In 153 pagine le motivazioni della sentenza emessa Why not ma soprattutto una parte di storia della Regione Calabria, quella storia che vorremmo leggere nelle pagine di sociologia politica e di civiltà sociale di una terra che perde sempre più il suo profilo di terra di uomini forti per diventare terra di nessuno. Sono le motivazioni della sentenza di primo grado emessa, il 31 luglio 2012, dai giudici del Tribunale di Catanzaro per 26 imputati della maxi inchiesta Why not giudicati con rito ordinario. Nove le condanne emesse: 3 anni e 6 mesi per Giancarlo Franzè (ex dirigente della società “Why not”), 2 anni per Rosalia Marasco (dirigente regionale del dipartimento Personale), 8 mesi per Rosario Calvano, un anno e 6 mesi per Antonino Gargano (l'ex presidente di Fincalabra), un anno per Michele Montagnese, così come per Michelangelo Spataro, e Filomeno Pometti, 8 mesi anche per l'ex consigliere regionale Dionisio Gallo (Udc) e per l'ex assessore Domenico Basile (An). Vennero assolti Aldo Curto, Marino Magarò, Gennaro Ditto, Ennio Morrone, Francesco Morelli, Nicola Adamo, Pasquale Citrigno, Pasquale Marafioti e A. G.. I reati estinti per intervenuta prescrizione riguardavano Antonio Mazza, Rosario Baffa Caccuri, Giorgio Ceverini, Ernesto Caselli, Giuseppe Pascale, Antonio Esposito, Clara Magurno e per la principale teste dell’accusa, Caterina Merante.
Ora si attende che il collegio difensivo e i sostituti procuratore generali Eugenio Facciolla e Massimo Lia valutino quanto hanno scritto i giudici della prima sezione penale per presentare eventuale appello.
Al centro del processo c'erano le modalità dell'affidamento da parte della Regione di alcuni servizi a società private che impiegavano lavoratori interinali. In premessa i giudici sottolineano come «emerga il carattere sistematico e reiterato di azioni delittuose (realizzatesi sotto due diverse amministrazioni politiche) attraverso le quali venivano raggirate le regole per l'aggiudicazione di appalti pubblici in palese violazione dei criteri di economicità ed efficienza e con sviamento dalla finalità pubblica che deve viceversa ispirare l'azione dei pubblici amministratori». Secondo quanto sostenuto nelle motivazioni «i provvedimenti della Regione per l'affidamento a trattativa privata alle società sono illegittimi in quanto contengono una falsa attestazione e violano le tassative e inderogabili norme di legge che disciplinano rigorosamente i casi in cui gli appalti di servizi possono essere affidati a trattativa privata».
LE CONDANNE La pena più pesante riguarda il socio amministratore della Why not Giancarlo Franzè riconosciuto colpevole per quattro capi di imputazione relativi ai progetti “Sorveglianza idraulica”, “Censimento patrimonio immobiliare” e “For Europe”. Secondo i giudici nella sua veste di amministratore della società avrebbe dovuto esercitare «poteri di gestione e di controllo per vigilare e impedire la perpetrazione di eventi illeciti». Tre, invece, le condotte ascritte all'ex dirigente Rosalia Marasco in relazione ai progetti Ipnosi, Bifor e Infor. In relazione a quest'ultimo, i giudici evidenziano il «dolo intenzionale che si ravvisa nella condotta tenuta dalla Marasco allorquando, nonostante le irregolarità commesse dalla Why not nella fase esecutiva, il mancato tempestivo avvio di progetti che per mesi non registravano alcun risultato utile e le inefficienze e le disfunzioni segnalate, non esitava a prorogare gli appalti con il riconoscimento di retribuzioni aggiuntive, attestando falsamente nei suoi provvedimenti l'ottimo livello delle prestazioni rese dalla società che implicitamente assumeva di avere verificato». «Forte e solido» viene definito il rapporto tra la Marasco e Caterina Merante. L'ex assessore Gallo e il dirigente Calvano sono stati condannati per la vicenda “Silva Brutia”. Per il Tribunale «risulta dimostrato che i soggetti pubblici hanno operato al solo scopo di consentire al Consorzio Brutium di accedere illegittimamente alle risorse di cui avevano la disponibilità (e ciò anche in previsione del tornaconto elettorale che dalla operazione sarebbe derivato per il soggetto politico)». La condanna dell'ex assessore Basile è relativa al progetto Red. L'ex componente della giunta regionale «ha proposto la delibera aderendo in maniera acritica a tutte le condizioni indicate nella proposta progettuale del consorzio. Ma il progetto non era stato neppure predisposto dai competenti uffici regionali del dipartimento». È emerso, al contrario, che quel progetto venne redatto da un dipendente della Why not. Gargano, Spataro, Pometti e Montagnese sono stati, infine, condannati per la vicenda relativa al risanamento dell'azienda Tesi. Per i giudici catanzaresi «il contesto in cui il fatto è avvenuto, l'abnormità della violazione di legge commessa e l'entità della condotta complessivamente tenuta dagli imputati, del tutto sfornita di qualsivoglia giustificazione e anzi quasi clandestinamente posta in essere senza coinvolgere i componenti del consiglio di amministrazione di Fincalabra, che apprendevano del finanziamento al di fuori delle sedi istituzionali, in difetto di qualsiasi anche apparente finalità di interesse pubblico, sono dati ampiamente sufficienti a comprovare che l'azione è sorretta da quella intenzionale volontà che costituisce l'elemento soggettivo del delitto di cui all'articolo 323 del codice penale (abuso d'ufficio, ndr)».
NESSUNA CORRUZIONE L'accusa di corruzione nei confronti di Nicola Adamo ed A. G., assolti nel processo Why Not, era «incongruente» secondo il Tribunale di Catanzaro. «All'esito dell'istruttoria dibattimentale - sostengono i giudici - non è stata raggiunta la prova della piena responsabilità degli imputati. In particolare, non è stato acquisito alcun elemento idoneo a ricostruire in coerente e logica successione la concatenazione degli eventi». Nelle motivazioni della sentenza i giudici evidenziano inoltre che «l'emendamento normativo regionale, indicato nell'imputazione, che avrebbe in qualche modo favorito gli interessi imprenditoriali del gruppo G., non è attribuibile ad Adamo e non può in alcun modo a lui ricondursi. E ancor meno può considerarsi il corrispettivo del presunto finanziamento per la campagna elettorale». «Emergono dunque - sostengono ancora i giudici - le incongruenze dell'ipotesi dell'accusa. Quanto alla dazione di denaro, il prezzo dell'ipotizzata corruzione ammonterebbe a 50mila euro ma nessuno dei testi ascoltati, nel corso del dibattimento, ha riferito della percezione, da parte di Adamo, di una qualsiasi somma». Anche il principale teste d'accusa Arturo Zanelli (marito di Caterina Merante), che sostenne di aver partecipato personalmente al prelievo dei 50mila euro dalle casse della Despar di G., è stato smentito dalle dichiarazioni rese da due dipendenti dell'azienda che lui stesso aveva indicato come presenti durante le operazioni di prelievo del denaro. g.maz. Ilcorriere della Calabria