L’ultimo sforzo di Gigino Adriano Pellegrini ha per titolo “ Promemoria dei i distratti” . Eccolo:
“Ogni qual volta che pensiamo, sarebbe bene cominciare riflettendo sulle parole che stiamo per pronunciare.
Sarebbe un primo grande atto di responsabilità verso le parole, il loro significato, il fatto che veicolano la nostra storia.
Un tale atto di responsabilità dovrebbe tener conto del parlare prima di pronunciare qualsiasi parola, quindi interrogarsi sui pensieri che vengono espressi tramite le parole.
Per esempio, cosa si intende per amministrare la cosa pubblica ? A tale proposito, credo sia utile partire, dalla “res publica”, proposta da uno dei più grandi pensatori dell'età repubblicana Romana, Marco Tullio Cicerone, nel suo trattato politico “de re publica” .
L’espressione res publica in questo caso, significa letteralmente ‘cosa del popolo’, e designa l'insieme dei possedimenti, dei diritti e degli interessi del popolo e dello Stato. "…la repubblica la cosa del popolo. Non é popolo una qualsiasi riunione d'uomini comunque messa insieme, ma quella riunione d'uomini che diventa società per il riconoscimento di un diritto comune e di un comune pratico scopo.
E la causa prima di questa riunione é non tanto la debolezza dei singoli quanto una naturale inclinazione degli uomini a vivere insieme ».
Quando un amministratore pubblico sostiene di non sapere ammette la propria inadeguatezza ad amministrare la cosa pubblica.
Scajola non sapeva dell’appartamento al Colosseo. Bossi dei lavori di ristrutturazione.
Rutelli dei soldi che Lusi spendeva per conto della Margherita e infine Renata Polverini non era a conoscenza delle spese della propria amministrazione.
Solo in quei giorni ha “scoperto” che un consigliere aveva entrate superiori al proprio Presidente.
Un atto di responsabilità da parte di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica sarebbe quello di interrogarsi circa i pensieri che potrebbero nascere nel cittadino-ascoltatore.
Dovrebbe, dunque, procedere nella scelta di ciascuna parola, particolarmente se si tratta di una riflessione pubblica.
Una tale premessa implica già qualcosa circa l’etica che vuol dire costume, abitudine e le usanze che regolano la vita sociale, il nostro stare con gli altri che comprende la vita lavorativa, affettiva, familiare, riguarda cioè i rapporti interpersonali.
La parola “gestione” che vuol dire amministrare, controllo e perciò tutela. “Cosa pubblica” rinvia, invece, a tutto ciò che non appartiene al singolo individuo, come se fosse stata lui a crearlo o acquistarlo, o perché è solo lui a usarlo, bensì qualcosa che è condiviso, che non potrà mai dirsi proprio.
L’etica della cosa pubblica, quindi, comprende gli usi che ciascuno può fare di ciò che appartiene a tutti, in quanto di ciascuno, e che, anche quando rimesso alla volontà del singolo, deve rispondere inevitabilmente dell’altro a cui pure appartiene quello spazio in cui e su cui egli agisce.
A tale proposito abbozziamo una breve versione di ciò che rappresenta un Servizio Pubblico in un Paese liberal-democratico come viene considerata l’Italia, prima che la soglia di tolleranza dei cittadini, rispetto a quanto detto, verrà superata.
La complessa relazione tra soggetto pubblico, che organizza un’offerta di prestazioni, e utenti . Il servizio è pubblico in quanto reso al pubblico e per la soddisfazione dei bisogni della collettività.
Pertanto, le persone, chiamate a servire in qualsiasi struttura pubblica, dovrebbero avvertire l’esigenza di portare al massimo dell’espressione il principio della legalità nello svolgimento della quotidiana attività, fornendo ai cittadini utenti, in forma singola o associata, servizi che per qualità e quantità siano corrispondenti alla domanda.
Il tutto nel quadro di rapporti che debbono essere caratterizzati da disponibilità e correttezza, nel rispetto dell’esercizio dei diritti di ciascuno.
Il posto dove si lavora non è una proprietà privata.
E’ un luogo pubblico dove ci si comporta in maniera adeguata nel servire i cittadini utenti.