Prima o dopo Gigi manderà in stampa la sua miscellanea di racconti e riflessioni, ne sono certo. E non sono il solo. E penso che avrà per titolo “L’uomo che ascoltava il mondo…”.
E sarà un libro da conservare gelosamente non fosse altro che per sapere di un amanteano straordinario e troppo poco conosciuto. Nell’attesa eccovi un altro suo intenso racconto.
“ Mi sono trovato in un contesto dove avevo una gran voglia di evadere. Di sognare e di scrivere questi sogni.
Mia madre era una straordinaria narratrice. Quando ero piccolo, insieme ai miei due fratelli e nonna Domenica, nelle fredde serate d’inverno ce ne stavamo tutti intorno ad un solo braciere mentre mamma leggeva da GrandHotel, Via col vento a puntate.
A volte, non leggeva. Inventava. I suoi racconti erano sempre immaginifici, e mettevano in scena una foresta.
Pur vivendo a due passi dal Mare di Ulisse, il richiamo di quella foresta risuonava emozionante, misterioso e attraente e tutte le volte che lo udivo mi sentivo costretto a rinnegare la mia natura marinara.
Chiudevo gli occhi cullato dalla sua voce e con le spalle al fuoco e agli alberi che mi circondavano, mi addentravo nella foresta, sempre più avanti, senza sapere dove andavo né perché; né mi chiedevo dove o perché il richiamo risuonasse superbamente nel cuore della foresta.
A vent’anni non avevo più il bisogno di chiudere gli occhi, quando l’aurora boreale divampava fredda nel cielo o le stelle palpitavano in una gelida danza, mentre la terra intirizzita e ghiacciata giaceva sotto la bianca neve.
In lontananza, un canto di mousse avrebbe modulato in chiave minore, con gemiti prolungati e singhiozzi interrotti. sembrava una supplica. Raccontava la dura fatica dell’esistenza.
Era un canto antico, antico come questa parte del mondo prima che un uomo occidentale vi mettesse piede.
In quei giorni era tornato da mari sconosciuti un italiano che viveva a Bristol con la moglie veneziana e i suoi tre figli. Gli inglesi gli stavano dietro come invasati e lo chiamavano Grande Ammiraglio, porgendogli molto onore perché aveva scoperto delle nuove terre. L’inventore di queste storie diceva di aver piantato su quelle terre una gran croce e la bandiera inglese assieme al gonfalone di San Marco, perché lui era veneziano. Ed era per questi motivi che la città di Bristol era diventata improvvisamente molto rinomata e stimata in Inghilterra.
Il nome del genovese-veneziano, che indossava sempre sgargianti abiti di seta, era Giovanni Caboto.
Le terre che aveva scoperto appartenevano alla nazione che poi divenne il Canada.
Oggi è mese che sono tornato a Edmonton nell’Ovest canadese.
E’ una bellissima giornata di sole, non si direbbe che sia metà ottobre.
Guardo fuori dalla finestra della mia stanza e vedo uno scoiattolo che sta cercando da mangiare nei rami del mio abete rosso.
Deve essersi ricordato delle noccioline che ho messo ai piedi dell’albero qualche giorno fa.
Mentre osservo lo scoiattolo vedo passare la gente, i miei vicini. Come se l'intero mappamondo mi stesse scorrendo davanti.
Un irlandese, un indiano, una coppia di etiopi, un cinese e un sik. Sono in Canada luogo di culture contrastanti e allo stesso tempo omogenee.
Cavalco gli orizzonti/ lasciando al fato la scelta del mio riposo notturno. Su una montagna di ossa/che una volta correvano sulle praterie/ignari di ciò che stavano per pagare/ Bisonti, cervi ,indiano morti, pionieri e case in fiamme/ lasciate indietro nella polvere della depressione. Ho vissuto anch’io in questa terra. Ne ho conosciuto la bellezza delle notti con la bianca neve brillare nella luce lunare mentre da essa fuoriusciva una strana e inquietante struttura:un Inukshuk .
Anzi, come scoprii qualche anno più tardi, si trattava di un Inunwack (nella lingua Inuit significa simile ad un essere umano) che è un ometto ovvero una costruzione in pietra usata come punto di riferimento dagli Inuit, Inupiat, Kalaallit, Yupik e da altri popoli della zona artica dell'America settentrionale.
Mentre, lo Inukshuk, il significato è "sei sulla strada giusta" oppure "qualcuno è stato qui". Gli Inuit li costruiscono anche come aiuto direzionale, per segnalare un buon punto di pesca o di caccia, oppure come segnali che si trovano nelle autostrade moderne.. Spesso eretti singolarmente, sono stati ritrovati anche ispirati a specifici temi, come un codice costituito da Inukshuk simili tra di loro che anche a grandi distanze ripetono una sequenza, come una carta stellare.
Queste forme rocciose sono fra i più antichi simboli dell'umanità che si conoscano, sia nel Circolo Polare Artico che in tutto il mondo. Spesso per il viaggiatore, la vista di un Inukshuk è confortante e dà un senso di familiarità in un paesaggio piatto, tutto bianco e senza punti di riferimento.
Ogni Inukshuk è unico, con pietre tutte diverse fra loro. Ogni pietra può significare qualcosa per chi ha intrapreso un viaggio in quei posti desolati, e porta impressi i segni del viaggio, ad esempio: quanti viaggiatori erano? c'erano donne? bambini? era un posto dove i caribù sostano.
Mi addormentai ed eccomi di nuovo davanti ad un Inunwack. Ogni braccio,gamba o testa dell’Inunwak significa qualcosa. La direzione da intraprendere, o il passaggio in una valle. Può anche indicare la provenienza di un viaggiatore e dove sarà diretto.
Era più rassicurante del monolite di “Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrik. Mi avvicinai alla sua figura umana e diedi un occhiata attraverso la “finestra” che aveva al posto del ventre. Mi apparve il volto di mia figlia Lorenza che mi svegliava con un sorriso.
Edmonton oct.09 2015 Gigino A Pellegrini & G el Tarik.