Riceviamo e con piacere pubblichiamo l'articolo di Francesco Gagliardi:
Un tempo nelle nostre campagne esistevano solo case coloniche, le cosiddette “turre”, massimo due stanzette ed una cucina.
Poi a parte c’erano le stalle per l’asino e per le vacche, il pollaio, il porcile, il fienile, la legnaia,un magazzino con i sacchi di farina di frumento e di granoturco.
Insomma, tutto quanto bastava per rendere la turra una struttura sufficiente a se stessa, qualche villa padronale, una chiesetta e una o due case di piccoli artigiani.
L’acqua da bere bisognava andarla a prendere con i barili nelle fontanelle sparse qua e là.
E per i bagni?
Ma quali bagni, non rientravano nelle consuetudini dei contadini.
D’estate qualcuno si immergeva lungo il corso dei fiumi o nelle cibbie.
Le chiesette nelle nostre contrade sono due.
Una dedicata al Profeta Elia si trova nella omonima contrada, l’altra dedicata all’Arcangelo Michele si trova nella contrada Gallo.
Ce n’era un’altra in contrada Colopera, ora non esistono più neppure le pietre.
Nelle contrade c’erano finanche le scuole elementari, perché c’erano tantissimi alunni nell’età dell’obbligo scolastico.
Il numero degli alunni non deve trarci in inganno.
Moltissimi di loro frequentavano la scuola soltanto durante i mesi invernali. In autunno e primavera abbandonavano la scuola e si dedicavano al lavoro dei campi.
Ecco perché la maggior parte degli abitanti erano analfabeta o semianalfabeta.
Quasi tutti gli abitanti del paese non sapevano né leggere né scrivere, a stento sapevano fare la loro firma.
Ci sono atti addirittura del Comune dove compare questa dicitura: Per il Sindaco analfabeta segno di croce dell’Assessore anziano.
Delle donne poi non ne parliamo.
Non avevano mai preso in mano neppure l’abbecedario.
La gente, oltre essere analfabeta, non sapeva neppure parlare l’italiano.
Pochissimi erano in grado di esprimersi nella lingua che oggi tutti usiamo.
Mentre i figli delle famiglie benestanti frequentavano regolarmente gli studi i bambini e le bambine dei contadini venivano subito impiegati nelle faccende domestiche e nei campi.
Ogni turra possedeva un forno che veniva usato ogni 15-20 giorni e serviva a cuocere il pane non solo per la famiglia numerosa che abitava quella turra, ma anche per le famiglie vicine e indigenti che non avevano il forno.
Ma il forno veniva usato anche per infornare i fichi, la ghianda e le castagne per gli animali.
Mentre le donne nei cosiddetti “catoi” erano intente a impastare la farina, un uomo, spesso il padrone, provvedeva ad accendere il forno con la legna e le frasche che le donne avevano raccolto nei boschi circostanti.
La legna veniva attizzata con il forcone.
Intanto il forno si scaldava.
Le fascine accese crepitavano allegramente e il riverbero delle fiamme tingeva di rosso il volto del fornaio.
Quando il forno era ben caldo veniva ripulito dai tizzoni e dalla cenere mediante il rastrello e messi in un angolo del forno, poi con uno “scupolo” un po’ bagnato, il fondo del forno veniva ripulito accuratamente.
Infine seguiva l’infornatura mediante una lunga pala.
Alla fine la bocca del forno veniva chiusa con una porta in ferro.
L’uomo o la donna addetti al forno sapevano quanto tempo occorreva per la cottura del pane. Quando la porta veniva rimossa usciva dal forno un odore caratteristico di buon pane che da tempo abbiamo ormai dimenticato. Era festa grande in casa quando la mamma faceva il pane.
Ognuno voleva una pagnottina per sé e quando si impastava la farina con l’acqua tutti volevano mettere le mani nella madia ( a Majlla ), togliere la pasta lievitata, partirla, foggiarla a pagnotte e farvi sopra il segno della croce. Mi vengono in mente alcuni versi di una poesia di Ferruccio Greco:
…e sientu ancora mò l’adduru anticu
Chi saglia ppe re scale d’intra u vicu
Quannu u pane ni purtava a furnara
Na sporta de fatiga duce e amara.
Ricordo pure una poesia del poeta Francesco Pastronchi molto bella e che oggi, purtroppo, nelle nostre scuole non si fa più imparare a memoria. S’intitola :
Il pane.
Pane, ti spezzan gli umili ogni giorno,
lieti se già non manchi alla dispensa.
A lor quale più sacra ricompensa
Di te, che giungi fervido dal forno?
Come biondeggi al desco disadorno,
così tra vasi d'oro; in te si addensa
ogni ricchezza, e la più bella mensa
di tua ruvida veste non ha scorno.
Figlio del sole, tu ne porti un raggio
in ogni casa, e a chi di te procaccia
onestamente, illumini la fronte.
Ma più risplendi, quando nel viaggio,
stanco, il mendico dalla sua bisaccia
ti trae, sedendo al margine di un fonte.
E che dire della poesia di Gianni Rodari.
Se io facessi il fornaio, vorrei cuocere il pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare.
Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole.
Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chili i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.
Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia.
San Pietro in Amantea by Francesco Gagliardi