Catanzaro - Il procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, replica alla diocesi di Melito-Nicotera-Tropea che, nei giorni scorsi, aveva difeso i due presbiteri coinvolti nell’inchiesta della procura e accusati di estorsioni con l’aggravante del metodo mafioso.
La diocesi, nell’immediatezza, ha sostenuto che i due prelati fossero vittime e non artefici dei reati. Oggi il pm Gratteri rigetta questa ricostruzione, indicando passo dopo passo l’andamento delle indagini.“In data 7 marzo 2019 – scrive il procuratore - veniva notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari del 25 febbraio 2019, nei confronti di quattro indagati, due dei quali, nei 20 giorni successivi alla predetta notifica, chiedevano di essere sentiti dal pm titolare delle indagini. All’esito dell’interrogatorio reso dagli interessati, questa Direzione Distrettuale Antimafia, stralciava la posizione degli indagati escussi ed esercitava l’azione penale nei soli confronti dei due sacerdoti, i quali non hanno offerto alcuna ricostruzione alternativa delle risultanze istruttorie, né hanno segnalato circostanze nuove o diverse rispetto a quelle accertante nel corso delle investigazioni”.
Stando alle indicazioni della Dda di Catanzaro, i due prelati non hanno depositato memorie o documenti, non hanno prodotto documentazione relativa ad investigazioni difensive, non hanno chiesto al pm il compimento di ulteriori atti di indagine, non si sono presentati per rilasciare dichiarazioni, né hanno chiesto di rendere interrogatorio.“Pertanto – prosegue Gratteri - in data 23 aprile 2019, veniva esercita l’azione penale e soltanto a seguito della notifica della data dell’udienza preliminare, fissata per il 3 ottobre 2019, perveniva al pm una comunicazione a mezzo pec del 24 maggio, con la quale il difensore degli indagati non formulava alcuna richiesta di interrogatorio per i propri assistiti, limitandosi a chiedere un colloquio dello stesso legale con il pm titolare delle indagini”.“Va altresì evidenziato che, nella nota redatta dalla Diocesi di Mileto – Nicotera – Tropea si fa riferimento alla circostanza che uno dei sacerdoti protagonisti della vicenda (Graziano Maccarone) è stato, a sua insaputa, registrato dalla persona offesa - vittima del reato di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso - e si allude al fatto che il contenuto di queste registrazioni sarebbe stato “artatamente alterato e artificiosamente interpretato, fino ad accusarlo di messaggi a sfondo sessuale con la figlia disabile”.
Si legge, inoltre, che “l’accusa di violenza e tentata estorsione di stampo mafioso usata da don Maccarone nei confronti del Mazzocca è senza riscontri nella realtà” e che per tale ragione gli imputati hanno provveduto a sporgere querela nei confronti del denunciante, presso la Procura della Repubblica di Vibo Valentia”.
“Sul punto – afferma Gratteri - preme sottolineare che i plurimi accertamenti compendiati nel fascicolo delle indagini preliminari recano oltre alle iniziali registrazioni versate agli atti dalla vittima della vicenda estorsiva, le acquisizioni dei tabulati telefonici, gli esiti delle attività tecniche di intercettazione, nonché le dichiarazioni dalle persone informate sui fatti.
Proprio dagli esiti intercettivi emergeva che don Graziano Maccarone si era attivato per recuperare la somma di denaro data in prestito al Mazzocca, percorrendo quella che lo stesso prelato definisce come la “strada parallela”.
In particolare, rivolgeva a Roberto Mazzocca delle minacce esplicite, comunicate tramite don Nicola De Luca (il quale avrebbe dovuto fargli sapere che “se dovesse partire la macchina non si fermerà più”, avvisandolo di “stare attento, che avrebbe fatto una brutta fine”) e in ultimo - dopo aver preso contatti con soggetti di Nicotera Marina, tra cui il cugino Antonio Giuseppe Tomeo, vicino a Pantaleone Mancuso – riferiva all’amico sacerdote di mettersi da parte, informandolo, nelle date del 18 marzo e del 26 marzo 2013, che sarebbero intervenuti direttamente “i suoi cugini” e avrebbe recuperato il denaro “per vie traverse”, specificando altresì che si era “mosso con i suoi canali”, che “aveva informato la cerchia che lui sapeva” e che fosse stato per la sua volontà, li avrebbe mandati quella notte stessa a picchiare il Mazzocca ma le persone alle quali si era rivolto gli avevano detto “Non è il momento, perché ora il fuoco è troppo alto e ci bruciamo tutti, perché se agiamo, questo fa una piccola cosa, a voi rimane la macchia, non è che non vi rimane! Quindi non è ora cercate un compromesso per temporeggiare e poi interveniamo”.Da qui la conclusione del procuratore capo di Catanzaro: “Tale ricostruzione specifica dell’evoluzione dell’indagine è resa pubblica al fine di dare massima trasparenza all’azione della Procura della Repubblica e della Squadra Mobile di Vibo Valentia, che hanno operato senza “artatamente alterare e artificiosamente interpretare” le risultanze oggettive confluite nel fascicolo delle indagini”.