“Signori, a me l’orecchio!/ E chi di voi vorrà sbarrar l’udito/ a ciò che reca il vento della Chiacchiera?/
Io, dall’oriente al declinante occaso,/faccio del vento il mio caval di posta/per far palesi al mondo i fatti altrui/come spuntano sul terrestre globo./Sulle mie lingue corre la calunnia/ch’io vo disseminando di continuo/nei più svariati idiomi della terra/ inzeppando le orecchie della gente/di false dicerie: parlo di pace,/mentre la subdola inimicizia/sotto il sorriso della sicurezza/prepara i colpi che infierisce al mondo”. Enrico IV di W. Shakespeare
Il mio interlocutore, nel sogno, si lamentava del fatto che oggi la situazione si sia in qualche modo capovolta. Secondo lui, il potere occidentale ha fatto di noi l’oppressore e quindi il nemico. Per questo motivo ci sentiamo in qualche modo in dovere di fare un mea culpa, e questo senso di colpa ci spingerebbe spesso fino alla negazione dell’identità. In questo contesto, come si poteva pensare di ribaltare questo mondo contorto e religioso?
Ritornando a vivere in parte nel Sud, non ho potuto non notare la contorta “dipendenza” tipica degli sconfitti che viene ribadita quasi quotidianamente in qualsiasi circostanza, anche nel cercare con diritto di ottenere un qualsiasi banale certificato. Anche in questo viene sottolineato il “favore” che ti viene fatto.
Osservo come su gran parte della collettività vi sia una spada di Damocle! Secondo il racconto di Cicerone, Damocle era un membro della corte di Dionisio II, detto il “Vecchio”, tiranno di Siracusa. Damocle, in presenza del tiranno, durante un banchetto iniziò a toccare con mano i piaceri dell'essere un uomo potente. Solamente al termine della cena egli notò, sopra la sua testa, la presenza di una spada sostenuta da un esile crine di cavallo.
Forse esposto per anni in eccesso ad altre culture, orgoglioso della storia della propria regione, mi sono sentito intrappolato in un freddo e fumoso paese cattolico dove è impossibile stare a proprio agio senza una spessa imbottitura di ipocrisia tra l’uomo ed il mondo che lo circonda.
I boschi qui non sono mai bruciati per autocombustione e comportamenti distratti. La montagna in Calabria è stata il regno dei mistici e della delinquenza, il deserto spirituale dei santi ecologisti in fuga dal mondo e il rifugio preferito di furfanti e irregolari in lotta col potere.
La storia della Calabria dice che qui la gente non ama la natura che regna per sé. Le montagne che incombono incontrastate sui paesi marinari e alla Sila fanno paura, e i boschi e le foreste un tempo fitte ed estese sono stati considerati sin dall’antichità un danno più che una ricchezza, “terra rubata” all’agricoltura.
Oltre 150 anni passati invano, nonostante le vittime, le devastazioni, le umiliazioni, gli sgarbi, le “rapine” (a volte palesi, a volte impalpabili) per depredare e saccheggiare questa regione (che, comunque, non è rimasta a guardare), in nome di una presunta “superiorità”. Una stupida disfida a chi ce l’ha più lungo.
Dietro il mio tono rabbioso e dolente avverto la percezione che gli orrori della vita nella Calabria post unitaria e Savoiarda siano in gran misura non necessari. Il sudiciume, la stupidità, l’abiezione, la povertà sessuale, la dissolutezza nascosta, la volgarità, le cattive maniere, l’atteggiamento di censura – queste cose sono superflue, poiché il moralismo di cui sono una reliquia non sostiene più la struttura della società. Gente che avrebbe potuto essere felice, senza perdere in capacità, ha scelto invece di essere triste, inventando tabu insensati con cui terrorizzare sé stessa.
Gigino A Pellegrini & G elTarik