Appartenere alla propria terra significa avere memoria del proprio essere, della propria vita e della propria storia. La storia vissuta di ciascuno di noi si misura con il senso profondo dell'attaccamento alle proprie radici che traggono la linfa vitale dai luoghi che ci hanno visto nascere e crescere. “Costruire” la propria esistenza serve a stendere un ponte di collegamento con il passato ed il futuro attraversando il presente ed in questo altalenante ma affascinante viaggio, ognuno di noi ha, come compagni di viaggio, i luoghi e le persone che hanno contribuito a formare la nostra storia personale. Memoria che è fatta anche dal dialetto utilizzato fin dalla prima infanzia. Viviamo nell'era dell'informatica, con l'assunzione nel vocabolario italiano e sulla quotidianità dei giornali di moltissime parole straniere. E' vero che ciò è segno di progresso, di miglioramento, di universalità ma è altrettanto vero che non dobbiamo consegnare al dimenticatoio quello che è stato il nostro trascorso: sarebbe una grave offesa all'intelletto e alla memoria di quelli che ci hanno preceduto. In questo contesto, rinunciare al dialetto significherebbe ripudiare secoli di cultura locale, di tradizioni, di sagge locuzioni trasmesse dagli antenati. Significherebbe perdere un inestimabile patrimonio di metafore, similitudini, modi di dire, frutto della fantasia popolare che quando crea le sue immagini, pittoresche e folgoranti, lo fa in dialetto. In una terra come la nostra dove l’incultura dell’illegalità ha radici ambigue e profonde è necessario inventarsi qualcosa che rappresenti, per molti giovani, una via di uscita da un futuro fatto di sopraffazione e violenza in un quadro di desolazione che rischia di chiudere le porte a quell’ultima dea a cui spesso ci si rivolge, sbagliando, in condizioni di disagio. E’ triste constatare quanto poco stia a cuore ai governanti il futuro dei nostri giovani e della nostra terra! Quanti di questi se la sentiranno di rimanere in Calabria e quanti genitori avvertiranno il bisogno di trasmettere loro il senso di attaccamento alle radici e la volontà di lottare per il proprio riscatto? Ogni cosa nasce da una passione, nasce dove la si cerca… . L'amore per il proprio paese, per la propria terra,è lo stesso sentimento, lo stesso sapore. Questo amore è fatto dai ricordi, dalle amarezze, da sudori e fatiche, ma anche dalla gioia, dal desiderio di dare una parte di sé, alla propria terra! Di questa Terra e del suo ambiente ne abbiamo fatto un uso maldestro, spesso dimenticata, stuprata, avvelenata, sottomessa ai più meschini interessi. Oggi più che mai dobbiamo cercare di salvare ciò che resta di quel "buono", garantendo così un futuro alle generazioni che verranno. Senza tutela e diffusione tutto si perde. Bisogna dunque ricordare per rinnovare, sensibilizzare le nuove generazioni ad una maggiore consapevolezza di se, la memoria è un occasione di crescita, esperienza e conoscenza. Il futuro riparte dal passato! Siamo quello che lasciamo, e così rammentando frammenti di vita dei nostri nonni che coltivavano,pescavano e rispettavano la natura e dalla terra attingevano forza e sicurezza ecco che riemergono forti emozioni. Bisogna amare la propria terra, anche nel sacrificio e nella fatica come hanno fatto i nostri avi, radici dell'umanità. Da tutto questo proviene quello che viene comunemente definito senso di appartenenza. Questo è certamente un sentimento di fondamentale importanza nella nostra vita quotidiana, un legame che si instaura tra individui coscienti di avere in comune una medesima matrice culturale, intellettuale, sociale, professionale, religiosa. Tuttavia è anche vero che un senso di appartenenza troppo marcato può comportare effetti deleteri. In questi casi l’organismo si chiude in se stesso separandosi dal suo naturale contesto; finisce col prendere piede una logica di divisione di tipo “dentro/fuori” per la quale gli estranei vengono visti come diversi. È appena il caso di rilevare che questa è la stessa logica che ispira i settarismi, i fondamentalismi, i nazionalismi; in questi casi, evidentemente patologici, la rivendicazione identitaria è talmente esasperata che gli estranei da diversi finiscono col diventare nemici. Il singolo, inoltre, rischia di vedere compromessa la propria individualità. Come dovrebbe dunque esser vissuto un senso di appartenenza che, per quanto intenso e gratificante, sappia tenersi lontano da questi eccessi? Come si può appartenere ad una società civile senza esserne assorbiti, senza rinchiudere in essa i propri orizzonti intellettuali ed emotivi? Come soddisfare la propria curiosità in una parte della nazione ignorata dai governi centrali che in tutti questi anni ha costretto i giovani a recarsi lontano dalla propria terra per saziare la famelicità della sua curiosità? Collocarsi in una posizione di frontiera, di bordo - con i piedi dentro e con la testa fuori, se così si può dire – potrebbe costituire un sistema efficace: sufficientemente dentro, così da contribuire e attingere a un comune sentire, ma anche sufficientemente fuori, così da esercitare liberamente il proprio giudizio critico. Ci si troverebbe in una posizione un po’ decentrata, eccentrica, così da resistere ai richiami centripeti e non cedere a tentazioni centrifughe. Credo che questa sia la sola collocazione che consenta di non lasciarsi condizionare eccessivamente dal luogo di appartenenza: rimanere terzi rispetto ad esso quel tanto che basta per conservare la propria indipendenza di azione e di pensiero, per mantenere integra la propria obiettività di giudizio. Conseguentemente, il senso di appartenenza che deriva da questa collocazione marginale non è mai totalizzante, senza se e senza ma; al contrario, è sempre parziale, limitato. Si appartiene, certo, ma solo fino a un certo punto. È vero, questo modo di appartenere potrebbe risultare intellettualmente complicato, pesante, molto impegnativo da sostenere e da difendere: chi decide in tal senso corre il rischio di essere considerato come uno che ha l’arroganza di preferire la propria opinione a quella dei più, che col proprio comportamento mette a rischio l’unità del gruppo, che rifiuta l’ortodossia dell’appartenenza stessa della quale fa parte; una posizione complessa, quindi, anche dal punto di vista emotivo poiché non risparmia sensi di colpa e conflitti interiori. Tuttavia, per quanto scomoda, questa collocazione sia anche l’unica che possa essere di una qualche utilità per se stessi e in fin dei conti anche per gli altri. È l’eresia, non certo l’ortodossia, il vero motore del rinnovamento; eretico è colui che ha il coraggio di scegliere e utilizza ciò che sceglie per aprire nuove strade, per esplorare nuovi territori. Per rinnovarsi e rinnovare bisogna essere eretici. Per essere eretici bisogna essere liberi. E per essere liberi bisogna restare ai margini della comunità di appartenenza.
Gigino adriano Pellegrini & G el Tarik