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Nel romanzo del 1895 La macchina del tempo, di H.G. Wells, il protagonista, dopo aver inventato una macchina che avrebbe attra versato il tem po, decide di partire e si trova ad esplorare un mondo del remoto futuro post-atomico, apparentemente un eden lussureggiante e tranquillizzante.

 

Incontra un gruppo di ragazzi e ragazze, giovani, biondi e di bell'aspetto, che si disinteressano di tutto, incolti, senza una organizzazione sociale, senza aspirazioni e che si limitano a vivere nell'ozio consumando il cibo e i beni che trovano inspiegabilmente preparati per loro in una antica rovina della precedente civiltà, che hanno irrimediabilmente dimenticato assieme a tutta la cultura e la scienza del loro passato.

Incontra anche un cane che, come tale, abbaia senza motivo quando fiuta o sente un “pericolo” (ad esempio, il tossire di qualcuno). Quanto ad olfatto e udito, gli amici a quattro zampe sono imbattibili, ma esagerano spesso nella stima delle minacce.

 

Non riescono a distinguere una potenziale minaccia da una vera come quella alla quale si trova l’umanità in questa confusa fase storica.

I presupposti di un’incombente catastrofe non arrivano da Rin Tin Tin o da Lassie, ma da scienza e tecnologia.È un momento critico, e l’uomo è consapevole di cosa sta succedendo. Il sistema di potere avrebbe la conoscenza e la scienza per capire a cosa porterà continuare su questa strada e dunque, rimediare. Ripercorrendo distrattamente la storia umana, si scopre che la disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e accompagna l’umanità sin da quando ha costruito delle città.

 

Oggi la disuguaglianza è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare e capire profondamente il periodo attuale.

Ci sono delle notevoli rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie imponente e diversificata di “espulsioni” sociali, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene volutamente documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, e dunque non viene narrata come una dinamica omnicomprensiva che sta conducendo l’umanità in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale. Quella delle “espulsioni” va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata.

 

Nel sistema del potere attuale e di quello del prossimo futuro le espulsioni attraverseranno domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Vi saranno e vi sono già diversi modi di “espulsioni” che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari.

dTra gli esempi dei processi di espulsione, vanno ricordati il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slums e i massicci esodi di disperati che fuggono, da un lato all’altro, dalle guerre e dai massacri, in una specie di recintodove normalmente si addestrano i cavalli selvaggi. L’aspetto predatorio che distingueva le classi dominanti si stanno via via trasformando applicando inizialmente l’esclusione tesa all’eliminazioni delle classi che una volta servivano a garantire il dominio e il benessere dei dominanti.

 

Sono classi che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi appare come un contratto legittimo.

Ci sono le banche centrali che forniscono ciò che racimolano. Negli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione. L’angosciosa condizione dell’uomo moderno ridotto a uno spaventapasseri impagliato, privo di ombra, di colore, di movimento e di parola. Dalla sua bocca escono solo suoni senza senso che stridono come il vento tra le erbe secche o la zampa di un topo su vetri infranti. Agli uomini vuoti che si aggirano in un mondo vuoto si contrappongono coloro che hanno varcato il fiume che separa la vita dalla morte. Essi hanno compiuto il viaggio definitivo e sono ormai staccati dal grigiore della vita, il cui ricordo li sfiora appena.

 

Eppure se un’immagine della realtà terrena affiora nella loro mente è quella di un mondo di fantasmi, di uomini vuoti impagliati.

 

Edmonton nov. 22 2015 Gigino Adriano Pellegrini & G el Tarik

THE HOLLOW MEN

“We are the hollow men
    We are the stuffed men
    Leaning together
    Headpiece filled with straw. Alas!
    Our dried voices, when
    We whisper together
    Are quiet and meaningless
    As wind in dry grass
    Or rats' feet over broken glass
    In our dry cellar.”

T. S. Elliot

Pubblicato in Mondo

Un vecchio sciamano, pellerossa della tribu' degli Stoney nel sud deserti ficato dell'Alber ta, le “Bad Lands” , era un guaritore che usava la Rosa di Jericho per curare.

 

Un giorno il vecchio saggio venne chiamato dalla figlia di una donna che lamentava forti dolori addominali. Lasciato il suo teepee, raggiunse la donna ammalata. Dopo averla osservata per qualche minuto, inizio' a recitare le sue preghiere e, davanti agli occhi increduli della giovane figlia dell'inferma, poggio' il piccolo bulbo secco di una rosa di Jericho sullo stomaco della donna.

Con le mani fece cadere qualche goccia d'acqua sulla pianta, che come per magia si apri' trasformandosi come se fosse una piccola felce.

 

Quasi simultaneamente il dolore scomparve, mentre la pianta si apriva al contatto con l'acqua. La giovane figlia stupita, chiese allo sciamano spiegazioni. Il vecchio indiano, senza scomporsi piu' di tanto, le spiego' che quella pianta viene spazzata dai venti come piccola sterpaglia, sradicandosi da sola quando l'acqua e' troppo scarsa diventando nomade come la tribu' a cui appartenevano.

I canadesi, per non dire tutti i nordamericani, a differenza degli Europei sono abituati a cambiare molto spesso località, a spostarsi in luoghi diversi soprattutto per trovare nuovi lavori, perchè i posti di lavoro in Canada non sono "a vita" come in Italia. Questo e' uno dei motivi per cui le case, si fa per dire, sono costruite con materiali poco costosi, ed in modo che si possano costruire velocemente, come pure gli arredamenti che non sono sofisticati come in Europa.

Così dovendo cambiare città, la casa sarà più facilmente vendibile oppure potrà essere demolita, se non addirittura spostata in altro luogo. Il fratello di Vanessa ha chiamato qualche giorno fa da Slave Lake, un paese a circa 250 km da Edmonton,per dire che la settimana prossima si trasferisce.

Ha trovato un lavoro migliore e lo ha preso al volo. Lascerà quello vecchio venerdi e comincera' quello nuovo lunedì prossimo in Winnipeg nella provincia del Manitoba a circa 1300 km di distanza. In un'altra citta', in un'altra Provincia, cosi' su due piedi, ma non e' una cosa cosi' rara per i nordamericani trasferirsi da un momento all'altro, l'ho gia' visto succedere diverse volte quando vivevo qui. Fa impressione questa cosa, oltre che tristezza.Ieri sono andato a salutare il fratello di Vanessa e ad aiutarlo con il trasloco.

E' incredibile quanti oggetti inutili possa conservare un uomo solo in tutta una vita. A differenza di altri, non e' capace di buttare nulla o per meglio dire, non ha mai avuto nessuna intenzione di farlo. E' come se vivesse meta' qui e meta' la', in un passato non lontano. Ascolta ancora gli lp in vinile collezionati da ragazzo. Wayne, cosi' si chiama, e' un meticcio della tribu' degli Algoquin, una popolazione indiana nomade che, come quasi tutti gli indiani d'America viveva in tende fatte di pelli nei climi più miti e in quelli più rigidi facevano ricorso a vari tipi di riparo, tra cui capanne costruite con blocchi di ghiaccio o di terra e rifugi interrati.

Dove abbondava il legname venivano costruite case di legno, altrove si utilizzava la paglia per coprire semplici capanne. Abitazioni caratteristiche sono il Tepee degli indiani delle praterie, il chikee dei seminole della Florida, gli hogan dei navajo. Apparentemente semplici, queste strutture erano il frutto di sapienti tecnologie.

Inoltre, per i Cherokees, ad esempio, il rosso era il colore del successo e del trionfo, il blu quello della sconfitta e del dolore, il nero rappresentava la morte e il bianco la pace e la felicità.Questo per sottolineare quanto fossero diverse le tribù e del tutto indipendenti tra loro.

Erano popoli liberi che rispettavano la natura e gli altri, amavano anche la loro indipendenza. Le varie razze erano nemiche tra loro e di questa debolezza approfittarono gli invasori occidentali, servendosi degli uni contro gli altri. All’interno delle tribù le guerre erano senza spargimento di sangue. Per sfogare le energie i giovani guerrieri si sfidavano e combattevano tra loro con il “tomahawak” l’ascia da guerra di pietra aguzza legata ad un manico. Il seppellimento o il dissotterramento del Tomahawak segnava la pace o la guerra con i vicini.
Nella lotta contro i “visi pallidi” divenne una micidiale arma letale. Oggi, che tutto questo non esiste piu', nelle riserve vive il 35% della popolazione indiana.

E’ quella parte di “Popolo Rosso” che non si è integrato nell'attuale vita nordamericana. Le riserve indiane commerciano la loro “merchandise”, prodotti artigianali. Scrittori nativi vendono i propri libri ispirati alla più affascinante civiltà del mondo. Ad agenzie di turismo che organizzano soggiorni e viaggi di studio in cui i Pellerossa, portano gli ospiti a visitare i luoghi sacri, una volta rigorosamente vietati ai “visi pallidi”.

Lasciano assistere alle loro feste tradizionali con canti e balli. Fino a poco tempo fa una persona poteva rifugiarsi nelle riserve e farsi adottare da una tribù; oggi queste persone non sono più accettate perché l’iniziazione è stata abrogata e si ottiene soltanto con il matrimonio. Il canadese medio sembra avere ereditato la parte del nomadismo dei nativi e cambia continuamente abitazione, addirittura spostandosi solo di un piano nello stesso stabile. Altri, e non sono pochi, vivono la loro vita in mobile homes, spostandosi facilmente da da un oceano all'altro e trasferendo, a volte, la propria abitazione, portandosela sul groppone come le lumache . Un continuo viaggio lungo una vita intera. Una componente importante quanto negativa del nomadismo canadese e' la perdita dei “contatti” con gli altri e la possibilita' di perdere di vista anche gli amici. Enrico Potestio, immigrato a Edmonton nel lontano 1963, per oltre 20 anni ha coltivato una bella amicizia con un ispettore del gruppo investigativo della polizia della citta'. Una volta andato in pensione, Kenneth, il detective e' scomparso dalla vita di Enrico. Il canadese errante è una persona dalle molteplici identità, imprevedibile, che non si rinchiude nel territorio individuale trasformandolo in una prigione felice. Al contrario si mette in cammino alla ricerca di un qualcosa....non piu' i bisonti. Forse va alla ricerca dell’altrove trasportando con sé i sogni , poiché solo attraverso il viaggio, egli può dire di esistere, e solo riflettendo sul comportamento degli altri esseri umani,e del “nuovo” può comprendere se stesso.

Edmonton nov 8 2015                       Gigino A Pellegrini & G el tarik

Pubblicato in Calabria

In un mondo in cui il 90% della ricchezza è nelle mani dell’1% dei suoi abitanti, il problema dell’espan sione delle aree urbaniz zate non è separabile da quello della distribuzione del benessere economico.

 

Tale disuguaglianza, com’è noto, è all’origine dei fenomeni migratori dalle aree povere del mondo verso quelle ricche. Un ruolo determinante l’ha avuto l’urbanistica alla quale si possono attribuire precise responsabilità nell’aggravarsi delle diseguaglianze fra i popoli del pianeta. In particolare, da sempre la città è stata strumento di distinzione ed emarginazione nello sviluppo urbano; di conseguenza il divario tra ricchi e poveri continua a essere un drammatico simbolo delle diseguaglianze sociali in differenti parti del mondo.

In genere, una città è composta da aree residenziali, zone industriali e commerciali e settori amministrativi che possono anche interessare una più ampia area geografica. La maggior parte dell'area di una città è occupata dal tessuto urbano (case, vie, strade); laghi, fiumi ed aree verdi sempre più spesso disattese . Una città è un insediamento umano esteso e stabile, un'area urbana che si differenzia da un paese o un villaggio per dimensione, densità di popolazione, importanza o status legale.

 

Il termine italiano città deriva dall'analogo latino civitas, e deriva dalla stessa etimologia di civiltà . Una definizione sintetica di città potrebbe essere: concentrazione di popolazione e funzioni, dotata di strutture stabili e di un territorio.

Tale definizione dovrebbe avere il vantaggio di una maggiore duttilità. La rapida urbanizzazione degli ultimi decenni nelle più importanti città del mondo ha fatto emergere una serie di problematiche. Dove la mobilità è maggiore e dove di conseguenza i controlli primari vengono meno del tutto -come nella zona di deterioramento della città moderna si sviluppano aree di corruzione, di promiscuità e di violenza. Segregata nel proprio quartiere da cui non riesce ad allontanarsi per il reddito basso e precario, inchiodata cioè nei settori marginali della città e del mercato del lavoro, la popolazione più povera organizza un tipo di strutture e di relazioni interpersonali adeguato alla propria condizione di esclusione.

Legata alla propria zona, stringe intensi rapporti con i propri vicini ed intreccia con questi fitte relazioni di scambio aventi come scopo il soddisfacimento di quei bisogni, alcuni dei quali elementari, che le strutture pubbliche o le possibilità strettamente familiari lasciano insoddisfatti. Le frontiere funzionano in maniera asimmetrica: facilmente consentono di uscire dai quartieri poveri, più difficilmente di entrare in quelli ricchi. La densità degli insediamenti urbani e la loro maggiore o minore sostenibilità – se sia cioè meglio procedere nella direzione di una progressiva densificazione, anche verticale, della città o sia invece preferibile la sua espansione orizzontale nel territorio – è questione che ha occupato a lungo gli esperti. Gli studi più recenti propendono per la prima ipotesi: la città compatta, ad alta densità, appare la risposta migliore alla necessità di ospitare masse crescenti di abitanti. Sono anzi proprio le elevate densità a consentire oggi la lotta contro l’inquinamento automobilistico grazie alla riconversione al più sostenibile trasporto pubblico, oltre a garantire sicurezza sociale e a offrire un apprezzabile senso di varietà e vitalità. Se è poi vero che il tempo diverrà un bene sempre più prezioso, è auspicabile la riduzione del pendolarismo giornaliero: ne risultano privilegiate le aree ad alta densità, svantaggiati gli insediamenti troppo estesi.

 

La città di Edmonton, capitale dell’Alberta in meno di 30 anni e' passata da 600.000 abitanti ad oltre un milione con un raccordo anulare (anthony Henday) di oltre 100 km. Una città immensa e alienante. Questo tipo di città è diventato il campo di battaglia in cui si stanno giocando le sorti del futuro dell’umanità.

La sostenibilità urbana è un concetto concretamente valido rispetto ad alcuni parametri fondamentali quali la produzione di una quantità di energia maggiore di quanta se ne consuma, la raccolta e il trattamento dei rifiuti all’interno dei propri confini, la raccolta e il riciclaggio delle acque e così via. Naturalmente tali obiettivi devono coesistere con le finalità tradizionali, tra cui quelle di creare benessere economico e sociale, e favorire la crescita culturale e tecnologica. Si tratta dunque di una grande sfida, ma senza una profonda rivoluzione sarà difficile modificare lo stato delle cose. L’edificato e i trasporti sono responsabili del 70% delle emissioni nocive. Le reti e le infrastrutture delle città, anche di quelle più ricche, come Edmonton, sono per lo più obsolete. Negli ultimi decenni si è assistito ad un fenomeno oggettivo e visibile di diffusione urbana, di trasferimento cioé, di funzioni insediative ed economiche dai centri urbani alle aree viciniori; il fenomeno è stato descritto in letteratura ed in politica in termini diversi, come semplice "delocalizzazione", come "decentramento", come vera e propria ondata di "controurbanizzazione".

 

In questa città, dove ho studiato e lavorato per molti anni, oggi si assiste ad una urbanizzazione spaventosa e ad un proliferare di gated communities , comunità residenziali chiuse, fatte di spazi apparentemente pubblici ma in realtà privati in cui chi non si attiene alle regole viene espulso, oltre che di una serie di aspetti percettivi apparentemente secondari, ma comunque non trascurabili, che vanno dalla corazzatura di porte e finestre all’uso di veicoli blindati.

Muri e barriere fisiche di ogni tipo isolano dunque le case, i quartieri residenziali, i luoghi della produzione e del lavoro; a essi si aggiungono la vigilanza e tutti i sistemi elettronici, visibili e invisibili, di controllo, oltre a barriere di tipo psicologico, spesso non meno percepibili di quelle fisiche. L’invisibilità di tali sistemi è peraltro tanto maggiore quanto più facoltose sono le persone da difendere: nelle aree urbane e suburbane più esclusive, case e uffici sono spesso semplicemente racchiusi da ampie vetrate e circondati da prati privi di recinzioni, ma efficienti occhi elettronici rendono impossibile ogni illecito superamento dei confini. Le classi agiate e le élites dominanti, sempre meno radicate in un luogo fisico, sempre più mobili nella extraterritorialità della rete o all’interno di uno strato sociale internazionale relativamente indipendente dalla fisicità dei luoghi, cercano così sicurezza all’interno di recinti che le isolino dal resto della città. Il fenomeno, in crescente diffusione, vede una decisa amplificazione della sua portata, a causa del continuo incremento della popolazione urbanizzata, della disomogeneità nella distribuzione del reddito e della diffusione di normative che favoriscono una gestione privata di vasti spazi e delle infrastrutture e servizi a essi connessi.

Gigino A Pellegrini & G el tarik

Pubblicato in Mondo

Prima o dopo Gigi manderà in stampa la sua miscellanea di racconti e riflessioni, ne sono certo. E non sono il solo. E penso che avrà per titolo “L’uomo che ascoltava il mondo…”.

E sarà un libro da conservare gelosamente non fosse altro che per sapere di un amanteano straordinario e troppo poco conosciuto. Nell’attesa eccovi un altro suo intenso racconto.

 

“ Mi sono trovato in un contesto dove avevo una gran voglia di evadere. Di sognare e di scrivere questi sogni.

Mia madre era una straordinaria narratrice. Quando ero piccolo, insieme ai miei due fratelli e nonna Domenica, nelle fredde serate d’inverno ce ne stavamo tutti intorno ad un solo braciere mentre mamma leggeva da GrandHotel, Via col vento a puntate.

A volte, non leggeva. Inventava. I suoi racconti erano sempre immaginifici, e mettevano in scena una foresta.

Pur vivendo a due passi dal Mare di Ulisse, il richiamo di quella foresta risuonava emozionante, misterioso e attraente e tutte le volte che lo udivo mi sentivo costretto a rinnegare la mia natura marinara.


Chiudevo gli occhi cullato dalla sua voce e con le spalle al fuoco e agli alberi che mi circondavano, mi addentravo nella foresta, sempre più avanti, senza sapere dove andavo né perché; né mi chiedevo dove o perché il richiamo risuonasse superbamente nel cuore della foresta.

A vent’anni non avevo più il bisogno di chiudere gli occhi, quando l’aurora boreale divampava fredda nel cielo o le stelle palpitavano in una gelida danza, mentre la terra intirizzita e ghiacciata giaceva sotto la bianca neve.

In lontananza, un canto di mousse avrebbe modulato in chiave minore, con gemiti prolungati e singhiozzi interrotti. sembrava una supplica. Raccontava la dura fatica dell’esistenza.

Era un canto antico, antico come questa parte del mondo prima che un uomo occidentale vi mettesse piede.

In quei giorni era tornato da mari sconosciuti un italiano che viveva a Bristol con la moglie veneziana e i suoi tre figli. Gli inglesi gli stavano dietro come invasati e lo chiamavano Grande Ammiraglio, porgendogli molto onore perché aveva scoperto delle nuove terre. L’inventore di queste storie diceva di aver piantato su quelle terre una gran croce e la bandiera inglese assieme al gonfalone di San Marco, perché lui era veneziano. Ed era per questi motivi che la città di Bristol era diventata improvvisamente molto rinomata e stimata in Inghilterra.

Il nome del genovese-veneziano, che indossava sempre sgargianti abiti di seta, era Giovanni Caboto.

 

Le terre che aveva scoperto appartenevano alla nazione che poi divenne il Canada.

Oggi è mese che sono tornato a Edmonton nell’Ovest canadese.

E’ una bellissima giornata di sole, non si direbbe che sia metà ottobre.

Guardo fuori dalla finestra della mia stanza e vedo uno scoiattolo che sta cercando da mangiare nei rami del mio abete rosso.

Deve essersi ricordato delle noccioline che ho messo ai piedi dell’albero qualche giorno fa.

Mentre osservo lo scoiattolo vedo passare la gente, i miei vicini. Come se l'intero mappamondo mi stesse scorrendo davanti.

Un irlandese, un indiano, una coppia di etiopi, un cinese e un sik. Sono in Canada luogo di culture contrastanti e allo stesso tempo omogenee.

Cavalco gli orizzonti/ lasciando al fato la scelta del mio riposo notturno. Su una montagna di ossa/che una volta correvano sulle praterie/ignari di ciò che stavano per pagare/ Bisonti, cervi ,indiano morti, pionieri e case in fiamme/ lasciate indietro nella polvere della depressione. Ho vissuto anch’io in questa terra. Ne ho conosciuto la bellezza delle notti con la bianca neve brillare nella luce lunare mentre da essa fuoriusciva una strana e inquietante struttura:un Inukshuk .

 

Anzi, come scoprii qualche anno più tardi, si trattava di un Inunwack (nella lingua Inuit significa simile ad un essere umano) che è un ometto ovvero una costruzione in pietra usata come punto di riferimento dagli Inuit, Inupiat, Kalaallit, Yupik e da altri popoli della zona artica dell'America settentrionale.

Mentre, lo Inukshuk, il significato è "sei sulla strada giusta" oppure "qualcuno è stato qui". Gli Inuit li costruiscono anche come aiuto direzionale, per segnalare un buon punto di pesca o di caccia, oppure come segnali che si trovano nelle autostrade moderne.. Spesso eretti singolarmente, sono stati ritrovati anche ispirati a specifici temi, come un codice costituito da Inukshuk simili tra di loro che anche a grandi distanze ripetono una sequenza, come una carta stellare.

Queste forme rocciose sono fra i più antichi simboli dell'umanità che si conoscano, sia nel Circolo Polare Artico che in tutto il mondo. Spesso per il viaggiatore, la vista di un Inukshuk è confortante e dà un senso di familiarità in un paesaggio piatto, tutto bianco e senza punti di riferimento.

 

Ogni Inukshuk è unico, con pietre tutte diverse fra loro. Ogni pietra può significare qualcosa per chi ha intrapreso un viaggio in quei posti desolati, e porta impressi i segni del viaggio, ad esempio: quanti viaggiatori erano? c'erano donne? bambini? era un posto dove i caribù sostano.

Mi addormentai ed eccomi di nuovo davanti ad un Inunwack. Ogni braccio,gamba o testa dell’Inunwak significa qualcosa. La direzione da intraprendere, o il passaggio in una valle. Può anche indicare la provenienza di un viaggiatore e dove sarà diretto.

Era più rassicurante del monolite di “Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrik. Mi avvicinai alla sua figura umana e diedi un occhiata attraverso la “finestra” che aveva al posto del ventre. Mi apparve il volto di mia figlia Lorenza che mi svegliava con un sorriso.

Edmonton oct.09 2015 Gigino A Pellegrini & G el Tarik.

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