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L'ex Pm di Palermo Antonio Ingroia è indagato dalla Procura di Caltanissetta per il reato di violazione del segreto istruttorio. L'indagine nasce dall'esposto presentato, nei mesi scorsi, dal legale del boss Bernardo Provenzano.

L'ex Pm di Palermo Antonio Ingroia è indagato dalla Procura di Caltanissetta per il reato di violazione del segreto istruttorio. L'indagine nasce dall'esposto presentato, nei mesi scorsi, dal legale del boss Bernardo Provenzano, l'avvocato Rosalba Di Gregorio, dopo l'interrogatorio del boss da parte dell'ex pm

Il legale aveva segnalato la fuga di notizie sull'interrogatorio a cui, a maggio, era stato sottoposto il suo cliente. Nell'esposto Di Gregorio faceva presente che l'articolo pubblicato sul ''Fatto quotidiano'' sull'interrogatorio di Provenzano, condotto da Ingroia, era stato pubblicato il 5 giugno e che solo dopo due giorni il contenuto del colloquio investigativo era stato trascritto. Una circostanza che faceva dedurre al legale che solo chi aveva fatto l'interrogatorio era in grado di dare la notizia. La tesi, secondo il difensore, sarebbe stata avvalorata dal fatto che nel pezzo erano riportate impressioni sullo stato di salute di Provenzano dei magistrati. L'esposto, presentato dall'avvocato, venne firmato dai figli del boss Angelo e Francesco Paolo. Nei giorni scorsi i magistrati di Caltanissetta hanno sentito sulla vicenda la giornalista Sandra Rizza, autrice dell'articolo. (ANSA).

La tesi, secondo il difensore, sarebbe stata avvalorata dal fatto che nel pezzo erano riportate impressioni sullo stato di salute di Provenzano dei magistrati. L'esposto, presentato dall'avvocato, venne firmato dai figli del boss Angelo e Francesco Paolo.

I pm presenti all'audizione col boss erano due, Ingroia e Ignazio De Francisci, ma secondo i pm nisseni la fuga di notizie sarebbe da addebitare al solo ex magistrato.

«Fantasia totale», la replica di Ingroia,«È lusinghiero essere denunciati dal boss Bernardo Provenzano non ho saputo nulla ma non posso pensare che i magistrati di Caltanissetta possano a loro volta avere commesso la violazione del segreto istruttorio. L'unica cosa vera è che mi hanno denunciato il difensore di Provenzano ma anche altri imputati come Contrada, Dell'Utri, Berlusconi. Venni pure indagato dalla Procura di Caltanissetta, e tutte le denunce sono state archiviate. D'altro canto sono stato denunciato dal difensore di uno stragista come Provenzano, mio imputato in alcuni processi. Insomma, il solito sistema degli imputati di cercare di rovesciare la frittata per mettere sul banco degli imputati i loro accusatori».

Pubblicato in Italia

Nove anni di carcere per l’ex generale dei carabinieri Mario Mori e sei anni e sei mesi per l’ex colonnello Mauro Obinu. Sono le richieste di condanna formulate dal pm di Palermo Di Matteo a carico dei due ufficiali dell’Arma imputati di favoreggiamento aggravato alla mafia. La vicenda processuale riguarda la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano (nel 1995) la cui latitanza secondo l’accusa sarebbe stata salvaguardata proprio dall’ex numero uno del Ros Mori e da Obinu sulla base della presunta trattativa intavolata tra pezzi dello Stato e mafia a partire dal 1992 e per la quale è in corso un distinto procedimento penale.

In un passaggio della sua requisitoria di stamattina il pubblico ministero Nino Di Matteo ha detto:

Mori e Obinu non furono collusi o corrotti o ricattati dalla mafia, ma fecero una scelta di politica criminale sciagurata: fare prevalere le esigenze di mediazione favorendo l’ala ritenuta più moderata di Cosa nostra.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti nonostante la soffiata di un confidente gli imputati non catturarono Provenzano nel ‘95. Il boss fu poi arrestato nel 2006, a Corleone, in una masseria. Di Matteo ha anche citato le dichiarazioni dell’ex ministro della giustizia Claudio Martelli su quanto gli riferì l’ex direttore degli Affari penali del ministero a proposito della richiesta di un supporto politico che i carabinieri avrebbero chiesto per loro attività di contatto con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

Nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia abbiamo incontrato tante resistenze politico-istituzionali, resistenze che continuano ancora ha detto al riguardo Di Matteo che ha poi inteso ricordare il ruolo del figlio di don Vito, Massimo Ciancimino:

Sono le sue dichiarazioni che ci hanno consentito di riaprire l’indagine sulla trattativa Stato-mafia.

In caso di condanna di Mori e Obinu secondo il pm:

si renderà onore alla verità e al sacrificio di tanti uomini dello Stato, di tanti carabinieri, che affrontano i rischi del loro lavoro senza compromessi.

Per gli imputati è stata chiesta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici vista la gravità delle condotte loro contestate. Ora tocca alle difese di Mori e Obinu replicare

 

Pubblicato in Italia

Una storia che se vera è preoccupante. Usa l’auto privata per appostare mafiosi e viene contravvenzionato . Chiede l’annullamento della multa ma viene rinviato a giudizio e rischia la destituzione. Lui usava l’auto privata ed era vicino alla cattura di Bernardo Provenzano e del superboss trapanese Matteo Messina Denaro per le quali venne fermato. Ora denuncia tutti!!!!

“Scovare i latitanti di mafia per lui è una vera e propria missione; ma dall'alto qualcuno si è messo di traverso per bloccare le sue ricerche di Bernardo Provenzano e del superboss trapanese Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. A raccontarlo, al Corriere della Sera, è il maresciallo capo dei carabinieri Saverio Masi, oggi caposcorta del pm palermitano Nino Di Matteo che indaga sulla trattativa Stato-mafia. Il sottufficiale ha presentato una denuncia, con tanto di nomi e cognomi, in cui spiega alla Procura di essere stato bloccato da alcuni superiori nella sua caccia ai boss.

Tutto comincia nel 2001, quando lui vuole trovare Provenzano; scopre che l'impresa non sarebbe così difficile, grazie a un contatore Enel riconducibile a chi lo copriva durante la latitanza; ma gli viene ordinato di sospendere le indagini. Segue il racconto di altri episodi, come il tentativo di piazzare cimici nel casolare nel boss corleonese, fallito solo perché "il Ros aveva dimenticato gli attrezzi per forzare la serratura". Da lì la comprensione di quanto, secondo Masi, sta accadendo: nessuno vuole arrestare il capomafia, finito poi in carcere nel 2006; circostanza che gli sarebbe stata urlata in faccia, chiaro e tondo, da un superiore.

Masi riferisce anche di episodi "strani" legati al mancato arresto di Messina Denaro, tuttora latitante. Dopo averne individuato un aiutante personale, viene costretto a passare le indagini e prendere le ferie; ma lui è deciso a stanare il boss; quindi, finite le vacanze, riprende le ricerche e trova un casolare sospetto. Ci arriva davanti, e una porta si spalanca all'improvviso: vede alcuni uomini intorno a un tavolo e in uno di loro riconosce il superlatitante; si nasconde sotto una siepe per non essere scoperto e poi torna in caserma a riferire l'esito delle indagini, ma litiga con il capitano e scrive un rapporto che cade nel vuoto. Qualche anno dopo, un episodio simile, con il capomafia che secondo il militare resta libero di andarsene in giro come fosse un fantasma.

Il maresciallo Masi tra pochi giorni andrà a processo con l'accusa di tentata truffa, per aver chiesto l'annullamento di una multa presa con l'auto privata usata per gli appostamenti. Rischia la destituzione, come spiegano i suoi legali che precisano: "Sarebbe un sinistro monito a tutti i carabinieri che intendano impegnarsi come lui nel contrasto alla mafia". “

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