessa ha chiamato qualche giorno fa da Slave Lake, un paese a circa 250 km da Edmonton,per dire che la settimana prossima si trasferisce.

Ha trovato un lavoro migliore e lo ha preso al volo. Lascerà quello vecchio venerdi e comincera' quello nuovo lunedì prossimo in Winnipeg nella provincia del Manitoba a circa 1300 km di distanza. In un'altra citta', in un'altra Provincia, cosi' su due piedi, ma non e' una cosa cosi' rara per i nordamericani trasferirsi da un momento all'altro, l'ho gia' visto succedere diverse volte quando vivevo qui. Fa impressione questa cosa, oltre che tristezza.Ieri sono andato a salutare il fratello di Vanessa e ad aiutarlo con il trasloco.

E' incredibile quanti oggetti inutili possa conservare un uomo solo in tutta una vita. A differenza di altri, non e' capace di buttare nulla o per meglio dire, non ha mai avuto nessuna intenzione di farlo. E' come se vivesse meta' qui e meta' la', in un passato non lontano. Ascolta ancora gli lp in vinile collezionati da ragazzo. Wayne, cosi' si chiama, e' un meticcio della tribu' degli Algoquin, una popolazione indiana nomade che, come quasi tutti gli indiani d'America viveva in tende fatte di pelli nei climi più miti e in quelli più rigidi facevano ricorso a vari tipi di riparo, tra cui capanne costruite con blocchi di ghiaccio o di terra e rifugi interrati.

Dove abbondava il legname venivano costruite case di legno, altrove si utilizzava la paglia per coprire semplici capanne. Abitazioni caratteristiche sono il Tepee degli indiani delle praterie, il chikee dei seminole della Florida, gli hogan dei navajo. Apparentemente semplici, queste strutture erano il frutto di sapienti tecnologie.

Inoltre, per i Cherokees, ad esempio, il rosso era il colore del successo e del trionfo, il blu quello della sconfitta e del dolore, il nero rappresentava la morte e il bianco la pace e la felicità.Questo per sottolineare quanto fossero diverse le tribù e del tutto indipendenti tra loro.

Erano popoli liberi che rispettavano la natura e gli altri, amavano anche la loro indipendenza. Le varie razze erano nemiche tra loro e di questa debolezza approfittarono gli invasori occidentali, servendosi degli uni contro gli altri. All’interno delle tribù le guerre erano senza spargimento di sangue. Per sfogare le energie i giovani guerrieri si sfidavano e combattevano tra loro con il “tomahawak” l’ascia da guerra di pietra aguzza legata ad un manico. Il seppellimento o il dissotterramento del Tomahawak segnava la pace o la guerra con i vicini.
Nella lotta contro i “visi pallidi” divenne una micidiale arma letale. Oggi, che tutto questo non esiste piu', nelle riserve vive il 35% della popolazione indiana.

E’ quella parte di “Popolo Rosso” che non si è integrato nell'attuale vita nordamericana. Le riserve indiane commerciano la loro “merchandise”, prodotti artigianali. Scrittori nativi vendono i propri libri ispirati alla più affascinante civiltà del mondo. Ad agenzie di turismo che organizzano soggiorni e viaggi di studio in cui i Pellerossa, portano gli ospiti a visitare i luoghi sacri, una volta rigorosamente vietati ai “visi pallidi”.

Lasciano assistere alle loro feste tradizionali con canti e balli. Fino a poco tempo fa una persona poteva rifugiarsi nelle riserve e farsi adottare da una tribù; oggi queste persone non sono più accettate perché l’iniziazione è stata abrogata e si ottiene soltanto con il matrimonio. Il canadese medio sembra avere ereditato la parte del nomadismo dei nativi e cambia continuamente abitazione, addirittura spostandosi solo di un piano nello stesso stabile. Altri, e non sono pochi, vivono la loro vita in mobile homes, spostandosi facilmente da da un oceano all'altro e trasferendo, a volte, la propria abitazione, portandosela sul groppone come le lumache . Un continuo viaggio lungo una vita intera. Una componente importante quanto negativa del nomadismo canadese e' la perdita dei “contatti” con gli altri e la possibilita' di perdere di vista anche gli amici. Enrico Potestio, immigrato a Edmonton nel lontano 1963, per oltre 20 anni ha coltivato una bella amicizia con un ispettore del gruppo investigativo della polizia della citta'. Una volta andato in pensione, Kenneth, il detective e' scomparso dalla vita di Enrico. Il canadese errante è una persona dalle molteplici identità, imprevedibile, che non si rinchiude nel territorio individuale trasformandolo in una prigione felice. Al contrario si mette in cammino alla ricerca di un qualcosa....non piu' i bisonti. Forse va alla ricerca dell’altrove trasportando con sé i sogni , poiché solo attraverso il viaggio, egli può dire di esistere, e solo riflettendo sul comportamento degli altri esseri umani,e del “nuovo” può comprendere se stesso.

Edmonton nov 8 2015                       Gigino A Pellegrini & G el tarik

Pubblicato in Calabria

In un mondo in cui il 90% della ricchezza è nelle mani dell’1% dei suoi abitanti, il problema dell’espan sione delle aree urbaniz zate non è separabile da quello della distribuzione del benessere economico.

 

Tale disuguaglianza, com’è noto, è all’origine dei fenomeni migratori dalle aree povere del mondo verso quelle ricche. Un ruolo determinante l’ha avuto l’urbanistica alla quale si possono attribuire precise responsabilità nell’aggravarsi delle diseguaglianze fra i popoli del pianeta. In particolare, da sempre la città è stata strumento di distinzione ed emarginazione nello sviluppo urbano; di conseguenza il divario tra ricchi e poveri continua a essere un drammatico simbolo delle diseguaglianze sociali in differenti parti del mondo.

In genere, una città è composta da aree residenziali, zone industriali e commerciali e settori amministrativi che possono anche interessare una più ampia area geografica. La maggior parte dell'area di una città è occupata dal tessuto urbano (case, vie, strade); laghi, fiumi ed aree verdi sempre più spesso disattese . Una città è un insediamento umano esteso e stabile, un'area urbana che si differenzia da un paese o un villaggio per dimensione, densità di popolazione, importanza o status legale.

 

Il termine italiano città deriva dall'analogo latino civitas, e deriva dalla stessa etimologia di civiltà . Una definizione sintetica di città potrebbe essere: concentrazione di popolazione e funzioni, dotata di strutture stabili e di un territorio.

Tale definizione dovrebbe avere il vantaggio di una maggiore duttilità. La rapida urbanizzazione degli ultimi decenni nelle più importanti città del mondo ha fatto emergere una serie di problematiche. Dove la mobilità è maggiore e dove di conseguenza i controlli primari vengono meno del tutto -come nella zona di deterioramento della città moderna si sviluppano aree di corruzione, di promiscuità e di violenza. Segregata nel proprio quartiere da cui non riesce ad allontanarsi per il reddito basso e precario, inchiodata cioè nei settori marginali della città e del mercato del lavoro, la popolazione più povera organizza un tipo di strutture e di relazioni interpersonali adeguato alla propria condizione di esclusione.

Legata alla propria zona, stringe intensi rapporti con i propri vicini ed intreccia con questi fitte relazioni di scambio aventi come scopo il soddisfacimento di quei bisogni, alcuni dei quali elementari, che le strutture pubbliche o le possibilità strettamente familiari lasciano insoddisfatti. Le frontiere funzionano in maniera asimmetrica: facilmente consentono di uscire dai quartieri poveri, più difficilmente di entrare in quelli ricchi. La densità degli insediamenti urbani e la loro maggiore o minore sostenibilità – se sia cioè meglio procedere nella direzione di una progressiva densificazione, anche verticale, della città o sia invece preferibile la sua espansione orizzontale nel territorio – è questione che ha occupato a lungo gli esperti. Gli studi più recenti propendono per la prima ipotesi: la città compatta, ad alta densità, appare la risposta migliore alla necessità di ospitare masse crescenti di abitanti. Sono anzi proprio le elevate densità a consentire oggi la lotta contro l’inquinamento automobilistico grazie alla riconversione al più sostenibile trasporto pubblico, oltre a garantire sicurezza sociale e a offrire un apprezzabile senso di varietà e vitalità. Se è poi vero che il tempo diverrà un bene sempre più prezioso, è auspicabile la riduzione del pendolarismo giornaliero: ne risultano privilegiate le aree ad alta densità, svantaggiati gli insediamenti troppo estesi.

 

La città di Edmonton, capitale dell’Alberta in meno di 30 anni e' passata da 600.000 abitanti ad oltre un milione con un raccordo anulare (anthony Henday) di oltre 100 km. Una città immensa e alienante. Questo tipo di città è diventato il campo di battaglia in cui si stanno giocando le sorti del futuro dell’umanità.

La sostenibilità urbana è un concetto concretamente valido rispetto ad alcuni parametri fondamentali quali la produzione di una quantità di energia maggiore di quanta se ne consuma, la raccolta e il trattamento dei rifiuti all’interno dei propri confini, la raccolta e il riciclaggio delle acque e così via. Naturalmente tali obiettivi devono coesistere con le finalità tradizionali, tra cui quelle di creare benessere economico e sociale, e favorire la crescita culturale e tecnologica. Si tratta dunque di una grande sfida, ma senza una profonda rivoluzione sarà difficile modificare lo stato delle cose. L’edificato e i trasporti sono responsabili del 70% delle emissioni nocive. Le reti e le infrastrutture delle città, anche di quelle più ricche, come Edmonton, sono per lo più obsolete. Negli ultimi decenni si è assistito ad un fenomeno oggettivo e visibile di diffusione urbana, di trasferimento cioé, di funzioni insediative ed economiche dai centri urbani alle aree viciniori; il fenomeno è stato descritto in letteratura ed in politica in termini diversi, come semplice "delocalizzazione", come "decentramento", come vera e propria ondata di "controurbanizzazione".

 

In questa città, dove ho studiato e lavorato per molti anni, oggi si assiste ad una urbanizzazione spaventosa e ad un proliferare di gated communities , comunità residenziali chiuse, fatte di spazi apparentemente pubblici ma in realtà privati in cui chi non si attiene alle regole viene espulso, oltre che di una serie di aspetti percettivi apparentemente secondari, ma comunque non trascurabili, che vanno dalla corazzatura di porte e finestre all’uso di veicoli blindati.

Muri e barriere fisiche di ogni tipo isolano dunque le case, i quartieri residenziali, i luoghi della produzione e del lavoro; a essi si aggiungono la vigilanza e tutti i sistemi elettronici, visibili e invisibili, di controllo, oltre a barriere di tipo psicologico, spesso non meno percepibili di quelle fisiche. L’invisibilità di tali sistemi è peraltro tanto maggiore quanto più facoltose sono le persone da difendere: nelle aree urbane e suburbane più esclusive, case e uffici sono spesso semplicemente racchiusi da ampie vetrate e circondati da prati privi di recinzioni, ma efficienti occhi elettronici rendono impossibile ogni illecito superamento dei confini. Le classi agiate e le élites dominanti, sempre meno radicate in un luogo fisico, sempre più mobili nella extraterritorialità della rete o all’interno di uno strato sociale internazionale relativamente indipendente dalla fisicità dei luoghi, cercano così sicurezza all’interno di recinti che le isolino dal resto della città. Il fenomeno, in crescente diffusione, vede una decisa amplificazione della sua portata, a causa del continuo incremento della popolazione urbanizzata, della disomogeneità nella distribuzione del reddito e della diffusione di normative che favoriscono una gestione privata di vasti spazi e delle infrastrutture e servizi a essi connessi.

Gigino A Pellegrini & G el tarik

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Prima o dopo Gigi manderà in stampa la sua miscellanea di racconti e riflessioni, ne sono certo. E non sono il solo. E penso che avrà per titolo “L’uomo che ascoltava il mondo…”.

E sarà un libro da conservare gelosamente non fosse altro che per sapere di un amanteano straordinario e troppo poco conosciuto. Nell’attesa eccovi un altro suo intenso racconto.

 

“ Mi sono trovato in un contesto dove avevo una gran voglia di evadere. Di sognare e di scrivere questi sogni.

Mia madre era una straordinaria narratrice. Quando ero piccolo, insieme ai miei due fratelli e nonna Domenica, nelle fredde serate d’inverno ce ne stavamo tutti intorno ad un solo braciere mentre mamma leggeva da GrandHotel, Via col vento a puntate.

A volte, non leggeva. Inventava. I suoi racconti erano sempre immaginifici, e mettevano in scena una foresta.

Pur vivendo a due passi dal Mare di Ulisse, il richiamo di quella foresta risuonava emozionante, misterioso e attraente e tutte le volte che lo udivo mi sentivo costretto a rinnegare la mia natura marinara.


Chiudevo gli occhi cullato dalla sua voce e con le spalle al fuoco e agli alberi che mi circondavano, mi addentravo nella foresta, sempre più avanti, senza sapere dove andavo né perché; né mi chiedevo dove o perché il richiamo risuonasse superbamente nel cuore della foresta.

A vent’anni non avevo più il bisogno di chiudere gli occhi, quando l’aurora boreale divampava fredda nel cielo o le stelle palpitavano in una gelida danza, mentre la terra intirizzita e ghiacciata giaceva sotto la bianca neve.

In lontananza, un canto di mousse avrebbe modulato in chiave minore, con gemiti prolungati e singhiozzi interrotti. sembrava una supplica. Raccontava la dura fatica dell’esistenza.

Era un canto antico, antico come questa parte del mondo prima che un uomo occidentale vi mettesse piede.

In quei giorni era tornato da mari sconosciuti un italiano che viveva a Bristol con la moglie veneziana e i suoi tre figli. Gli inglesi gli stavano dietro come invasati e lo chiamavano Grande Ammiraglio, porgendogli molto onore perché aveva scoperto delle nuove terre. L’inventore di queste storie diceva di aver piantato su quelle terre una gran croce e la bandiera inglese assieme al gonfalone di San Marco, perché lui era veneziano. Ed era per questi motivi che la città di Bristol era diventata improvvisamente molto rinomata e stimata in Inghilterra.

Il nome del genovese-veneziano, che indossava sempre sgargianti abiti di seta, era Giovanni Caboto.

 

Le terre che aveva scoperto appartenevano alla nazione che poi divenne il Canada.

Oggi è mese che sono tornato a Edmonton nell’Ovest canadese.

E’ una bellissima giornata di sole, non si direbbe che sia metà ottobre.

Guardo fuori dalla finestra della mia stanza e vedo uno scoiattolo che sta cercando da mangiare nei rami del mio abete rosso.

Deve essersi ricordato delle noccioline che ho messo ai piedi dell’albero qualche giorno fa.

Mentre osservo lo scoiattolo vedo passare la gente, i miei vicini. Come se l'intero mappamondo mi stesse scorrendo davanti.

Un irlandese, un indiano, una coppia di etiopi, un cinese e un sik. Sono in Canada luogo di culture contrastanti e allo stesso tempo omogenee.

Cavalco gli orizzonti/ lasciando al fato la scelta del mio riposo notturno. Su una montagna di ossa/che una volta correvano sulle praterie/ignari di ciò che stavano per pagare/ Bisonti, cervi ,indiano morti, pionieri e case in fiamme/ lasciate indietro nella polvere della depressione. Ho vissuto anch’io in questa terra. Ne ho conosciuto la bellezza delle notti con la bianca neve brillare nella luce lunare mentre da essa fuoriusciva una strana e inquietante struttura:un Inukshuk .

 

Anzi, come scoprii qualche anno più tardi, si trattava di un Inunwack (nella lingua Inuit significa simile ad un essere umano) che è un ometto ovvero una costruzione in pietra usata come punto di riferimento dagli Inuit, Inupiat, Kalaallit, Yupik e da altri popoli della zona artica dell'America settentrionale.

Mentre, lo Inukshuk, il significato è "sei sulla strada giusta" oppure "qualcuno è stato qui". Gli Inuit li costruiscono anche come aiuto direzionale, per segnalare un buon punto di pesca o di caccia, oppure come segnali che si trovano nelle autostrade moderne.. Spesso eretti singolarmente, sono stati ritrovati anche ispirati a specifici temi, come un codice costituito da Inukshuk simili tra di loro che anche a grandi distanze ripetono una sequenza, come una carta stellare.

Queste forme rocciose sono fra i più antichi simboli dell'umanità che si conoscano, sia nel Circolo Polare Artico che in tutto il mondo. Spesso per il viaggiatore, la vista di un Inukshuk è confortante e dà un senso di familiarità in un paesaggio piatto, tutto bianco e senza punti di riferimento.

 

Ogni Inukshuk è unico, con pietre tutte diverse fra loro. Ogni pietra può significare qualcosa per chi ha intrapreso un viaggio in quei posti desolati, e porta impressi i segni del viaggio, ad esempio: quanti viaggiatori erano? c'erano donne? bambini? era un posto dove i caribù sostano.

Mi addormentai ed eccomi di nuovo davanti ad un Inunwack. Ogni braccio,gamba o testa dell’Inunwak significa qualcosa. La direzione da intraprendere, o il passaggio in una valle. Può anche indicare la provenienza di un viaggiatore e dove sarà diretto.

Era più rassicurante del monolite di “Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrik. Mi avvicinai alla sua figura umana e diedi un occhiata attraverso la “finestra” che aveva al posto del ventre. Mi apparve il volto di mia figlia Lorenza che mi svegliava con un sorriso.

Edmonton oct.09 2015 Gigino A Pellegrini & G el Tarik.

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