
Capita spesso che durante le campagne elettorali qualche candidato esageri un po’ e si lascia prendere dalla foga e insulti candidati dei partiti avversari. Capita, è capitato. In campagna elettorale si esagera e si dicono cose a volte assurde. Ma quello che ha combinato un Professore Universitario e non un pinco pallino qualsiasi ha davvero dell’incredibile, e non siamo ancora in campagna elettorale. L’altro giorno in una trasmissione radiofonica un Docente Universitario, un docente, un educatore che dovrebbe dare il buon esempio, si è lasciato andare offendendo gravemente un leader politico che lui non stima usando parole volgarissime, definendolo addirittura scrofa, vacca, rana dalla bocca larga, pesciaiuola, ignorante che non ha mai letto un libro in vita sua. Come può, secondo il detto del Professore, una simile persona parlare da pari a pari con il Presidente del Consiglio Mario Draghi? Colui che ha profferito queste parole è un Docente Universitario, il Prof. Giovanni Gozzini, ordinario del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Siena. Ora è stato sospeso per tre mesi da tutte le attività didattiche e il Consiglio di Disciplina dell’Ateneo è stato convocato nei prossimi giorni per valutare il caso. Non è la prima volta che il Professore fa parlare di sé. Quando era Assessore al Comune di Firenze è finito nei guai per i suoi interventi. L’episodio, comunque, è inaccettabile e bisogna condannarlo senza se e senza ma, perché a pronunziare quelle insulse e volgari offese è stato un Docente Universitario e non un pinco pallino qualsiasi o un candidato insignificante di un partito avverso durante un comizio elettorale in una piazzetta di un piccolo paese. Un comportamento simile non me lo sarei mai aspettato anche perché Gozzini è un Professore di un certo livello. L’On. Meloni si è sentita offesa come del resto altre donne parlamentari e docenti universitarie, però non ha chiesto punizioni per il Professore. Una lezione di stile. Le ha telefonato il Presidente della Repubblica On. Sergio Mattarella esprimendole la sua solidarietà. Consiglierei al Prof., uomo indegno di insegnare in una Università così prestigiosa, di dimettersi subito dall’incarico e di andare immediatamente in pensione. Potrà così riflettere e a lungo a quello che di grave ha commesso. Non solo ha offeso una donna, un parlamentare, un leader politico anche se non la pensa come lui, ma ha violato il codice etico e ha arrecato un grave danno di immagine all’ateneo dove insegna. Ora il Prof si è scusato, non voleva offendere in quel modo. Le scuse non bastano. Bisognava riflettere a lungo prima di pronunziare quelle volgari offese. Gozzini è un Professore e quindi sa benissimo che prima o poi quelle insulse parole a volte generano violenze.
Amici carissimi. Ai miei scolari di quinta elementare leggevo spesso i racconti mensili del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Quello a cui erano più affezionati era “Sangue romagnolo”, forse perché il protagonista del racconto era un ragazzo come loro. Una sera Ferruccio era solo in casa con la nonna paralitica delle gambe, perché il papà era andato a fare delle compere e la mamma lo aveva accompagnato con la sorellina Luigina. Pioveva, tirava vento. Mancava poco alla mezzanotte. La stanzetta era rischiarata da una piccola lucerna ad olio, come del resto ciò avveniva non molto tempo fa anche nelle nostre case di campagna. Ferruccio, quella sera, era rientrato tardi a casa, infangato, con la giacchetta lacera, e finanche con un bel livido in testa. La nonna appena lo vide lo rimproverò perché l’aveva lasciata sola in casa tutto il giorno. Se continui così, caro nipote, ti metterai per una cattiva strada. Avrai una brutta fine e pronunciò il nome di un ragazzo del paese che faceva il vagabondo e che era stato già due volte in galera. Aveva fatto morire di crepacuore la povera mamma. Ferruccio non ebbe il coraggio di chiedere scusa alla nonna e prometterle che non l’avrebbe mai più lasciata sola. Ad un tratto sentirono dei rumori provenienti dalla stanza accanto. Non erano le imposte scosse dal vento, erano due ladri che erano entrati in quella casa. Uno afferrò il ragazzo e gli mise una mano sulla bocca per non farlo gridare, l’altro puntò un lungo coltello alla gola della nonna. Erano venuti per rubare e infatti rubarono i pochi denari che la famiglia teneva nell’armadio. Prima di allontanarsi, però, la nonna conobbe uno dei ladri, il quale, si avventò col coltello alzato contro la nonna. Ma Ferruccio, gettato un grido disperato, s’era lanciato sulla nonna. La nonna si salvò. Ferruccio, il piccolo eroe, lentamente spirò sulle ginocchia della nonna.
Ma perché vi ho voluto raccontare l’episodio tratto dal libro “Cuore”? Perché un fatto simile si è verificato l’altro giorno in un paese degli U.S.A., solo che durante la rapina uno dei rapinatori è stato ucciso da un ragazzo, pure lui di 12 anni come Ferruccio, e che era in casa quella sera insieme alla nonna. Anche loro erano soli in casa e quando il ragazzo vide che la nonna era stata ferita alle gambe con un colpo di pistola subito corse in suo aiuto. Anche qui i ladri si erano introdotti in casa e incominciarono a minacciare la nonna e il ragazzo con una pistola. I malviventi volevano che la nonna rivelasse dove fosse nascosto il denaro e gli oggetti di valore e per spaventarla le spararono alle gambe. Allora, il nipotino, senza pensarci due volte intervenne per salvare la nonnina e sparò alcuni colpi di pistola contro i ladri ferendone uno mortalmente. Non è anche lui, come Ferruccio, un piccolo eroe? Sì che lo è. Ma se l’accaduto fosse successo in un paesino italiano il ragazzo sarebbe stato arrestato, processato e poi messo a marcire nelle patrie galere, per abuso di legittima difesa. Sarebbe passato da eroe direttamente ad un riformatorio e il padre del ragazzo avrebbe passato seri guai: arma non custodita.
Nel 2013, otto anni fa, una donna madre di un bambino piccolo, certamente inesperta e non una ladra di professione perché nel rubare un paio di pantofole di un negozio di Palermo non rimuove neppure l’antitaccheggio, per la prima volta in vita sua si allontana da un negozio con la merce nella borsa senza prima passare dalla cassa. Il padrone se ne accorge, viene fermata e chiama i Carabinieri. Le pantofole rubate avevano un valore di 19,99 euro. Pochi euro, per la verità. Ma la donna aveva commesso un reato anche se il valore della merce era esiguo. Per la legge la donna aveva commesso un reato e quindi doveva essere punita. La legge è uguale per tutti, c’è scritto nelle nostre aule dei Tribunali. Il proprietario poteva chiudere un occhio, poteva farne a meno di avvertire le Forze dell’ordine. Anche perché la donna si era subito pentita. Aveva ammesso il furto e in lacrime si era dichiarata pronta a pagare i 19,90 euro. Niente da fare. E’ stata denunciata e portata in giudizio. Chi ruba dovrà essere punito. Infatti la donna è stata condannata a 50 euro di multa e a un mese di reclusione. Dopo due processi, però, e dopo otto lunghi anni, la sentenza è stata definitivamente ribaltata per la tenuità del fatto. Io che non ho compreso il significato di tenuità mi sono preso la briga di andare a consultare il Dizionario della Lingua Italiana e così ho finalmente capito che il reato commesso dalla signora era tenue, lieve. Non si doveva condannare una persona solo per aver commesso un furto di appena quattro soldi. Quanti anni ci sono voluti per avere una condanna o una assoluzione definitiva per il furto commesso? Nelle altre parti del mondo e nei paesi civili pochi mesi direi. In Italia, invece, otto anni. Quattro anni di indagini, colloqui, verbali, udienze e quattro anni di processi impiegando ore ore nelle cancellerie dei Tribunali con lo sperpero del pubblico denaro. Per punire un ladro incallito? Un delinquente? Un camorrista? Uno spacciatore di droga? No, per un paio di pantofole rubate del valore di appena 19,99 euro. Le spese giudiziarie ammontano a circa 3.000 euro, senza contare le ore perse che sarebbero potuto servire per affrontare altri processi molto più importanti e più gravi. Chi le paga? Noi contribuenti, evidentemente. Processo che si poteva evitare, perché, come abbiamo visto, la donna era incensurata, inesperta, in lacrime aveva restituita la refurtiva e si era dichiarata pronta a pagare. La storia che vi ho raccontato, miei lettori carissimi, è apparentemente banale, ma finisce per rivelarsi invece emblematica, come riferisce Palermo Today, “per comprendere certi cortocircuiti della giustizia, che sembra accanirsi sui più deboli e arrovellarsi su questioni irrilevanti in un contesto di cronico intasamento dei tribunali”.