La seconda guerra mondiale aveva portato dolore e povertà.
Amantea che aveva vissuto di mare non aveva potuto in quegli anni esercitare la pesca con le lampare, quella che permetteva di pescare le alici che poi venivano vendute per tutte le campagne dell’hinterland e perfino a Cosenza.
La pesca si era ripresa subito dopo l’armistizio, ma mancavano tanti altri prodotti, in particolare lo zucchero; quel poco che arrivava era quasi nero.
Il caffè, o meglio quello che veniva bevuto come caffè, non aveva bisogno di zucchero, veniva bevuto amaro.
Od al più addolcito con miele.
Ma lo zucchero, serviva per addolcire il latte per i bambini.
In particolare lo zucchero serviva per addolcire il latte di asina o di capra che sostituiva quello materno per tanti bambini nati nell’immediato dopoguerra e le cui mamma non ne avevano.
Grazie alla povertà si crearono tantissime relazioni tra le famiglie.
Relazioni di fortissima intensità umana, soprattutto di quartiere, quando esso esisteva, come avvenne, per esempio, in quel di Catocastro, e che in qualche modo ancora si trascinano e che nel tempo sono diventate una intensa forma di rispetto.
Quella che vi racconto è una storia vera avvenuta il 1956.
In quel tempo era d’uso celebrare al meglio le vigilie.
Quella dell’Immacolata, quella di Natale e quella dell’Epifania.
Le famiglie si riunivano per passare insieme le tre serate.
Chi poteva preparava il cenone nel quale non mancava mai la pasta con la mollica, il baccalà arriganato e quello con i broccoli e le olive.
Una cena che si chiudeva con i cullurielli il dolce tipico di Natale
Era il pomeriggio della vigilia della Festa dell’Immacolata, quella che apriva la festività natalizie.
Tutta la famiglia per due mesi era andata a raccogliere le olive di don Ciccio Mileti ed avevamo una buona provvista di olio.
Mio padre, poi, d’estate era andato a lavorare in Sila ed aveva portato della buona farina.
Mia madre così aveva cominciato a friggere cullurielli.
Il profumo riempiva l’aria e sul muro della “Curva dei Gallo” c’erano i ragazzini che sembravamo abbeverarsi ad esso.
Sul muretto davanti alla vecchia casa alcuni piatti piani e di lato alcuni tovaglioli.
Man mano che i cullurielli uscivano dalla grande padella di ferro, mia madre li metteva sui piatti.
Tre, quattro, cinque, sei , sette cullurielli, a seconda dei componenti della famiglia.
Poi li copriva e partivano gli ordini:
“ Chissi alla cummara ……… . Fatti dari u piattu, ca serve pè atri!”
“Vieni subitu”
Ed io immediatamente partivo verso il fiume o verso il collegio.
Uno, due, tre viaggi.
“ A nonna ti ringrazie, a zia ti ringrazie, a cummara ti ringrazie, don ……… ti ringrazie, ………. ti ringrazie, eccetera ”
Al decimo viaggio cominciai ad essere stanco.
Ed allora chiesi a mia madre
“ Ma, e li nuostri? “
“ Si ni restuno -fu la risposta - Va, va, porta chissi. Ca nua rinraziannu u signuru stasira mangiamu, e nun tutti intra u quartieru tenunu nu piattu i pasta”
Poi vedendomi sorpreso aggiunse “Antisu arduru i buonu cucinatu intra tutti i casi adduvu te mannatu?”
Non risposi, ma mia madre capì la risposta.
Mi sentii leggero negli ultimi viaggi che feci.
Era buio quando ritornai e davanti alla cucina trovai la intera famiglia.
Il nonno che riempiva le bottiglie versando il vino dalla damigiana, papà che stava dando le ultime attenzioni al baccalà con broccoli ed olive, la nonna che preparava la pasta con la mollica, mentre la mamma continuava a friggere cullurielli, pitticelli i calijuri ed altre leccornie.
Infine ci sedemmo tutti a tavola e papà portò dentro il braciere , poi chiuse la porta ma solo dopo aver preparato e lasciato fuori sul muretto il mangiare per Gesù, la Madonna e San Giuseppe.
Ma questa è un’altra storia. La prossima.
Come d’uso nella nostra famiglia in questi giorni e silenziosamente ringraziammo il Signore facendoci il segno della croce.
Poi fu festa.
Ma il mio pensiero ogni tanto andava alle famiglie dove ero andato.