Un settantenne sente sulla pelle la paura della moltitudine. La paura di stare in mezzo alla folla e che potrebbe svilupparsi in un disturbo da attacchi di panico, influenzando significativamente la qualità della vita. Questo timore lo portava, a volte, a evitare luoghi affollati, con la convinzione che rimanere in tali situazioni avrebbe potuto causare malessere o addirittura impedirgli di trovare un luogo sicuro evitando di perdersi nel gomitolo di persone che quotidianamente affollano le strade di una piccola città del meridione d’Italia.
Rivedere quante volte una persona abbia pensato al fatto che tra quelle strade ci fosse sempre troppa gente, a quante volte in città uno ci è andato con la scusa di osservare ma poi ha passato l’intera giornata al tavolino in piazza Commercio o a fare la fila per un caffè al bar. L’immagine di quando si poteva ancora ridere perché il barista si era dimenticato per l’ennesima volta di macchiare il caffè e lo aveva poggiato con fretta sul piattino, perché nel frattempo altre dieci persone gli avevano chiesto un caffè normale, uno lungo, uno schiumato, uno in vetro e uno da portar via.
In questo scritto, quel bar ha la serranda chiusa, non c’è fila e non si sbagliano i caffè. Una persona senza un motivo valido non può entrarci, non può sperare di incontrare una persona umana impacciata a cui chiedere consigli su qualche metodo di pesca o dare un’occhiata veloce ai banchetti pieni di volantini e ragazzi di tutte le età a sfoggiare con orgoglio le magliette di qualche associazione sportiva o qualche giornale. Lui le ricorda bene tutte quelle giornate passate con un libro, rigorosamente chiuso davanti agli occhi e un via vai di nuove persone con cui chiacchierare.
Ora, a 70 anni, nella folla avverte il dolore acuto; non riesce più a vedere la remota possibilità di incrociare la propria anima gemella o la nuova migliore amica, non riesce più a smezzare qualche sigaretta senza filtro e di assaporare un gelato.
Quando si è sconosciuti si è nemici silenziosi. Si ha paura, anche se si dissimula, anche se si dice che si vuole continuare a vivere, deve continuare a vivere.
Si, ha paura ed è arrabbiato, arrabbiato perché qualcuno gli impedisce di vivere con la sua convinzione di potersi svegliare il giorno dopo e avere il mondo a portata di mano. Lui, a 70 anni, non può svegliarsi e pensare di poter fare tutto e sente il peso dei confini come barricate. E gli si dirà che non è una vera guerra, che non ci sono le bombe ad aspettarlo fuori la porta. Ma cosa lo aspetta fuori da quella porta?
Lo aspetta un mondo in cui la persona umana è priva di sorrisi e calorosi abbracci. Un mondo con ancora meno possibilità di prima, in cui sarà sempre più scoraggiato a sognare, un’attività per illusi in una realtà di grezzo pragmatismo.
Un essere umano si illude di aver fatto un sogno. Eppure prima o poi ne uscirà, e se riuscirà a non rimanere incastrato nella trappola illusoria dei social e del virtuale, se riuscirà a preservare il calore di ciò che furono i rapporti umani, forse sarà più forte di prima. Nel frattempo non gli resta che mettere i paraocchi davanti a tutta quella avariata carne umana, ammuffita che cercherà di scoraggiarlo, che gli metterà sotto il naso e sotto gli occhi, che non ci sono altri posti su questa Terra.
“Oh quante volte ai posteri
narrar sé stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!” A. Manzoni
Lo si vedrà raramente fuori la porta, con il giornale sotto braccio e il pacchetto di sigarette a portata di mano, pronto a chiedere l’ennesimo caffè macchiato che arriverà senza latte per la fretta e la calca.
Gigino A Pellegrini - G el Tarik
ANIMA MUTA
L’ho riempita di odiosi commenti
L’ho issata in alto sull’albero
Con la corda della mia rabbia
l’ho annodata ad un ramo
compiendo un riverito linciaggio.
L’imposizione della guerra in Ucraina e il genocidio che si sta consumando nella Striscia di Gaza, ci vede nella condizione in cui tutta l’umana modernità, la potestà tecnologica, la globalizzazione, il mercato, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisamente alle prese con la “semplicità dell’esistenza”, come direbbe un credente.
L’altro ieri mi sono ritrovato a contare i passi del mio terrazzo a Beaumont sur Mer, come facevo durante il Covid, e mentre riaffioravano alla mente immagini un po’ sbiadite, del sottoscala del dipartimento di lingue romanze presso l’Università dell’Alberta in Canada e il fraterno amico Emilio detto Zapata raccontava la strana avventura dell’uomo che osò sfidare gli dèi, che osò sfidare la morte, ed il suo nome era Sisifo.
Seduto al lungo tavolo di fronte a me notai lo sguardo perplesso del caro amico Peter Cole. Interruppi di contare i passi e rientrai in casa alla ricerca di Sisifo nei libri sugli scaffali. In una delle tante leggende si racconta che Sisifo, Re di Corinto, fosse figlio di Prometeo (il titano che aveva donato il fuoco agli uomini) e che un giorno avesse visto Zeus violentare una bella ninfa, figlia del dio fluviale Asopo. Interrogato da Asopo su chi avesse rapito la figlia, Sisifo gli rivelò quel che aveva visto. Zeus per punizione gettò Sisifo nell’Ade.
Tuttavia Sisifo (che già una volta si era preso gioco della morte facendola ubriacare) aveva avvisato la moglie di non seppellire il suo corpo qualora fosse morto; così, non avendo ricevuto gli onori funebri, la sua anima era costretta a vagare alle soglie dell’aldilà, motivo per cui, furbamente, riuscì a persuadere Persefone (la sposa del dio degli Inferi) a farlo tornare sulla terra per tre giorni, affinché potesse convincere la moglie a dargli degna sepoltura.
La dea acconsentì ma ovviamente Sisifo non aveva alcuna intenzione di tornare e quindi rimase sulla terra. Tuttavia gli dèi lo catturarono nuovamente e, quando tornò nell’Ade per la seconda volta, la sua punizione fu durissima: infliggendogli la “fatica” che abbiamo descritto sopra, che l’ha reso celebre e proverbiale presso la posterità. Ebbene, per gli antichi quello di Sisifo è un altro classico esempio di empietà punita: chi sfida gli dèi viene sempre punito!
Ricordo ancora che lo sguardo di Peter; coincideva con le mie perplessità dovute in parte a ciò che scriveva lo scrittore Albert Camus, secondo il quale Sisifo rappresenta l’umanità, quell’umanità che è sempre in “cammino” nonostante i suoi limiti, nonostante “il macigno rotola ancora”, quel macigno che ognuno di noi, tra le mille avversità della vita, continua malgrado tutto a spingere, contro tutto e tutti (anche gli stessi dèi).
Oggi l’espressione “fatica di Sisifo” è usata per indicare un lavoro inutile che, per l’appunto, richiede grande fatica senza raggiungere risultati. Eh già, perché la pena alla quale Sisifo era stato condannato negli Inferi era quella di spingere per l’eternità un enorme masso su per il pendio di un monte, ma una volta arrivato in cima lo stesso masso rotolava giù e costringeva Sisifo a ricominciare daccapo senza fine.
Ritornato sul terrazzo, guardai il mare di Ulisse e dimenticai di contare i passi, mentre le parole di Camus mi rimbombavano nelle orecchie: “La lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”. Ecco, a me piace guardare a Sisifo così, come l’essere umano, che lotta contro il suo apparente destino, perché è il lottare che nobilita l’uomo, è l’incessante forza che mette nella lotta che lo rende ‘divino’ più della divinità stessa.
Perché il dio cristiano o gli dèi non potranno mai capire la nostra lotta. "La grandezza dell'uomo è nella decisione di essere più forte della sua condizione" Albert Camus.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
Hanno ragione quelli che affermano che stiamo viaggiando su di un’autostrada chiamata ‘fine del dono della libertà’. Ribellarsi è l’unica cosa che può bloccare quei personaggi che pensano di darcela e togliercela a loro piacimento. Di amministrare una Collettività semplicemente mungendo le tette di una vacca d’oro. Questi furbastri andrebbero combattuti.
Ci fosse stata una sola volta, in questi lunghi anni, in cui una Amministrazione abbia provveduto a dare una risposta ad un’infinità di domande delle persone. Una sola risposta completa, esauriente alle esigenze dei cittadini. In tutto questo tempo ho scoperto che a lor signori si può solo chiedere che tempo fà...Prova ne è questo mio breve scritto il cui contenuto è uguale a centinaia di altri disseminati nel territorio di Amantea.
Dal loro zelo ottuso sprezzante e autoritario, non si è avuta, come sempre, nessuna risposta degna di tale nome. Loro hanno sempre dato la medesima risposta, in quasi tre quarti di secolo, fino alla fine da generosi vittime sacrificali che amavano il proprio paese! E attenzione, non si fa qui il solito attacco alla semplice Amministrazione, ma al “sistema di potere” che gestisce questo paese da tempi ormai troppo lontani, senza che nulla cambi.
Credo sia giunto il momento che ogni singolo cittadino di Amantea sappia come stanno le cose realmente. Questi padroni credo che abbiano preso spunto e imparato molto da Gianni Alemanno, quando era sindaco di Roma, uno dei primi amministratori pubblici ad aderire ai salvaciclisti. Ecco alcuni suoi solenni impegni da sindaco relativi ai temi del traffico, delle buche stradali, della ciclabilità. “Bisogna fare un grande sforzo sulla manutenzione delle strade romane. Non ci sono formule magiche, bisogna semplicemente applicarsi ogni santo giorno, prendere a calci chi non fa il proprio dovere”.
Amantea, grazie alla fantasia dei suoi amministratori degli ultimi 70 anni, viene invece trattata a colpi di “cerotti”: un cerotto alla chiesa di San Francesco, uno al vecchio collegio dei Gesuiti, un altro al palazzo Florio, incerottato da oltre 5 anni in pieno centro, uno ancora, più recente su Corso Vittorio Emanuele, un maxi cerottone al porto turistico e alla mancata restituzione al Demanio del bene sottratto dal privato.
A conferma del perché, nella mia terra natia, avere la faccia come il culo significa non conoscere vergogna, fare qualunque cosa senza scrupoli e senza pudore. Non paghi di non conoscere vergogna per quel che hanno fatto col mandato che è stato affidato loro. Storicamente gli Amministratori si sono apprestati a chiudere il proprio regno da farsa con un colpo di mano che a loro è sempre apparso come un capolavoro di sagacia.
Poveracci, poi sono rimasti col culo – pardon, con la faccia – per terra, si saranno voluti garantire delle “cattedre” adeguate alle proprie capacità professionali. Era una scommessa vinta ritrovarli presto ad abbaiare alla luna. Imprecare invano, gridare inutilmente contro qualcuno che era lontano e non poteva, perciò, più sentirli, come le migliaia di Amanteani che, costretti, erano dovuti emigrare.
Una delle rubriche più fortunate del settimanale “Cuore” s'intitolava “Hanno la faccia come il culo”. Poi purtroppo il settimanale satirico fondato da Michele Serra chiuse i battenti: ormai la realtà superava la fantasia. Oggi quella rubrica occuperebbe l'intero giornale, per eccesso di fornitori.
Qualcuno dei benpensanti proverà a precisare che “è sbagliato mettere tutti nello stesso cesto”, perché ci sono “Amministrazioni e Amministrazioni”. Tipo la loro, che ha già provveduto a fare piazza pulita e non è giusto che finisca nel frullatore. Anche i loro portavoce Sparaballe, sotto le bombe, gli accoltellamenti, gli incendi di macchine e ristoranti, si vedeva costretto in giro a invitare i propri concittadini a “non fare di tutta l'erba un fascio”, perché il paese dei suoi mandanti è più virtuoso e “sobrio” di altri paesi calabresi e “da tempo hanno messo in discussione le giostrine affaristiche e corruttive che erano legate ai sottosistemi di potere delle giunte precedenti”.
“Avere la faccia come il culo” (avrei potuto usare “faccia tosta”, ma il termine un po’ volgare rende meglio) è un antico detto che sta per “Non provare vergogna per le proprie azioni scorrette, essere sfrontato, spudorato”!
Molti penseranno che mi sto lanciando nella solita filippica contro i potenti Amanteani che vogliono, con le loro scelte insensate e deleterie, uccidere la millenaria Cittadina. Invece no! I destinatari dei miei insignificanti strali oggi sono altri che, con il loro agire scorretto e subdolo, hanno continuato a rovinare quanto di buono si era ereditato dai secoli scorsi. Cosa c’è di male, direte voi, se viene deturpato un antico paese in nome e per conto della modernità e dell’efficienza? Nulla se la cosa fosse finita lì. Ma la cosa non è finita lì! Bene, bravi e complimenti per il tentativo.
Abbiamo scoperto il vostro sporco e patetico gioco, non riuscite proprio ad immaginare un’azione popolare senza il vostro colore preferito: come direbbero i protagonisti di un film americano, riferendosi al colore dei dollari e non della cacca. Hanno dimostrato, ancora se ce ne fosse bisogno, la loro smisurata voglia di auto appagamento a tutti i costi che niente ha a che vedere con il raggiungimento del bene comune.
Vi ho individuati in alta uniforme presso la chiesa di San Francesco qualche giorno fa, cercando dalla gente il plauso e il consenso per le vostre pecette. Gli Amanteani dovrebbero essere stanchi di certe ed anacronistiche promesse. Eppure, puntualmente, gli Sparaballe dichiarano come balle quelle altrui, mentre frotte di obbedienti ed osannanti fans si radunano nel sentenziare sulle cose “folli” che il sottoscritto va scrivendo. Anche di fronte a tutto questo, schiere genuflesse di seguaci si arrampicano sempre più ripidamente come gechi a nutrirsi e a socializzare l’altrui vomito e per dire: “si padrone”, con la faccia, con l’organo fondamentale, come il culo, per espellere "le scorie" biologiche della società, ma che un po' tutti generalmente si vergognano di mostrare in giro.
Posso solo augurarmi che le persone in grado di intendere e di volere, abbiano capito e compreso che le responsabilità di ciò che accade non sono sempre degli altri.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik