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angeloVoglio provare a raccontare l'incredibile storia di D il maldestro.

D soffriva e soffre di una rara malattia genetica autosomica chiamata “Sindrome Amorosa”. Una delle sfortunate conseguenze di questa sindrome è stata la successiva comparsa deformata dell'individuo, che potrebbe portare il nostro ad una netta sensazione di isolamento.

Inoltre, la sindrome amorosa, quasi sempre è stata mal diagnosticata perché presenta una gamma infinita di sintomi, e a volte è stata trattata in maniera inappropriata.

D alla ricerca di una soluzione.

Il progetto è stato quello di partire per un viaggio che gli avrebbe fatto attraversare l'Atlantico e il Pacifico, al fine di costituire un gruppo di sostegno e contribuire a riunire e sensibilizzare scienziati, medici e malati d’Amore come lui.

Durante il viaggio su di una nave mercantile, D ebbe modo di riflettere sull’influenza della malattia sulla propria persona e sulle persone a lui care. "Potrei far fronte ad essa sapendo di essere solo io a soffrirne”, ma rendersi conto che senza volerlo la stessa stava avendo degli effetti negativi anche su altre persone, lo rendeva ancora più triste.

In mancanza di una cura, D decise di aver fiducia in un nuovo trattamento: 'la terapia fotodinamica', in grado, così si diceva in giro, di ostacolare l’oblio a cui questo suo sentimento sarebbe stato destinato.

Non desiderava una rosa a Natale più di quanto potesse desiderare la neve a maggio: d’ogni cosa gli piaceva che maturasse quand’era la sua stagione. D aveva una predilezione per l’uso intensivo di modelli retorici, il costante ricorso a parallelismi e comparazioni, come strumenti d’indagine e l’impiego di tali artifici stilistici e semantici quali mezzi dell’espressività.

Ciò assunse una funzione critica: “smascherare” l’utilizzo convenzionale di tali caratteristiche formali in stridente contrasto con le forme di espressione dei “veri sentimenti”. Tutto ciò si dipanò in estrema ed efficace sintesi nella forma, nella struttura di questo suo Amore, che venne scambiato per null'altro che frivolezza; ma allorquando D si rivelò definitivamente in tutta la pienezza dei suoi sentimenti, un messaggero portò improvvisa la notizia della morte di quel sentimento in lei.

Una volta compresa la sincera natura del sentimento del nobile D , lei avrebbe potuto metterlo alla prova con un decennio di eremitaggio, alla fine del quale, se il proponimento fosse rimasto immutato, lei avrebbe potuto acconsentire ad amarlo.

Se D sapesse scrivere della bellezza degli occhi di lei, e cantare in nuovi versi tutte le sue grazie, il Futuro si pronuncerebbe dicendo che D poeta mente, perché mai un volto ebbe tali sembianze sulla terra.

“L’amore fugge come un’ombra l’amore reale che l’insegue, inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l’insegue”. 

L’Amore che porta scompiglio, sconvolgimento, mette sotto sopra la mente quanto il fisico di D, lo affatica e, in alcuni casi, lo arresta in un limbo di impotenza, di morte della ragione, di follia. Niente di surreale, niente di inventato dagli animi vaganti di poeti d’altri tempi. Amare D o odiarlo, entrambi sarebbero a suo favore.

Se lo si amerà, sarà per sempre nel cuore di lei; se lo si odierà, sarà sempre nella sua mente. D avrà sempre un cuore che si agita in petto, che sembra scalpitare ed uscire fuori dalle poche parole scritte su un papiro d’altri tempi, e a distanza di secoli batterà ancora come se un unico sentimento, una comunanza viscerale di sensazioni, tenesse legato tutto il genere umano, poeti e meno poeti.

Il sentimento amoroso e i suoi sintomi, sarà sempre lo stesso. Qualcosa di crudo, reale, che si radica nei sensi e non ha niente di trascendente: fuoco che brucia sotto la pelle, orecchie che ronzano, fronte bagnata di sudore e pallore improvviso.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Calabria

Iservisn passato l’essere umano ha usato la tecnologia come uno strumento per rendere la propria vita e sopravvivenza più facile. Oggi stiamo assistendo ad un cambiamento radicale.

 

Quale ruolo la tecnologia sta giocando nel sociale e potrà giocare per le generazioni a venire? E’ evidente che la tecnologia, nel mondo moderno, non rappresenta più uno strumento per la sopravvivenza, ma si è rivelato sempre più un mezzo di comunicazione e di intrattenimento.

La tecnologia di comunicazione di massa sembrerebbe aver reso più facile la condivisione con gli altri. Allo stesso tempo, ci si pone il problema se la tecnologia abbia un'influenza positiva o negativa sulla nostra società, e se l'uso della tecnologia può annullare l’ interazione “face to face” e la comunicazione tra le persone.

 

Ogni volta che ci si trova in un bar, in piedi alla fermata dell'autobus o a prendere la metro si può facilmente vedere come le persone comunicano tra di loro utilizzando diversi tipi di dispositivi elettronici.

La preoccupazione principale, per quanto riguarda questo nuovo comportamento, è se tutto questo abbia reso la comunicazione tra le persone inesistente o quasi. Questo sembra esser vero in molti casi e potrebbe indurre l’uomo a vivere in un mondo virtuale. Un mondo fatto solo d’interazioni con le persone attraverso sms e social network. Questo tipo di interazione, tra l'altro, creerebbe la possibilità di isolarsi fisicamente; come l’avere troppe amicizie virtuali provocherebbe l'incapacità di stabilire relazioni significative.

 

Circa 40 anni fa, nel film “Sleeper” (Il Dormiglione) di Woody Allen, il protagonista, al suo risveglio dopo due secoli, si trova davanti ad una “cabina dell’amore” dove si entra per avere un rapporto sessuale senza la presenza di un altro essere umano.

Le nuove generazioni stanno partecipando ad un massiccio esperimento sociale non intenzionale i cui risultati non sono del tutto prevedibili. Il paradosso della tecnologia di comunicazione di massa è che stiamo crescendo più distanti gli uni dagli altri quando scegliamo di rendere gli smartphones, computer, televisione e simili il nostro principale mezzo di comunicazione con gli altri. La tecnologia dovrebbe aiutare gli esseri umani a migliorare la propria qualità della vita, e non impedire di creare rapporti significativi con l'altro. E' vero che gli effetti a lungo termine della comunicazione sociale moderna sono ancora da vedere, ma non sembrano, almeno per ora, più vantaggiosi.

 

La mancanza di comunicazione riguarda anche i rapporti all'interno di uno stesso nucleo.

E 'abbastanza comune che oggi in una famiglia si possa cenare completamente separati gli uni dagli altri; evitando quasi di proposito l’interagire faccia a faccia. D'altra parte ci potrebbe essere una spiegazione per questo fenomeno; mariti, mogli, fidanzati e fidanzate non riescono più a passare giornate intere senza parlare tra di loro al telefono, tramite e-mail, facebooking l'un l'altro o sms.

 

Le persone sembrano essere passivamente influenzate dalla tecnologia, invece di governare attivamente il suo uso e la sua ascendenza. Internet ha la capacità di garantire l’anonimato attraverso un canale di comunicazione.

Alcune ricerche hanno sottolineato come l'aspetto relativo all’anonimato favorisce l'espressione di sé, e la relativa assenza di spunti d’interazione fisica e non verbali facilitano la formazione di relazioni su altre basi. Allo stesso tempo, tuttavia, queste caratteristiche tendono anche a lasciare un sacco di “non detto” e non “chiarito”, e aperto a varie interpretazioni.

 

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Comunicati

001Nel sogno della notte scorsa, sono stato spettatore di un inverosimile film, senza il costo del biglietto.

 

Cosa verrebbe fuori se si volesse cercare di analizzare la complessa relazione tra due diversi tipi di atteggiamenti quello socio-temporale come "la vita di tutti i giorni" e il momento dell'incontro con l’arte? L

’eterna condanna dei viventi non è qualcosa che sarà; è quello che è già qui, l'inferno che viviamo tutti i giorni, che formiamo vivendo insieme nel sociale.

 

Potrebbero essere due i modi per non soffrirne.

Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte. Il secondo è più rischioso ed esige attenzione e apprendimento continuo. Per esempio, il concetto di Italo Calvino dello "inferno", deriva dal suo immaginare la crisi della modernità come una sorta di vaso di Pandora.

 

I tempi in cui viviamo, in cui l'inferno fiorisce, suggeriscono che se vogliamo espandere i nostri orizzonti, "guarire il mondo," imparare gli uni dagli altri, e cominciare a ridefinire nozioni di evoluzione, dobbiamo scegliere di iniziare tale lavoro da una via di mezzo, un punto senza origini, cioè come uno stato rizomatico di costanti del "divenire".

In generale, si potrebbe pensare ad una esperienza come un insieme di sensibilità e possibilità che producono un soggetto cosciente, sulla scia della globalizzazione e identità politica. Questo tipo di esperienza sembrava essere riservata agli oppressi ed emarginati, proponendo una responsabilità di coloro che non appartenevano a tale esperienza per riconoscere e convalidarla, con un atto di “benevolenza”.

 

Un atteggiamento, questo da protettore di animali domestici, che porterebbe verso certi aspetti più semplici e tuttavia profondi dell'umanità, verso quei fili comuni che collegano ogni soggettività nel mondo in generale, in breve, della quotidianità.

Come potrebbe funzionare un rivedere la nozione di “esperienza” nel nostro attuale clima culturale al fine di presentare noi stessi gli uni agli altri e creare nuove strade di dialogo in modo di affermare la differenza e respingere l'omogeneità? Se si insiste sul fatto che non vi è alcun riferimento esterno da cui partire per guardare consapevolmente e giudicare, allora lo spazio di tutti i giorni, la routine, potrebbe agire come una lente attraverso la quale si potrebbe considerare una tale posizione e filtrare le nostre differenze e i tratti comuni.

 

Il senso di reciprocità può essere condiviso tra lo spettatore e il creatore di un'opera d'arte in termini di esperienza.

Questo senso si rivela durante l'incontro con l’opera d'arte quando agisce da fulcro tra due interpretazioni dello stesso evento.

I due aspetti della sua composizione e la sua ricezione come collegato con l'esperienza.

Se uno viene rimosso dalla banalità del contesto quotidiano attraverso l'incontro con l'opera d'arte, si potrebbe creare un tipo di "vivere attraverso" ciò che è altrimenti trascurato o ignorato.

 

L'opera d'arte in questo senso avrebbe il compito di creare un forum in cui esperienze diverse possono essere considerate.

Dando così all’artista la possibilità di appropriarsi e manipolare l'oggetto comune.

La sfida, quindi, sarebbe quella di pensare al di là di queste limitazioni previste al fine di individuare uno spazio di incertezza nella vita quotidiana, che consente una trasformazione socio-politica.

L'incontro artistico si presenterebbe come punto di partenza praticabile per tale considerazione.

Pertanto, un tale incontro potrebbe essere un buon trampolino di lancio nel ribaltare un sistema di pensiero ormai giunto al suo quasi esaurimento.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

pescaUn tempo lavorare era considerato necessario per gli dei, o per Dio con l’avvento della religione monoteista. Con la nascita degli Stati-Nazione divenne indispensabile per la “Patria” e la comunità (in Italia, durante il ventennio fascista fu coniato lo slogan “lavoratore, ricorda che anche tu sei soldato, che il tuo lavoro è la tua trincea”).

In realtà naturalmente le strumentalizzazioni dei concetti di “Dio,”Patria”, “Comunità” nascondevano ben altri interessi assai poco nobili. Nell’attuale società considerata “libera”, (Goethe scrisse: “nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo”) il lavoro viene considerato come indispensabile addirittura per se stessi, per la propria libertà individuale e fondamentale per la crescita personale. Ma in realtà per chi e per che cosa si lavora? A questa domanda, molti risponderebbero, “per la propria sopravvivenza, per la vita, per la famiglia, per la casa” e così via. Ciò è vero, in parte, nel sistema attuale, dentro il quale per vivere (o almeno vivere decentemente) è necessario cedere al ricatto lavorativo. In altre parole, cedere la propria libertà in cambio del “benessere”(quando possibile ma non necessario),molte volte solo artificiale. Si produce e si consuma per il Sistema dominante e per la sua esistenza, si “produce” e si “consuma” per essere parte integrante di esso, un sistema basato sull’ingiustizia e sulle (false)illusioni. Lavorare per questo sistema serve appunto per il mantenimento stesso dello status quo, milioni di persone non più persone ma automi del “progresso” e della “civiltà libera” disposti a tutto per il denaro, che in questa società è sinonimo di vita e di felicità. La cultura del benessere ci ha reso insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi alla globalizzazione dell’indifferenza. E a questo proposito trova un senso lo scritto di Gramsci del 1917 quando dice : “Odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. … È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti … Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare”. Il comportamento delle persone, particolarmente nel Meridione è di totale indifferenza a ciò che succede nel sociale. Quello che più preoccupa i meridionali è la distanza della propria persona (almeno un palmo) da tutto il male, le ingiustizie, le prepotenze e gli abusi a cui vengono sottoposti gli “altri”. Chiaramente questo atteggiamento favorisce chi infligge le malefatte. I potenti e i prepotenti. Il sistema ha sempre avuto ( almeno fino a poco tempo fa) bisogno di forza-lavoro per continuare a esercitare il dominio e il controllo sulle popolazioni. Ultimamente, con l’aumentare del fenomeno del precariato e l’accentuarsi della competitività, il Sistema tenta di far innescare l’ennesima “guerra tra poveri” per accumulare ancora più potere e rendere più forte il controllo sociale e culturale. Lo Stato ha fatto propria la dottrina del plusvalore marxista e l’ha applicata in parti della giornata lavorativa. Ha reso, insieme al sistema economico, il lavoratore un autentico schiavo. E così facendo ha enormemente semplificato il quadro dei rapporti sociali. Se una persona paga il 70% di tasse questo significa che su dieci ore di lavoro sette non sono sue, sono alienate di fatto e di diritto. E sono tanto più alienate, ossia “rese altro da sé”, in quanto risultano necessarie al raggiungimento delle tre ore lavorative che gli servono per soddisfare i suoi bisogni indotti dallo stesso Sistema. Innegabilmente, lo statalismo è il più grande sistema di dominio della storia perché ha ottenuto il consenso dei dominati. Tale consenso si fonda su di un misto di credulità popolare, dottrina democratica, astrazioni filosofiche. Più che la ‘ndrangheta, in Calabria il problema sono le Amministrazioni. Parole del Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

andreaSi possono rassegnare le dimissioni da una setta politica, e, in uno Stato totalitario, ci si può rifugiare almeno nella "emigrazione interna"; ma per gli uomini di potere, in questa cittadina divenuti auto-regolanti, rassegnare le dimissioni è altrettanto impossibile quanto rassegnarle dai loro proprio io, divenuto "capitale umano".

 

La coscienza viene collegata al meccanismo onnipresente della cosiddetta opposizione , che obbliga a mentire senza sosta a loro stessi, ragionando nei termini della Neolingua arrogante e assassina: la paura sociale è auto-liberazione.

 

Cento anni fa, Rimbaud aveva già formulato, in maniera ineguagliabile, la schizo-analisi dell'uomo moderno: "io è un altro".

Non è più comprensibile né accettabile che una intera cittadinanza si nasconda dietro alle malefatte degli Amministratori. Nessuno può chiamarsi fuori perché è stato il voto cittadino che ha eletto Corrotti, Ingannatori, predoni e perfidi, non può considerarsi vittima.

 

E’, invece, complice a tutti gli effetti, “democraticamente” parlando. Vi si chiede di conformarvi ad un'obbedienza zelante e incondizionata - altrimenti costretti a restare sul bordo della strada, perdere la propria esistenza sociale, e rischiare di morire prematuramente.

E’ successo A Peppino Pallarino e la sua capanna alla Robinson Crusoè; Non macchiatevi le mani di sangue insieme a quelli che avete eletti. Il chioschetto di Andrea Ganzino è sotto gli occhi di tutti, non solo a tutti quelli che passeggiano e se ne fottono. Non c'è più bisogno di un sistema di sorveglianza burocratica per sanzionare i "perdenti". La cosa è perfettamente regolata dal lugubre potere anonimo della macchina sociale.

 

Il potere delle cieche leggi sistemiche che violano le risorse naturali e l’essere umano, si sono oramai emancipate da qualsiasi volontà sociale - e dunque anche da quella della soggettività della gestione. Il Paese che mi ha dato i natali si è trasformato
in un deserto senza compassione, senza coscienza, senza vita. In questa realtà automatizzata, ogni pensiero critico che si interroga sul senso e sul fine di questa folle situazione viene immediatamente soffocato dal belato assordante delle pecore votanti.

 

Non è il cambiamento sociologico del potere e dei suoi detentori a rappresentare l'emancipazione, ma il superamento della forma sociale, quindi di questo sistema moderno cui partecipano tutte le classi sociali.

Vi si trova anche un pizzico dell'idea che il "lavoro" non sia un principio ontologico, e soprattutto non sia un principio emancipatore ma, al contrario, il principio del potere repressivo che sottomette gli animali domestici a questo fine in sé irrazionale di "produrre per produrre", simbolizzato dalla figura del cavallo da tiro abbrutito, Gondrano, nella “Fattoria degli Animali” di una sorta di Stakhanov che vuole risolvere tutti i problemi con il motto: "Lavorerò ancora di più e più duramente!" - per essere alla fine venduto al macellaio da Napoleone quando, esausto, non potrà più lavorare. La situazione di Amantea e degli Amanteani mi ha riportato alla mente Eric Arthur Blair. Ai più, forse, questo nome non dirà niente di che, ma senz’altro conoscete tutti (vero?!) lo pseudonimo con cui è passato alla Storia: George Orwell.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Pubblicato in Politica

mmLa commedia della vita è difficile e contorta. Qualcuno che ogni mattina si alza con un piano e una psiche totalmente diversi risulta talmente mutevole da poter adattarsi a qualsiasi tipo di racconto, in qualsiasi epoca. In questo modo si può passare da bugiardo a buffone maligno. Attualmente, occupa una posizione che equivale più o meno al braccio destro di satanasso. Però anche questo può cambiare.

Trama complessa, da commedia degli equivoci depurata della sua macchinosità, sottoposta a limatura, fino a farne uno studio di comportamenti, una riflessione leggera sulla passione amorosa.
Il fottuto dualismo tra ragione e sentimento tipico dell’essere umano. Un classico, come il ‘dispetto d’amore’, del retaggio passivo di una tradizione, della immane fatica dell’umano che cerca un ordine ideale in cui collocare presente e passato, in una tensione senza tempo pur consapevole della propria contemporaneità, del proprio essere. I flirts, i malintesi subito dopo dissipati, i dispetti bonari e quei rimproveri “affettuosi, le tenere furtività, la passione; tutte le traversie immaginate sull’amore, per poi regalarsi la gioia di allontanarle. Tutto questo vortice non riusciva a mascherare la Sua raffinata sensibilità. Faceva anche bella mostra di una vanità sublime e candida. Quando si pensava che volesse punire nel far mangiare pane raffermo, ecco che arrivava con la marmellata. "Sei sempre il solito"; "Mi hai deluso". Sono solo alcuni "attestati di stima". Ipercritica sul modo di essere e agire dell’altro e che, permettendolo, avrebbero potuto influenzare negativamente la di lui esistenza.
Un Paradiso. Un luogo dove potersi svegliare al mattino in uno stupore di gioia, ammirato dalla folle fortuna di essersi innamorato di una donna nel paese più bello del mondo. Senza diritti perché appagato dall’amore, senza doveri dato che dava tutto se stesso all’ amore. Macché; non si trattava di arrampicarsi sugli specchi sacri: ci stava già e si rifiutava di scendere. Voleva vivere in pieno etere fra gli aerei. Poi, ben lontano dall’attaccarsi alle mongolfiere, impegnava tutto il suo zelo nel colare a fondo, suolandosi le scarpe di piombo. Con qualche briciola di fortuna gli è anche accaduto, a volte di sfiorare, su sabbie nude, delle specie sottomarine sconosciute. Molte altre volte, nulla da fare: una irresistibile leggerezza lo tratteneva in superficie. Avendo l’altimetro non funzionante propriamente, si ritrovava ad essere a volte giocoliere, a volte sommozzatore, spesso le due cose insieme. Si ritrovò ad abitare in aria per abitudine e a rovistare il fondo senza alcuna speranza. Sommamente repellenti sono le sue fragili e inutili nozioni di ordine e sanità mentale.

“La morte non conta un cazzo quando ti serve un posto per dormire.” Charles Bukowski

Gigino A Pellegrini

Pubblicato in Comunicati

gigginoAppartenere alla propria terra significa avere memoria del proprio essere, della propria vita e della propria storia. La storia vissuta di ciascuno di noi si misura con il senso profondo dell'attaccamento alle proprie radici che traggono la linfa vitale dai luoghi che ci hanno visto nascere e crescere.  “Costruire” la propria esistenza serve a stendere un ponte di collegamento con il passato ed il futuro attraversando il presente ed in questo altalenante  ma affascinante viaggio, ognuno di noi ha, come compagni di viaggio, i luoghi e le persone che hanno contribuito a formare la nostra storia personale. Memoria che è fatta anche dal dialetto utilizzato fin dalla prima  infanzia.  Viviamo nell'era dell'informatica, con l'assunzione nel vocabolario italiano e sulla quotidianità dei giornali di moltissime parole straniere. E' vero che ciò è segno di progresso, di miglioramento, di universalità ma è altrettanto vero che non dobbiamo consegnare al dimenticatoio quello che è stato il nostro trascorso: sarebbe una grave offesa all'intelletto e alla memoria di quelli che ci hanno preceduto. In questo contesto, rinunciare al dialetto significherebbe  ripudiare secoli di cultura locale, di tradizioni, di sagge locuzioni trasmesse dagli antenati. Significherebbe perdere un inestimabile patrimonio di metafore, similitudini, modi di dire, frutto della fantasia popolare che quando crea le sue immagini, pittoresche e folgoranti, lo fa in dialetto. In una terra come la nostra dove l’incultura dell’illegalità ha radici ambigue e profonde è necessario inventarsi qualcosa che rappresenti, per molti giovani, una via di uscita da un futuro fatto di sopraffazione e violenza in un quadro di desolazione che rischia di chiudere le porte a quell’ultima dea a cui spesso ci si rivolge, sbagliando, in condizioni di disagio. E’ triste constatare quanto poco stia a cuore ai governanti il futuro dei nostri giovani e della nostra terra! Quanti di questi se la sentiranno di rimanere in Calabria e quanti genitori avvertiranno il bisogno di trasmettere loro il senso di attaccamento alle radici e la volontà di lottare per il proprio riscatto?  Ogni cosa nasce da una passione, nasce dove la si cerca… . L'amore per il proprio paese, per la propria terra,è lo stesso sentimento, lo stesso sapore. Questo amore è fatto dai ricordi, dalle amarezze, da sudori e fatiche, ma anche dalla gioia, dal  desiderio di dare una parte di sé, alla propria terra! Di questa Terra e del suo  ambiente ne abbiamo fatto un uso maldestro, spesso dimenticata, stuprata, avvelenata, sottomessa ai più meschini interessi. Oggi più che mai dobbiamo cercare di salvare ciò che resta di quel "buono", garantendo così un futuro alle generazioni che verranno.  Senza tutela e diffusione  tutto si perde. Bisogna dunque ricordare per rinnovare, sensibilizzare le nuove generazioni ad una maggiore consapevolezza di se, la memoria è un occasione di crescita, esperienza e conoscenza.  Il futuro riparte dal passato! Siamo quello che lasciamo, e così rammentando frammenti di vita dei nostri nonni che coltivavano,pescavano e rispettavano la natura e dalla terra attingevano forza e sicurezza ecco che riemergono forti emozioni. Bisogna amare la propria terra, anche nel sacrificio e nella fatica come hanno fatto i nostri avi, radici dell'umanità. Da tutto questo proviene quello che viene comunemente definito senso di appartenenza.  Questo è certamente  un sentimento di fondamentale importanza nella nostra vita quotidiana, un legame che si instaura tra individui coscienti di avere in comune una medesima matrice culturale, intellettuale, sociale, professionale, religiosa. Tuttavia è anche vero che un senso di appartenenza troppo marcato può comportare effetti deleteri. In questi casi l’organismo si chiude in se stesso separandosi dal suo naturale contesto; finisce col prendere piede una logica di divisione di tipo “dentro/fuori” per la quale gli estranei vengono visti come diversi. È appena il caso di rilevare che questa è la stessa logica che ispira i settarismi, i fondamentalismi, i nazionalismi; in questi casi, evidentemente patologici, la rivendicazione identitaria è talmente esasperata che gli estranei da diversi finiscono col diventare nemici. Il singolo, inoltre, rischia di vedere compromessa la propria individualità. Come dovrebbe dunque esser  vissuto un senso di appartenenza che, per quanto intenso e gratificante, sappia tenersi lontano da questi eccessi? Come si può appartenere ad una società civile senza esserne assorbiti, senza rinchiudere in essa i propri orizzonti intellettuali ed emotivi? Come soddisfare la propria curiosità in una parte della nazione ignorata dai governi centrali che in tutti questi anni ha costretto i giovani a recarsi lontano dalla propria terra per saziare la famelicità della sua curiosità? Collocarsi in una posizione di frontiera, di bordo - con i piedi dentro e con la testa fuori, se così si può dire – potrebbe costituire un sistema efficace: sufficientemente dentro, così da contribuire e attingere a un comune sentire, ma anche sufficientemente fuori, così da esercitare liberamente il proprio giudizio critico. Ci si troverebbe in una posizione un po’ decentrata, eccentrica, così da resistere ai richiami centripeti e non cedere a tentazioni centrifughe. Credo che questa sia la sola collocazione che consenta di non lasciarsi condizionare eccessivamente dal luogo di appartenenza: rimanere terzi rispetto ad esso quel tanto che basta per conservare la propria indipendenza di azione e di pensiero, per mantenere integra la propria obiettività di giudizio. Conseguentemente, il senso di appartenenza che deriva da questa collocazione marginale non è mai totalizzante, senza se e senza ma; al contrario, è sempre parziale, limitato. Si appartiene, certo, ma solo fino a un certo punto. È  vero, questo modo di appartenere potrebbe risultare intellettualmente complicato, pesante, molto impegnativo  da sostenere e da difendere: chi decide in tal senso corre il rischio di essere considerato come uno che ha l’arroganza di preferire la propria opinione a quella dei più, che col proprio comportamento mette a rischio l’unità del gruppo, che rifiuta l’ortodossia dell’appartenenza  stessa della quale fa parte; una posizione complessa, quindi, anche dal punto di vista emotivo poiché non risparmia sensi di colpa e conflitti interiori. Tuttavia, per quanto scomoda, questa collocazione sia anche l’unica che possa essere di una qualche utilità per se stessi e in fin dei conti anche per gli altri. È l’eresia, non certo l’ortodossia, il vero motore del rinnovamento; eretico è colui che ha il coraggio di scegliere e utilizza ciò che sceglie per aprire nuove strade, per esplorare nuovi territori. Per rinnovarsi e rinnovare bisogna essere eretici. Per essere eretici bisogna essere liberi. E per essere liberi bisogna restare ai margini della comunità di appartenenza.

Gigino adriano Pellegrini & G el Tarik

gigginoRiceviamo e pubblichiamo.

Negli anni Settanta,  durante la mia permanenza in Nord America, andava molto di moda per gli intellettuali ricchi e affermati, ospitare nei propri salotti ogni possibile rivoluzionario radicale, dalle Pantere Nere agli antimilitaristi, agli hippies.  Uno scrittore, Tom Wolfe con il suo  libro“Radical Chic” sollevò un gran putiferio con un attacco corrosivo e divertentissimo alla società benestante e progressista della Upper Manhattan. Nacque così  il Radical Chic, “RC” termine poi entrato nell’uso comune per identificare un occidentale preferibilmente bianco e benestante, con idee liberali e di “sinistra”, che subisce il fascino di rivoluzionari radicali ammantati di romanticismo; che li invita nel suo salotto ad una serata mondana per conoscere i problemi della strada e per raccogliere fondi rigorosamente “non deducibili fiscalmente”; che poi, davanti all’insorgere delle polemiche, li scarica per tornare alla più innocua lotta per la difesa dei diritti degli animali, in particolare quelli domestici. Questa figura di uomo,quasi inutile dirlo, è ancor oggi attualissimo. Al “Radical Chic” si ispira il nostrano cattolico di buona famiglia e Boy Scout: il   “Protettore di Animali Domestici”, in breve,  il “PAD”. Cachemire e mocassino, barca a vela, appena possibile, e casa alle Eolie – Stromboli sì, Panarea no, Filicudi sarebbe il top solo che non c'è nessuno – qualche libro di filosofia e storia, teatri e concerti. Questo borghesuccio di casa nostra , probabilmente, sarà il più duro a morire. Sarà per quella egemonia culturale della sinistra. Sarà perché si sposa perfettamente con quella teoria secondo cui il vero ricco è colui che non ostenta, il contrario fa cafone. E la razza, lamentano i puristi d'un tempo, imbastardita. Ma sta di fatto che niente, oggi in Italia, fa più figo del PAD.  Questo Radical Chic di Chiesa Nostra, ci mette ore a sembrare trasandato. Lo incontri al bar a metà mattinata, ma non perché si sia svegliato tardi, è che doveva capire cosa mettersi per sembrare uno che si butta addosso la prima cosa che trova nell'armadio. Predilige i jeans, classici per gli uomini,  non” skiny” perché sono poco femministi.  Le camicie o le polo con sopra giacche fantasiose a quadri in puro stile “old british” e toppe ai gomiti o in alternativa maglioncini di cachemire dai colori pastello. D'inverno il PAD azzarda pure il pantalone di velluto a costine perché è convinto che mettersi addosso un tappeto peloso gli dia un certo fascino. La PAD, a volte al jeans sostituisce un pantalone da cavallerizza perché così può sempre raccontare con gli occhi che le brillano di come è bello sporcarsi di fango durante le cavalcate al maneggio esclusivo. Adora gli anglicismi: la versione italiana non rende.  Eventualmente, ama piazzare qui e lì parole come “outsourcing” , “trend” e francesi che fanno tanto très jolie!  Odia le abbreviazioni da chat, e infatti usare i social network è per lui la prova più dura.  Il PAD  non è un semplice esponente della diffusa categoria di persone che possono agevolmente essere raggruppate sotto la definizione di “fighetti”. Rappresenta invece un’ulteriore deviata involuzione della specie, una rischiosa estremizzazione dello stesso concetto. La differenza è principalmente di matrice politica. Il fighetto è tendenzialmente danaroso, con generoso “Dad”  dal portafogli rigonfio; non ha una vera e propria coscienza politica. Non ha né la cultura né l’intelligenza necessarie per averla e, fondamentalmente, non gliene frega un tubo della politica, della società, del governo ecc. ecc.. Ha intuìto che in ogni modo per lui non cambierà nulla. Destra o sinistra non sono un problema che lo riguarda. Al contrario, il PAD nostrano, circa 15 anni fa  ha scoperto il consumo consapevole di tutte le risorse del pianeta. Per cui significa che ora mangia solo biologico certificato, succhi freschi, niente conservanti, ama il mercatino biologico della domenica e ci va puntualmente con la sua bicicletta vintage con cestello coordinato con cui va in giro per la città, perché la macchina ormai non si può più prendere, inquina, e poi vuoi mettere quanto costa e quanto ti fa bene pedalare? All’occorrenza e lontano da occhi indiscreti, il Protettore di Animali Domestici si infila in un taxi e via. Distrattamente, guarda  qualche talk show – tipo Ballarò o  Servizio Pubblico – il tg di Mentana e qualche “Serial”, anche se ultimamente si sta appassionando ai  “Reality”.  Al cinema ci va durante la settimana, mai nel week-end, per vedere qualche film straniero e anche  italiano che considera di “livello adeguato” e che ha  le radici nel neorealismo e nella Nouvelle Vague. Sorrentino è il regista. “The best!”  Il PAD fa jogging  e sogna la maratona, non quella di New York ma quella più “upper class”di Boston. La PAD, lei fa pilates perché fa bene alla schiena. Poi c'è il cane da portare a spasso con il giornale sotto il braccio, Repubblica resiste, ma Il Fatto Quotidiano sta prendendo quota.  Impegnato con l'incapacità di trovarsi una “casa” politica nel marasma attuale, non dimentica mai il vernissage pomeridiano.  Il PAD  lo vedi poco al ristorante, preferisce le cene in casa di amici dove si può sparlare liberamente delle corna dell'assente di turno, non lo incontri mai a fare shopping. D'estate rifugge la calca sulle spiagge , troppo variegata e piena di “burini illetterati”. Preferisce ritirarsi sulle Dolomiti, che aver freddo, ad agosto, è così “fascinating”. Lo stile è tutto nella scelta dei dettagli. Vive nel suo mondo e pensa qualunquista. Fa il progressista ma vota per Forza Italia  perché sa di fare piacere a papà, che gli ha insegnato che i comunisti sono quei disperati che vorrebbero fargli pagare il doppio delle tasse sulle loro seconde e terze case. La cosa che più identifica il PAD è la sua indubbia convinzione di essere  molto colto e intelligente. Lui pensa di essere uno di quelli che sanno riconoscere ed apprezzare le cose “giuste”. E’ uno attento al suo “lifestyle”, uno che tendenzialmente non esagera, un equilibrato.  E’ fissato con il suo look, si veste un po’ male ma senza trascendere, e talvolta, nelle sue varianti deteriori, indossa pure abiti griffati e costosi, Perché lui è “cool”, e soprattutto non è mai uno banale, almeno questo è ciò che continua a ripetergli “mamàn”. Non lo vedrete mai andare in giro vestito ordinario. Lascia intendere di non guardare troppo alle mode ma in realtà è schiavo delle tendenze, e aderisce supinamente al suo stereotipo. E’ assolutamente convinto di essere un soggetto non influenzabile ed un pensatore, o se non altro uno con pensieri e idee originali. Vorrebbe essere creativo. Gode nel fare credere ai “suoi” sempliciotti sottoposto di essere uno che sa e fa un sacco di cose straordinarie. Magari si porta appresso libri di poeti spagnoli e sudamericani (mai che legga a casa sua, se no non si vede…) ma non riesce a collocarti Leopardi o Pavese, che per lui possono pure essere del Seicento, almeno nei casi più gravi. Aderisce e sposa con (finto) entusiasmo ogni iniziativa di area no-global; talvolta è vegetariano, tendenzialmente disobbediente.  Esce la sera e frequenta locali dove servono 100 tipi di thé dello Sri Lanka ma non hanno un panino col salame. Nei locali frequentati da lui, a volte vengono eseguite letture che spesso non comprende. Si fuma le cannette con gli amici (qualcuna l’azzecca…), in certi casi indossa borsette etniche e perde tempo recandosi a dibattiti e presentazioni di libri. Se può evita quelli diversi da lui, non vuole mai sfigurare quando va per la strada; i suoi amici sono, o “bella gente” o “tipi strani”, comunque in gamba. Mai lo vedrete in giro con i suoi “protetti”che magari fanno i meccanici, o gli impiegati al catasto che,  se hanno freddo commettono l’ingenuità di mettersi il maglioncino e la giacca a vento qualsiasi. Lui no, il PAD se ha un “amico” sfigato, è perché questo è tanto sfigato da essere “trendy” una specie da proteggere.  Tendenzialmente si tratta di un finto anticonformista, o di un anticonformista a tutti i costi, uno di quelli che deve ostentare la propria cultura (palesemente contro-corrente) anche quando non espressamente richiesto. L'obiettivo è dimostrare di non appartenere ad un gruppo socio-culturale specifico, ma rendere chiaro a tutti la propria diversità e il gusto in fatto di letture, cibi, cinema, musica. Il PAD, piccolo borghese e snob proveniente dalla classe media, che, al fine di seguire la moda del momento, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee anticonformistiche e tendenze politiche affini alla sinistra radicale, generalmente avulse o diametralmente opposte ai valori culturali e sociali del ceto di appartenenza.

Gigino Adriano Pellegrini & G el Tarik.

Fine Agosto 2014

Pubblicato in Primo Piano
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