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Si tratta di milioni di euro che dovranno essere pagati dal comune di Amantea e che a quanto pare non rientrano nemmeno nel dissesto e, quindi, dovranno essere pagati per intero senza abbattimenti di sorta, più o meno legittimi.

Milioni di euro che derivano dalla sentenza emessa dal tribunale di Paola giorno 4 ottobre 2018, dopo anni ed anni di causa, sentenza che sarebbe stata notificata stamattina 17 ottobre al comune di Amantea a cura degli avvocati dello stesso Ente.

Parliamo degli avvocati Nunzio Raimondi, del foro di Catanzaro, e Concetta Metallo, del foro di Paola.

Vi starete chiedendo di cosa stiamo discutendo, vero?

Ebbene, parliamo della causa promossa dall’Hotel La Principessa contro il comune di Amantea, la regione Calabria e la provincia di Cosenza per i danni provocati dal Porto di Amantea alla spiaggia a sud . letteralmente scomparsa, e che ha reso impossibile la sua fruizione da parte del complesso turistico

Una vicenda della quale parleremo a lungo, ancora più se, davvero, i cittadini amanteani saranno , come sembra, chiamati a pagare i danni stabiliti dai giudici a favore dei ricorrenti.

Parliamo, come detto, di milioni di euro

Se anche non è stato riconosciuto a favore del ricorrente il danno emergente richiesto e quello di immagine sarà quantizzato nei prossimi mesi ,il lucro cessante assommerebbe a diversi e diversi milioni di euro.

L'importo sarà stabilito dai giudici.

Sembra che gli avvocati romani Manti e Reggio D’Aci ben famosi ad Amantea per aver fatto vincere la causa agli amministratori comunali quando venne sciolto per mafia il consiglio comunale, questa volta non siano riusciti a tutelare gli interessi della città.

Stando alle prime indicazioni sembra che la difesa del comune esercitata da Manti-D’Aci, sia stata orientata a sostenere la incompetenza del magistrato ordinario, spettando, al contrario, il giudizio al TAR, tesi questa non accolta dal tribunale paolano.

Non solo ma sembra che la regione sia stata prosciolta da eventuali responsabilità perché il progetto è stato approvato dal comune, donde la totale responsabilità di quest’ultimo.

Ma, ci chiediamo, possibile che la regione sia diventata solo un ente erogatore senza entrare nel merito dell’opera , quasi che fosse una sorta di cassa depositi e Prestiti dei vecchi tempi ?.

Quasi come se, erogato il finanziamento pubblico, possa mancare ogni forma di attenzione e di controllo?.

Similmente sarebbe stato prosciolto da ogni responsabilità l’ente provincia proprio perché non avrebbe avuto responsabilità alcuna nella valutazione del progetto del porto.

La prima domanda che ci stiamo ponendo è la seguente: Ma chi ha approvato il progetto?

La seconda domanda :Ma chi ha approvato il progetto?

La terza: Ma dove sono finite le prove in vasca fatte eseguire dal comune di Amantea?

La quarta: Ma le prove in vasca avevano dichiarato l’opera eseguibile ed a quali condizioni?

Ci fermiamo qui, per il momento, ma con l’impegno a maggiori riflessioni.

Pubblicato in Politica

donna bruciataAmici lettori oggi vi voglio raccontare di una storia incredibile, di una sentenza della Corte d’Appello paradossale, davvero scioccante. Un uomo romeno senza fissa dimora che viveva insieme alla sua compagna sotto una tenda un giorno versò su di lei dell’alcool, le diede fuoco e la povera donna trasportata all’ospedale morì. Venne giudicato e condannato alla pena di 14 anni di carcere. In Appello gli viene ridotta la pena perché secondo il Giudice l’alcool che l’uomo ha usato era poco, soltanto mezza bottiglia. I fatti risalgono al settembre del 2014. Ma andiamo con ordine. Un romeno e la sua compagna, come abbiamo visto, vivono sotto una tenda. Scoppia un litigio tra i due e l’uomo versa sulla donna mezza bottiglia di alcool e poi le da fuoco provocandole la morte. Si fa la causa e il Giudice condanna l’uomo a 14 anni di carcere perché ha provocato la morte della compagna. Fu un omicidio volontario. In Appello, però, i Giudici ribaltano la sentenza, non solo riducono la pena inflittagli ma derubricano il reato a omicidio preterintenzionale. Ecco cosa scrive il giornale quotidiano “Il Tempo” di Roma: - La quantità di alcool usata per dar fuoco alla convivente era poca e dunque avvalorava l’ipotesi di una morte preterintenzionale-. Ad ucciderla non è stato il poco alcool versato, mezza bottiglia, ma la tuta acrilica indossata dalla donna. Il figlio della vittima e l’avvocato difensore hanno fatto ricorso in Cassazione. Stiamo diventando, amici, tutti matti e alcuni Magistrati sono semplicemente ridicoli. Non ha usato abbastanza alcool per uccidere, quindi l’imputato ha diritto ad uno sconto di pena. Evidentemente l’altra metà di alcool l’avrà bevuta l’imputato. Se le inventano tutte i nostri Giudici. La colpa non è dell’alcool versato e delle fiamme che hanno avvolto la povera donna, ma della tuta acrilica che indossava al momento dell’avvenuta aggressione. La colpa è tutta sua. Se avesse indossato una tuta di cotone non sarebbe morta bruciata viva. Bel ragionamento che hanno fatto i Giudici in Corte d’Appello. E se una ragazza in minigonna venisse stuprata la colpa sarebbe tutta sua perché non portava le mutandine e non indossava i pantaloni. Siamo all’assurdo. Chissà come avrebbero reagito quei Giudici se la stessa cosa fosse accaduta a un parente stretto.

Pubblicato in Italia

pubblicitàPubbliemme a capo di Domenico Maduli, dopo diversi ricorsi e con ben 6 sentenze smaschera l’errore clamoroso da parte del Comune di Vibo Valentia, che stava demolendo illecitamente i loro impianti pubblicitari.

Da alcuni anni il comune di Vibo Valentia aveva definito alcuni impianti pubblicitari realizzati e posti dalla Pubbliemme (gruppo nato nel 1999 e che si occupa della gestione delle attività di marketing sull'intero territorio nazionale) illegittimi e per tanto dovevano essere demoliti dal comune.

Dopo diversi ricorsi il Consiglio di Stato ha riconosciuto che non occorre alcun permesso a costruire per l’installazione degli impianti pubblicitari, per tanto le ordinanze di demolizione per gli impianti della Pubbliemme sono state finalmente annullate.

Il Codice della strada del 1993 e i regolamenti comunali prevedono che per la costruzione degli impianti pubblicitari basta la sola autorizzazione da parte del Comune e non il permesso a costruire, la cosiddetta licenza edilizia. Questo è stato ribadito e affermato da ben 6 sentenze diverse con le quali sono state annullate le ordinanze che nel 2011 aveva emesso il Comune di Vibo Valentia per la demolizione di tali impianti pubblicitari.

Alcune ordinanze sono state già eseguite e quindi alcuni impianti sono stati già demoliti senza aspettare il verdetto dei ricorsi presentate sia dalla Pubbliemme e sia da altre due imprese quali la “Ige Comunicazioni” e l’Affitalia Outdoor (aziende dello stesso gruppo). Il comune ora deve risarcire la Pubbliemme per il danno provocato dalle demolizioni definite non legittime dal Consiglio di Stato.

Il presidente del Gruppo Pubbliemme, si ritiene del tutto soddisfatto del verdetto finale in cui è stata riconosciuta la legittimità degli impianti pubblicitari, commentando cosi:

“E’ un grande successo. Un successo sul quale non abbiamo mai nutrito dubbi, consapevoli della correttezza del nostro agire, improntato su solidi presupposti di onestà, legalità e trasparenza. E’ una sentenza che rende giustizia alle nostre ragioni ma che ci ripaga solo parzialmente dell’inconcepibile campagna stampa diffamatoria e strumentale subita e dei gravissimi errori commessi nei nostri confronti da alcuni rappresentanti delle amministrazioni locali, di fronte invece a una condotta – la nostra – assolutamente ineccepibile”.

Inoltre il Presidente Domenico Maduli , ha colto l’occasione per ringraziare tutti i suoi collaboratori e clienti che hanno creduto in loro “insieme alla fiducia dei clienti e, soprattutto, la mia famiglia che in silenzio è sempre stata al mio fianco, nonostante le tante amarezze subite e sopportate ingiustamente”.

Pubblicato in Calabria

La vicenda è arcinota.

Il PM Sara Ombra per il “Caso Fallara” ha chiesto pene esemplari.

Tra queste quella di Scopelliti , accusato di abuso d’ufficio e che rischia una condanna fino a 5 anni e quindi la carriera politica.

Insieme a lui i tre revisori dei conti dell’epoca Carmelo Stracuzzi, Domenico D'Amico e Ruggero De Medici accusati di falso ideologico e, solo l’ex primo cittadino, di abuso d’ufficio

Secondo il pubblico ministero Sara Ombra «Già nel 2006 la Corte dei conti rilevava il disequilibrio di bilancio, lo sforamento del patto di stabilità interno, e tutto ciò avrebbe dovuto comportare il blocco delle assunzioni di personale e degli acquisti di nuovi beni e servizi e la cessazione dell’utilizzo di consulenze e professionalità esterne all’ente, ma tutto questo non fu fatto. Il buco di bilancio al Comune era una situazione tragica, come peraltro è emerso dalla successiva ispezione del Ministero delle finanze voluta dalla Procura di Reggio».

Due le risposte.

Quella dell’NCD che segnala la esistenza di abnormi debiti sin dal 2001 ( almeno 35 milioni di euro) e quindi Scopelliti avrebbe avuto una dote che avrebbe causato il dissesto di Reggio Calabria

Quella dell’avvocato Aldo Labate che ha sostenuto «la mancanza di rilievo di natura penale delle ipotesi accusatorie nei confronti dell’ex sindaco Giuseppe Scopelliti».

L’avvocato Aldo Labate ha sostenuto infatti che le responsabilità di gestione del bilancio dell’ente ed al conferimento degli incarichi esterni « sono ascrivibili interamente al dirigente del settore Finanze ovviamente con riferimento alla compilazione del bilancio».

Oggi la parola al Tribunale presieduto da Olga Tarzia della quale l’avvocato Francesco Giuffrè aveva chiesto la astensione perché il marito Elio Sansotta avrebbe avuto un incarico da dirigente dei servizi radiologici all’ospedale di Locri dall’attuale commissario dell’Asp di Reggio Francesco Sarica, nominato nei giorni scorsi dalla Giunta regionale.

Se Scopelliti dovrebbe essere condannato ad almeno 2 anni scatterebbe la sospensione dal ruolo di governatore della regione e “Peppe” sarebbe immediatamente sostituito dal vicepresidente.

Ma chissà se sarà necessario?

Pubblicato in Reggio Calabria

In 153 pagine le motivazioni della sentenza emessa Why not ma soprattutto una parte di storia della Regione Calabria, quella storia che vorremmo leggere nelle pagine di sociologia politica e di civiltà sociale di una terra che perde sempre più il suo profilo di terra di uomini forti per diventare terra di nessuno. Sono le motivazioni della sentenza di primo grado emessa, il 31 luglio 2012, dai giudici del Tribunale di Catanzaro per 26 imputati della maxi inchiesta Why not giudicati con rito ordinario. Nove le condanne emesse: 3 anni e 6 mesi per Giancarlo Franzè (ex dirigente della società “Why not”), 2 anni per Rosalia Marasco (dirigente regionale del dipartimento Personale), 8 mesi per Rosario Calvano, un anno e 6 mesi per Antonino Gargano (l'ex presidente di Fincalabra), un anno per Michele Montagnese, così come per Michelangelo Spataro, e Filomeno Pometti, 8 mesi anche per l'ex consigliere regionale Dionisio Gallo (Udc) e per l'ex assessore Domenico Basile (An). Vennero assolti Aldo Curto, Marino Magarò, Gennaro Ditto, Ennio Morrone, Francesco Morelli, Nicola Adamo, Pasquale Citrigno, Pasquale Marafioti e A. G.. I reati estinti per intervenuta prescrizione riguardavano Antonio Mazza, Rosario Baffa Caccuri, Giorgio Ceverini, Ernesto Caselli, Giuseppe Pascale, Antonio Esposito, Clara Magurno e per la principale teste dell’accusa, Caterina Merante.

Ora si attende che il collegio difensivo e i sostituti procuratore generali Eugenio Facciolla e Massimo Lia valutino quanto hanno scritto i giudici della prima sezione penale per presentare eventuale appello.

Al centro del processo c'erano le modalità dell'affidamento da parte della Regione di alcuni servizi a società private che impiegavano lavoratori interinali. In premessa i giudici sottolineano come «emerga il carattere sistematico e reiterato di azioni delittuose (realizzatesi sotto due diverse amministrazioni politiche) attraverso le quali venivano raggirate le regole per l'aggiudicazione di appalti pubblici in palese violazione dei criteri di economicità ed efficienza e con sviamento dalla finalità pubblica che deve viceversa ispirare l'azione dei pubblici amministratori». Secondo quanto sostenuto nelle motivazioni «i provvedimenti della Regione per l'affidamento a trattativa privata alle società sono illegittimi in quanto contengono una falsa attestazione e violano le tassative e inderogabili norme di legge che disciplinano rigorosamente i casi in cui gli appalti di servizi possono essere affidati a trattativa privata».

LE CONDANNE La pena più pesante riguarda il socio amministratore della Why not Giancarlo Franzè riconosciuto colpevole per quattro capi di imputazione relativi ai progetti “Sorveglianza idraulica”, “Censimento patrimonio immobiliare” e “For Europe”. Secondo i giudici nella sua veste di amministratore della società avrebbe dovuto esercitare «poteri di gestione e di controllo per vigilare e impedire la perpetrazione di eventi illeciti». Tre, invece, le condotte ascritte all'ex dirigente Rosalia Marasco in relazione ai progetti Ipnosi, Bifor e Infor. In relazione a quest'ultimo, i giudici evidenziano il «dolo intenzionale che si ravvisa nella condotta tenuta dalla Marasco allorquando, nonostante le irregolarità commesse dalla Why not nella fase esecutiva, il mancato tempestivo avvio di progetti che per mesi non registravano alcun risultato utile e le inefficienze e le disfunzioni segnalate, non esitava a prorogare gli appalti con il riconoscimento di retribuzioni aggiuntive, attestando falsamente nei suoi provvedimenti l'ottimo livello delle prestazioni rese dalla società che implicitamente assumeva di avere verificato». «Forte e solido» viene definito il rapporto tra la Marasco e Caterina Merante. L'ex assessore Gallo e il dirigente Calvano sono stati condannati per la vicenda “Silva Brutia”. Per il Tribunale «risulta dimostrato che i soggetti pubblici hanno operato al solo scopo di consentire al Consorzio Brutium di accedere illegittimamente alle risorse di cui avevano la disponibilità (e ciò anche in previsione del tornaconto elettorale che dalla operazione sarebbe derivato per il soggetto politico)». La condanna dell'ex assessore Basile è relativa al progetto Red. L'ex componente della giunta regionale «ha proposto la delibera aderendo in maniera acritica a tutte le condizioni indicate nella proposta progettuale del consorzio. Ma il progetto non era stato neppure predisposto dai competenti uffici regionali del dipartimento». È emerso, al contrario, che quel progetto venne redatto da un dipendente della Why not. Gargano, Spataro, Pometti e Montagnese sono stati, infine, condannati per la vicenda relativa al risanamento dell'azienda Tesi. Per i giudici catanzaresi «il contesto in cui il fatto è avvenuto, l'abnormità della violazione di legge commessa e l'entità della condotta complessivamente tenuta dagli imputati, del tutto sfornita di qualsivoglia giustificazione e anzi quasi clandestinamente posta in essere senza coinvolgere i componenti del consiglio di amministrazione di Fincalabra, che apprendevano del finanziamento al di fuori delle sedi istituzionali, in difetto di qualsiasi anche apparente finalità di interesse pubblico, sono dati ampiamente sufficienti a comprovare che l'azione è sorretta da quella intenzionale volontà che costituisce l'elemento soggettivo del delitto di cui all'articolo 323 del codice penale (abuso d'ufficio, ndr)».

NESSUNA CORRUZIONE L'accusa di corruzione nei confronti di Nicola Adamo ed A. G., assolti nel processo Why Not, era «incongruente» secondo il Tribunale di Catanzaro. «All'esito dell'istruttoria dibattimentale - sostengono i giudici - non è stata raggiunta la prova della piena responsabilità degli imputati. In particolare, non è stato acquisito alcun elemento idoneo a ricostruire in coerente e logica successione la concatenazione degli eventi». Nelle motivazioni della sentenza i giudici evidenziano inoltre che «l'emendamento normativo regionale, indicato nell'imputazione, che avrebbe in qualche modo favorito gli interessi imprenditoriali del gruppo G., non è attribuibile ad Adamo e non può in alcun modo a lui ricondursi. E ancor meno può considerarsi il corrispettivo del presunto finanziamento per la campagna elettorale». «Emergono dunque - sostengono ancora i giudici - le incongruenze dell'ipotesi dell'accusa. Quanto alla dazione di denaro, il prezzo dell'ipotizzata corruzione ammonterebbe a 50mila euro ma nessuno dei testi ascoltati, nel corso del dibattimento, ha riferito della percezione, da parte di Adamo, di una qualsiasi somma». Anche il principale teste d'accusa Arturo Zanelli (marito di Caterina Merante), che sostenne di aver partecipato personalmente al prelievo dei 50mila euro dalle casse della Despar di G., è stato smentito dalle dichiarazioni rese da due dipendenti dell'azienda che lui stesso aveva indicato come presenti durante le operazioni di prelievo del denaro. g.maz. Ilcorriere della Calabria 

 

Pubblicato in Calabria

Leggiamo su http://ulisse.sissa.it/ questo interessante articolo nel quale si parla della sentenza del Giudice che ha confermato le accuse agli scienziati ma nel mentre si tenta un disperata difesa degli stessi. Leggete e giudicate voi, ma noi vi ricordiamo la domanda clou: “a cosa serve la Commissione Grandi Rischi se i terremoti sono assolutamente imprevedibili?”

“Lascia allibiti il documento del giudice unico Marco Billi, che motiva la sentenza del 22 ottobre scorso, e che va ben al di là delle tesi contenute nella requisitoria dei pubblici ministeri. Nel documento (la versione integrale sul sito dell’INGV) si arriva ad affermare che (pagina 297)

La tesi secondo la quale l’attività di riduzione del rischio sismico consiste solo nel miglioramento delle norme sismiche, negli interventi di consolidamento strutturale preventivo e nella riduzione della vulnerabilità delle strutture esistenti (“l’unica difesa dai terremoti consiste nel rafforzare le costruzioni e migliorare le loro capacità di resistere al terremoto”), dunque, non costituisce solo oggetto di una eccezione difensiva ma rappresenta, secondo gli imputati, il prevalente, se non addirittura l’unico, strumento di mitigazione del rischio sismico.

Tale tesi difensiva appare assolutamente infondata. In tema di valutazione e di mitigazione del rischio sismico, l’affermazione secondo la quale “l’unica difesa dai terremoti consiste nel rafforzare le costruzioni e migliorare le loro capacità di resistere al terremoto” appare tanto ovvia quanto inutile.

Questo perché, continua il giudice:

I Comuni italiani, quasi tutti caratterizzati da estesi centri storici risalenti nei secoli, richiederebbero, per rafforzare le costruzioni esistenti e migliorare la loro capacità di resistere al terremoto, risorse finanziarie talmente ingenti da risultare concretamente indisponibili.

Insomma mancano i soldi… ma non basta. Si afferma anche che “la necessità di rafforzare le costruzioni e migliorare le loro capacità di resistere al terremoto” “ricorda più una clausola di stile che un intento concretamente attuabile”!

Ricordiamo che il processo a sette dei partecipanti alla riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009 si è concluso in primo grado con la sentenza a 6 anni di reclusione per omicidio colposo per tutti e sette gli imputati. Per la storia del processo si veda l’articolo Processo L’Aquila: ecco la sentenza di primo grado, pubblicato su OggiScienza e i riferimenti in esso contenuti.

Affermare che sia inutile l’opera di prevenzione dei rischi sismici, attraverso la costruzione e l’adeguamento di edifici che rispettino le norme antisismiche, è semplicemente assurdo. La sentenza e le sue motivazioni spostano l’attenzione e il focus dal punto fondamentale che è proprio quello della prevenzione: si pretende risposte immediate e certe per risolvere in poche ore o pochi giorni una carenza che potrebbe essere risolta solo con anni di impegno. Serve una maggiore conoscenza della pericolosità del territorio, la consapevolezza della vulnerabilità e dell’esposizione al rischio e l’azione congiunta di scienziati, istituzioni, autorità nazionali e locali, operatori dei media e società civile. E naturalmente i necessari investimenti. Si tratta insomma di una scelta politica e sociale di medio e lungo termine, che in Italia non viene però affrontata e che questa sentenza ritiene non rilevante, mettendo così in pericolo milioni di persone. Sappiamo infatti che l’Italia è un paese molto sismico e la maggior parte della popolazione italiana vive in una zona a rischio sismico.

A pagina 72 del documento del giudice si scrive:

Nel capo di imputazione, infatti, il P.M. non contesta agli imputati la mancata previsione del terremoto, la mancata evacuazione della città di L’Aquila o la mancata promulgazione di uno stato di allarme, ma addebita agli imputati la violazione di specifici obblighi in tema di valutazione, previsione e prevenzione del rischio sismico disciplinati dalla vigente normativa.

Questo argomento viene ripreso anche altrove (per esempio a pagina 185). Tuttavia a pagina 198 leggo: “Dire che in una zona sismica non si possono escludere terremoti, significa operare una vuota tautologia, in quanto se una zona non fosse interessata da terremoti non sarebbe definita sismica”, indicando così che gli imputati avrebbero dovuto fare una valutazione della probabilità di un evento più forte: ma quanto più forte? quando? dove esattamente?

Più esplicitamente a pagina 246 il giudice scrive che “le conoscenze e i dati (gli indicatori di rischio che verranno di seguito esaminati) a disposizione degli imputati a L’Aquila il 31.3.09 permettevano certamente di poter formulare una fondata valutazione di prevedibilità del rischio”, mentre a pagina 248 “la previsione del rischio è invece la formulazione di un giudizio, di una valutazione prognostica, circa la realizzazione in concreto di una situazione potenziale e circa quelle che potranno essere le possibili conseguenze dannose derivanti da un accadimento non prevedibile quale il terremoto.” Di fatto quindi si addebita agli imputati la colpa di non aver previsto un evento imprevedibile, perché la previsione del rischio del terremoto è inscindibile con quella del terremoto stesso, che come è noto, e dato per scontato anche dal Pubblico Ministero, è imprevedibile… (pagina 256).

A pagina 264 “Gli imputati, alla data del 31.3.09, conoscevano ed avevano a disposizione una serie di indicatori per formulare un adeguato giudizio di prevedibilità del rischio a fini di prevenzione.”

Supponiamo che fosse possibile (cosa che non è e forse non sarà mai) prevedere i terremoti con esattezza a distanza di pochi giorni o ore dal loro verificarsi, individuando ora, luogo e intensità precise. Saremmo probabilmente in grado di salvare molte vite umane (purché capaci di implementare piani di evacuazione efficaci!), e questo sarebbe un risultato indiscutibilmente inestimabile. Tuttavia il terremoto farebbe comunque il suo corso distruggendo case, fabbriche, scuole, monumenti… così come è stato all’Aquila. Ricordiamo che, oltre alle 309 vittime, 65.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case. Ricordiamo che ancora oggi la città è devastata: non solo il centro storico non è stato ricostruito ma nemmeno il tessuto sociale ed economico.

Nessuna fantascientifica capacità di previsione potrebbe mai evitare questa distruzione. Il terremoto è un evento incontrollabile.

Che cosa facciamo allora? Aspettiamo e incolpiamo coloro che da anni stanno facendo il proprio lavoro, seriamente e apertamente, per migliorare la conoscenza e le capacità di protezione dai terremoti? Celebriamo un processo dopo l’altro, e nelle aule dei tribunali speriamo di rendere giustizia a chi ha perso famigliari e amici o la propria casa? E nel frattempo lasciamo che la violenza del terremoto (inevitabile in un paese come l’Italia) faccia il suo corso e lasci interi paesi senza passato, presente e futuro?

Le persone continueranno a morire, e città e territori a essere distrutti. Questa notte stessa, in uno qualunque dei comuni italiani, potrebbe avvenire un terremoto devastante, senza nessun preavviso immediato.

Morte e distruzione si possono evitare, e si sarebbero potuti evitare anche all’Aquila. Gli strumenti e le conoscenze sufficienti sono a disposizione da molto tempo.

Innanzitutto esiste la mappa di pericolosità sismica che è stata elaborata dai simologi italiani e messa a disposizione di tutti. Dal 2006 — tre anni anni prima del terremoto dell’Aquila — la mappa è una legge dello Stato e rappresenta uno strumento importantissimo per proteggersi dai terremoti. Questa carta, già nota a tutti gli esperti, è stata mostrata e discussa anche nella riunione della Commissione Grandi Rischi: nella mappa, L’Aquila è segnata come zona ove la pericolosità sismica è massima, indipendentemente dal fatto che ci siano o meno delle sequenze sismiche in atto.

Dalla bozza di verbale della riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009, e riportato a pagina 87 del documento del giudice, Boschi (allora presidente dell’INGV) dichiara che “Gli eventi ricadono nella zona sismica appenninica, indicata da queste due strisce rosse, che è una delle più sismiche d’Italia…” e ancora “In realtà ci preoccupa perché ci sono stati terremoti fortissimi…” Giulio Selvaggi (allora direttore del Centro Nazionale Terremoti dell’INGV) dice anche che: “Quindi non è lo sciame o la sequenza che ci deve allarmare, ma dobbiamo preoccuparci se viviamo in zone sicure o no, sia per le abitazioni, che per gli edifci, come le scuole”, mentre ”Sotto il monte Urano la faglia non dorme. La frattura della crosta terrestre che si credeva silente è attiva: una situazione che può creare terremoti … Faglia che, per la sua lunghezza – precisa telefonicamente Fabrizio Galadini (sismologo dell’INGV)– potrebbe essere potenzialmente responsabile di terremoti di magnitudo tra 6,5 e 7 della Scala Richter.” Tutto ciò non viene considerato rilevante, ma lo sono invece solo le dichiarazioni che sono state interpretate come rassicuranti (spesso in modo forzoso dai media), prima fra tutte la famosa intervista a De Bernardinis (pagina 225 e seguenti), che però è avvenuta prima della riunione.

Insieme alla mappa, come già detto, si deve attuare il rinnovamento del patrimonio edilizio italiano che oggi non è in grado di sopportare scosse che in altri paesi non farebbero cadere neanche un cornicione. È importante sottolineare che non sono i terremoti a uccidere ma gli esseri umani che con negligenze, trascuratezze e interessi illeciti impediscono e ostacolano l’opera di prevenzione: esiste una relazione (dimostrata) tra indice di corruzione e morti nei terremoti (cfr Forti terremoti a confronto).

Nel documento del giudice, a proposito del patrimonio edilizio aquilano, a pagina 727 si elencano le carenze strutturali degli edifici in cui sono morte le persone a cui si riferisce questo processo: tutte presentano una vulnerabilità sismica alta o medio-alta per errori di progetto, ristrutturazioni sbagliate, carenze costruttive, assenza di interventi di riqualificazione, vetustà… ma a pagina 714: “In altri termini, i profili che nel caso di specie si qualificano come “fatto illecito altrui” rientrano certamente nella sfera di prevedibilità degli imputati così da non costituire, nella sequenza concausale, fatto eccezionale.”

Il giudice fa poi riferimento alla cronica mancanza di fondi delle amministrazioni pubbliche! È verissimo che l’adeguamento del patrimonio edilizio (anche storico) implica degli investimenti. Tuttavia è stato dimostrato che interventi di ripristino del costruito non a norma possono essere realizzati a basso costo, e salvare vite umane. Esistono importanti organizzazioni internazionali che svolgono questo lavoro (vedi Geohazard International). Inoltre ci si deve anche chiedere quanto ci costa la devastazione dopo ogni terremoto. Sicuramente molto di più di quanto ci costerebbe una pianificazione sensata, che oltre a evitare tante morti inutili proteggerebbe il tessuto economico e sociale delle zone colpite.

Il processo dell’Aquila ha altri aspetti che andrebbero approfonditi. Perché tra i sette imputati non si è fatta nessuna distinzione di ruoli? Gli imputati, lo ricordiamo, sono Franco Barberi, presidente vicario della Commissione Grandi rischi, Bernardo De Bernardinis, vicecapo del settore tecnico del Dipartimento di Protezione civile, Enzo Boschi, allora presidente dell’INGV, Gian Michele Calvi, direttore di Eucentre e responsabile del progetto CASE, Claudio Eva, ordinario di fisica all’Università di Genova (tutti componenti della Commissione Grandi Rischi) e inoltre Mauro Dolce, direttore dell’ufficio rischio sismico del Dipartimento della Protezione civile e Giulio Selvaggi, allora direttore del Centro nazionale terremoti dell’INGV.

Perché tra i presenti alla riunione, i responsabili delle autorità locali, in particolare il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente e l’assessore alla Protezione Civile della Regione Abruzzo Daniela Stasi, il dirigente responsabile della Protezione Civile della Regione Abruzzo Altero Leone, non sono tra gli imputati? Proprio loro a cui la legge affida il compito della salute e della salvaguardia dei cittadini?

Perché il pubblico ministero, e il giudice che appoggia la sua tesi, pur addentrandosi in complesse questioni scientifiche citando ricerche molto specialistiche, non ha ritenuto di dover avvalersi di un consulente sismologo che potesse consigliarlo in questa disciplina, in cui un giurista non ha competenze, ma si permette poi di motivare la sua richiesta proprio sulla base di elementi scientifici?

Sono tutti elementi che fanno di questo processo una pessima pagina della storia di questo paese e che invece avrebbe potuto segnare un punto di svolta verso un modo più moderno e civile di affrontare le emergenze. Non credo che il progresso per la mitigazione dei rischi naturali passi attraverso l’aula di un tribunale. La protezione dai terremoti dovrebbe essere una priorità nazionale, migliorando al contempo la catena di responsabilità tra chi, scienziati, protezione civile, amministrazione centrale e locale, si deve occupare per legge di affrontare queste emergenze. Purtroppo dal 2009 a oggi pochissimo è stato fatto anche su questo fronte.

 

A questo proposito i sismologi dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), riportano l’attenzione sulla mappa di pericolosità. Secondo Lucia Margheriti e Pio Lucente: “Sapere, attraverso la Mappa di Pericolosità, che un forte terremoto potrà colpire una determinata regione entro un intervallo di tempo più o meno lungo non è cosa da poco conto. Non è una notizia particolarmente “sexy”, di quelle che attirano l’attenzione del pubblico e guadagnano i titoli a tutta pagina sui giornali. Ma è quello che serve agli amministratori per formulare le leggi e delle norme di costruzione adeguate. Questo la sismologia oggi lo può fare, e lo fa.

Nel tempo in cui viviamo gli investimenti cospicui di denaro pretendono ricavi altrettanto cospicui, certi, e soprattutto a breve termine. Quello che bisogna cominciare a chiedersi, come società e come cittadini, è se siamo finalmente pronti a investire in qualcosa che potrebbe restituire i suoi preziosi frutti solo dopo molto tempo, al di là del termine della nostra vita di singoli individui!

Siamo convinti che la tragedia dell’Aquila, con tutte le sue contraddizioni, abbia dolorosamente contribuito a far crescere la comunità scientifica sismologica italiana. Vorremmo, come ricercatori sismologi, parte di questa comunità, continuare a crescere insieme alla società che ci è intorno e di cui noi siamo parte. La condanna del Tribunale e le motivazioni presentate a nostro giudizio non vanno in questa direzione.”

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