Il recente viaggio a Vancouver aveva i presupposti di essere come qualsiasi altro viaggio fatto in passato. - una prova di resistenza jet-lag, incontri saltuari, luoghi della memoria di quello che avrebbe potuto essere e non lo è stato, ed altro. Questo viaggio invece mi ha riservato una sorpresa, per molti versi inimmaginabile.
Sono nato in un piccolo paese sul mare, anche se è quello di Ulisse. Per molti anni mio padre, Giuseppe ha lavorato in Venezuela, ma dopo circa 9 anni decise di rientrare in Italia. Al massimo, lo vedevo ogni tanto. Non lo frequentavo molto. In quelle rare occasioni, la conversazione era di solito molto banale. – cosa avremmo mangiato, che film avremmo visto in TV - o circa la mia vita a Roma. Non ha mai volontariamente dato molte notizie su se stesso e, anche se ero molto curioso, avevo imparato a non spingermi oltre con lui. Sapevo che aveva affrontato la sua dose di sfide lungo la strada, e che sempre, in qualche modo, questo giustificava la sua reticenza ai miei occhi. Cresciuto, dopo i dieci anni come orfano di padre, venne giovanissimo ospitato in casa dalla futura mia nonna, sposandosi la prima delle figlie ma non ancora mia madre. In genere, come già accennato, mio padre non parlava mai con qualcuno ma a qualcuno. Semplicemente non era nella sua natura discutere. In pochi istanti, sono tornato indietro nel tempo ed ho cominciato a immaginarlo come doveva apparire da spaventato. Avevo appena superato l’esame di chimica e fisica. Cercando di barcamenarmi con le materie tecnologiche. In un piccolo paese come il nostro sulla costa tirrenica, mio padre aveva trovato rifugio nel mondo avvolgente della carte da gioco; anche perché Amantea ( il paese dove sono nato in Calabria) non era Caracas o Miami. Si lamentava ogni tanto della morte del padre, avvenuta troppo presto e che lo aveva costretto ad interrompere gli studi dopo la quinta elementare. Forse avrebbe potuto diventare un professore di fama mondiale, forse anche un premio Nobel. Almeno così diceva. La sua vita di bell’Antonio in erba stava per finire, e una saga di conflitti e morte stava per iniziare. Dopo la guerra, perse la moglie, sposò la cognata, mia madre e nel 49 partì per il Venezuela, aveva bisogno di padroneggiare una nuova lingua e trovare un nuovo lavoro. Col senno di poi, era chiaro che mai più avrebbe avuto la possibilità di “realizzare il suo vero potenziale”. Era amareggiato per la ferita alla gamba che lo costrinse a camminare in maniera un po’ strana? Non credo. Quella cosiddetta “stranezza” l’aveva trasformata in un suo stile particolare che lo rendeva unico. Difficile da dire. Parlava di tutto, ma di se stesso molto poco. In questi giorni, qui a Nanaimo sull’Isola di Vancouver, la consapevolezza, di quella che deve essere stata la delusa vita di mio padre, non mi ha abbandonato un momento. Ci sono altri segreti della sua vita in agguato in qualche luogo della Terra? Per questi, non mi rimane molto tempo per cercarli. La domanda che mi pongo è abbastanza semplice! Perché, allora, tanta tristezza nell’anima, tanta delusione? Perché le persone e le situazioni a volte ci deludono? So che è il modo in cui ci si sente a volte, ma non è questo il motivo per cui si prova delusione, amarezza. In realtà, il mio disappunto non ha nulla a che fare con altre persone, luoghi o circostanze. Il fatto è che in realtà il disappunto o delusione non ha origine fuori di me, anche se lo avverto come tale.
Il tempo sta per cambiare sul Pacifico. E’ un mattino quasi grigio ma non mi dispiace. Chiaramente non riesco a controllare le condizioni atmosferiche né la magnificenza di questo luogo. Decido, così, di lasciar andar via questi pensieri e bere un caffè americano seduto sulla terrazza, mentre due canoe lasciano il piccolo porto per andare a pesca.
“Tra venti anni non sarete delusi dalle cose che avete fatto… ma da quelle che non avete fatto. Levate dunque l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite.”
(Mark Twain)
Gigino A Pellegrini & G el Tarik