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Per la corte d’assise di Catania, Mamadou Kamara il 30 agosto del 2015 uccise nel corso di una rapina Vincenzo Solano e la moglie Mercedes Ibanez nella loro villetta di Palagonia, in provincia di Catania.

 

La donna fu violentata e gettata dal balcone mentre era ancora in vita.

Ergastolo e 12 mesi di isolamento diurno.

Questa la condanna che la Corte d’assise di Catania ha stabilito nei confronti di Mamadou Kamara, l’ ivoriano accusato di avere ucciso il 30 agosto 2015 nella loro villa di Palagonia per rapina Vincenzo Solano, 68 anni, e sua moglie Mercedes Ibanez, 70,che sarebbe stata anche violentata, prima di essere gettata dal balcone quando ancora in fin di vita.

Accolto la richiesta del procuratore di Caltagirone Giuseppe Verzera secondo cui si trattò di una rapina finita nel sangue, compiuta, secondo l'accusa, dal 20enne all'epoca ospite del Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo.

Alle richieste dell’accusa si erano associati i legali delle parti civili

Le indagini sul duplice omicidio sono state eseguite da personale del commissariato della polizia di Caltagirone e della squadra mobile della Questura di Catania.

“Questa sentenza risponde alle esigenze di giustizia dalla famiglia Solano, ma un soltanto un primo passo. Perché la nostra battaglia continuerà per accertare le responsabilità di chi nel Cara di Mineo ha permesso che l'ivoriano uscisse, nonostante fosse vietato, consentendogli di uccidere due persone”.

Così l’avvocato Francesco Manduca, legale di parte civile, commenta la condanna all’ergastolo di Kamara, che si è sempre proclamato innocente.

L’ivoriano, dopo aver commesso il fatto, era rientrato in bicicletta nel Centro accoglienza richiedenti asilo di Mineo, in cui era ospite, dove era stato bloccato da militari dell’esercito e da un ispettore capo in servizio nel Cara.

“Se non fosse stata per l’attenzione di un caporale dell’esercito – aggiunge il penalista – che quando Kamara è rientrato al Cara di Mineo indossando abiti non suoi e sporchi di sangue non ci sarebbe stato alcun processo.

La famiglia ringrazia gli investigatori, la squadra mobile di Catania e la polizia di Caltagirone, che hanno svolto un grande lavoro.

Ma soprattutto il procuratore di Caltagirone, Giuseppe Verzera, che ha fatto un grande lavoro ed è sempre stato presente in aula e vicino alla famiglia”.

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Vignetta VauroLe stanno provando tutte. Vogliono processare il Ministro degli Interni Sen. Matteo Salvini e mandarlo a marcire nelle patrie galere, perché sta dando troppo fastidio alle anime belle della sinistra italiana e ad alcuni Magistrati e si rifiuta di fare sbarcare nei porti italiani le navi delle ONG cariche di immigrati ripescati in mare. Il Tribunale dei Ministri di Catania ha chiesto l’autorizzazione al Senato per procedere contro Salvini con la pesante, assurda e folle accusa: Sequestro di persone e abuso di potere. Un Ministro che fa il suo dovere, che fa applicare le leggi italiane viene messo sotto accusa come un delinquente comune. Ma in quale nazione siamo costretti a vivere? Ma davvero la nostra amata Italia è una Repubblica delle banane? Non ci vorrei credere eppure i fatti di queste ultime settimane mi danno ragione. Poiché per alcuni giorni la nave italiana Diciotti con 177 migranti a bordo ripescati in mare è stata costretta a rimanere nel porto di Catania e il Ministro Salvini si è opposto di fare scendere i migranti, per questo verrà processato e se venisse condannato dovrebbe finire in galera e mangiare il rancio dei carcerati. E già il vignettista Vauro ha pubblicato una vignetta che ritrae Salvini invitato a provare la divisa da carcerato. Intanto provala, poi si vedrà sembra voler dire il vignettista. Povero Ministro! Ma chi te lo ha fatto fare ad accettare la carica di Ministro degli Interni? Carica prestigiosa, non c’è dubbio. Ma pericolosissima. Hai visto le minacce che sono comparse sui muri di   Milano ? Invitano a non sparare a salve, ma a Salvini. Ti faranno fuori prima o poi con le buone e con le cattive. Hai tolto loro la biada dalla mangiatoia e non te la perdoneranno mai. Appunto per questo ragliano come gli asini e devi morire.

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Una banda di 21 persone è finita agli arresti a Catania, con l’accusa di gestire intere piantagioni di cannabis da spacciare poi in tutta la provincia etnea.

Una storia di ordinario proibizionismo, arricchita dal fatto che tra i membri della banda, composta da almeno 21 persone, ci fossero due poliziotti ed un carabiniere.

L’organizzazione, individuata a partire dalle testimonianze di un pentito di mafia appartenente al clan Nardo, si occupava direttamente della coltivazione e della vendita di cannabis con la quale riforniva il mercato catanese.

Già un anno fa, durante le indagini, la polizia aveva sequestrato circa 2500 piante di marijuana e scoperto un terreno, attiguo a quello coltivato dall’organizzazione, pronto per essere utilizzato.

Le accuse formulate dal Gip nei confronti dei 21 arrestati, in gran parte pregiudicati, sono: associazione a delinquere, coltivazione, produzione, trasporto, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, possesso di armi, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e favoreggiamento personale.

Tra i 21 arrestati figura l’assistente capo della polizia Matteo Oliva, di 46 anni, ritenuto uno dei capi della banda, e il carabiniere Stefano Cianfarani, di 49 anni, indicato come organico al gruppo. I due, indagati anche per corruzione, sono stati condotti in carcere.

Mentre l’assistente capo di polizia Giuseppe Bennardo, di 50 anni, è risultato estraneo alla coltivazione di marijuana, ma posto agli arresti domiciliari per favoreggiamento, in quanto avrebbe cercato di depistare le investigazioni sui colleghi.

Come di consueto i tre appartenenti alle forze dell’ordine sono stati rapidamente bollati come semplici “mele marce” del sistema. «Casi sporadici ed isolati, elementi spuri di un organismo sano ed efficiente che troviamo sempre accanto a noi a collaborare nelle indagini di contrasto alla criminalità», secondo le parole del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro.

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Catania. Arrestati due calabresi che trasportavano 10 chili di hashish su un'auto medica.

Gli arrestati sono Salvatore Ieraci 39 anni, e Mariagrazia Ambrogio, 34 anni, che sono stati fermati al casello autostradale di San Gregorio di Catania

La guardia di finanza di Catania ha sequestrato 10 kg di hashish e ha arrestato 2 corrieri che trasportavano la droga su un'auto medica della "Croce Gialla" di Marina di Gioiosa Ionica (RC).

Gli arrestati sono Salvatore Ieraci 39 anni, e Mariagrazia Ambrogio, 34 anni, che sono stati fermati al casello autostradale di San Gregorio di Catania.

 

I due soggetti, alla guida di un’auto medica con a bordo anche materiale sanitario, sin dalle prime domande di rito poste dai finanzieri, hanno palesato chiari segni di nervosismo.

I corrieri, fermati, sono stati condotti presso gli uffici del nucleo di polizia economico - finanziaria di Catania, dove è stata eseguita la perquisizione personale e del veicolo.

All’interno di un cartone bianco riposto nel bagagliaio dell’autovettura, sono stati rinvenuti 10 panetti, confezionati singolarmente con cellophane, risultati essere, dopo un’analisi speditiva, hashish per un peso complessivo di circa 10 kg.

La sostanza stupefacente sequestrata, destinata presumibilmente al mercato etneo, avrebbe fruttato, nella vendita al dettaglio, circa 100.000 euro.

Informata la Procura della Repubblica di Catania, la coppia è stata tratta in arresto e tradotta presso la casa circondariale di Piazza Lanza a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.

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Catania. Gli inquirenti ricostruiscono la figura di Corrado Labisi, massone e titolare della casa di cura Lucia Mangano, con contatti nel clan Santapaola-Ercolano e, come lui stesso afferma, con il Ministero della Difesa.

A cui avrebbe chiesto di "far saltare le teste degli investigatori", una volta appreso dell'indagine su di lui

L'accusa, secondo la Procura della Repubblica di Catania, è quella di distrazione di fondi regionali per la gestione di un istituto di cura per anziani e disabili, provocando un buco di 10 milioni di euro. Nell'operazione 'Giano Bifronte', che ha portato oggi all'arresto di quattro persone non sono contestati reati legati alla mafia.

Né, tanto meno, l'appartenenza alla massoneria costituisce fattispecie penalmente rilevanti. Ciò non toglie, come spiegano gli inquirenti, che il principale protagonista della vicenda legata alla casa di cura Lucia Mangano, il Gran Maestro Corrado Labisi, abbia mantenuto 'contatti con il pregiudicato Giorgio Cannizzaro, noto esponente della famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano". 

Un dettaglio che gli inquirenti hanno acquisito grazie alle indagini svolte in due grossi procedimenti che hanno indagato il rapporto tra cosche e massoneria: 'Fiori bianchi' e 'Belfagor'.

"La vicinanza tra i due uomini - chiarisce il capo della Dia di Catania, Renato Panvino - è stata anche confermata dalla presenza di Cannizzaro tra le prime file, in chiesa, durante il funerale della madre di Labisi".

A lui, la Procura della Repubblica, contesta oggi il reato di associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita di somme di denaro, in qualità di capo, organizzatore e promotore.

Per lui il gip del Tribunale di Catania ha disposto la custodia cautelare in carcere.

I servizi segreti

Ma non solo.

Gli uomini della Procura della Repubblica, coordinati dal procuratore capo Carmelo Zuccaro, hanno messo in risalto anche i collegamenti che Labisi avrebbe intrattenuto con "esponenti di primissimo piano", anche provenienti dal mondo delle istituzioni.

Tra questi, nel corso delle intercettazioni che hanno confermato i sospetti degli investigatori, compare anche una persona, definita "amico" di Labisi, "appartenente ai servizi segreti e, in particolar modo, al Ministero della Difesa", come spiega il pm Carmelo Zuccaro in conferenza stampa.

Rivolgendosi a quest'ultimo, Labisi, una volta appreso delle indagini sulla casa di cura da lui gestita, avrebbe detto "dobbiamo capire a 360° se c'è qualcuno che deve pagare perché questa è la schifezza fatta a uno che si batte per la legalità...vediamo a chi dobbiamo far saltare la testa".

"Il riferimento - aggiunge il sostituto Fabio Regolo- è chiaro: sta parlando degli inquirenti che indagano su di lui, cercando di capire in che modo intervenire per frenare o, addirittura, bloccare del tutto l'inchiesta". Richiesta alla quale, come spiega ancora il sostituto procuratore, "da parte del soggetto del Ministero non arrivano parole di distacco rispetto alle affermazioni di Labisi". Un'operazione non riuscita, tuttavia, come conferma anche Zuccaro: "Nonostante questa forma di richiesta di interessamento, come potete vedere - afferma il procuratore - gli uomini della Dia hanno avuto pieno mandato dalla Procura per proseguire, arrivando in pochi mesi alla richiesta di misure cautelari".

Il Giano Bifronte

Quello descritto dagli inquirenti è un vero e proprio 'Giano Bifronte' - da qui il nome dell'inchiesta - che "se da un lato si opera per costruirsi un'immagine pulita, quella di un soggetto sostenitore di iniziative per entrare nei salotti istituzionali antimafia - aggiunge Renato Panvino - dall'altra sottrae denaro da fondi regionali destinato ai pazienti della propria casa di cura, speso invece per i fini personali della propria famiglia".

Labisi era infatti anche presidente di un'associazione, intestata anche al giudice ucciso dalla mafia palermitana Rosario Livatino. I premi in denaro che l'associazione prevedeva per  uomini e donne delle istituzioni che, nel corso del proprio lavoro, si sono distinti per il contrasto alle mafie "venivano anche dalle somme distratte dall'Istituto", aggiungono gli investigatori.

L'indagine e la genesi

A dare il 'la' all'operazione, come spiega Fabio Regolo, sono stati degli esposti in Procura da parte di alcuni soggetti "all'esito di un'indagine per bancarotta per distrazione, a danno di altri soggetti".

Da qui sono partiti i magistrati che sono arrivati a scoperchiare un vero e proprio vaso di Pandora, al cui interno hanno trovato "fatti ancora più gravi di quelli denunciati".

Stiamo parlando di operazioni di distrazione dei fondi regionali destinati all'istituto Lucia Mangano - privato con convenzione regionale - per un valore totale di circa 10 milioni di euro. La struttura funzionava insomma come un "bancomat" dal quale la famiglia Labisi, ed in particolar modo Corrado, la moglie Maria Gallo, la figlia Francesca Labisi, ed alcuni collaboratori - Gaetano Consiglio e Giuseppe Cardì - prelevavano denaro per utilizzarlo in modo improprio.

A questi ultimi soggetti la Procura contesta infatti il reato di associazione finalizzata all'appropriazione indebita di somme di denaro, ed il Gip ne ha disposto gli arresti domiciliari.

Così come emerso nel corso delle indagini, il trattamento riservato agli ospiti dell’Istituto “Lucia Mangano”, alla luce delle indebite sottrazioni riscontrate, sarebbe stato di livello accettabile, soltanto grazie all’attività caritatevole del personale, e non certamente per la "illecita gestione della famiglia Labisi".

Infatti, così come testimoniato da qualche dipendente “se fosse dipeso da loro, si continuerebbe a dare (ai pazienti) latte allungato con acqua, maglie di lana e scarpe invernali nel periodo estivo". Gli stretti collaboratori di Labisi, Gaetano Consiglio e Giuseppe Cardì, erano regolarmente assunti nell’istituto con mansioni differenti da quelle effettivamente svolte.

"I due - scrive la Procura - mettevano consapevolmente a disposizione le loro buste paga, dove venivano inserite ad arte voci di costo giustificative delle uscite indebite dell’istituto", un artificio dal quale ottenevano "benefit e premi di produttività per cassa, il cui ammontare variava tra i 500 e 1.500 euro".

L'istituto, come ha spiegato in fine Renato Panvino, ha rischiato la chiusura ed il licenziamento di tutto il personale. 

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Assolti, Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura.

 

 

Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della 126 che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage.

 

Orofino, invece, era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato

Con la strage di via d’Amelio loro non c’entravano nulla.

E adesso c’è anche una sentenza a sostenerlo.

A quasi venticinque anni esatti dal botto che fece strage del giudice Paolo Borsellino la corte d’appello di Catania ha assolto tutti i 9 imputati nel processo di revisione alle condanne emesse a Caltanissetta. Alcune delle sentenze decise dai giudici nisseni erano all’ergastolo.

 

Il processo di revisione è stato chiesto, inizialmente, dalla procura generale di Caltanissetta ed è stato celebrato a Catania, come prevede la legge.

A consentire il nuovo giudizio sono state le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha riscritto tutta la fase esecutiva della strage sbugiardando il falso pentito Vincenzo Scarantino. Assolti dunque, Gaetano Murana, difeso dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, assistito da Giuseppe Scozzola, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura.

Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della 126 che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage.

Le pg di Catania avevano chiesto per tutti la revisione tranne che per Salvatore Tomasello, sostenendo che a suo carico non ci fossero elementi per una valutazione nuova. La corte d’appello, invece, ha assolto anche lui, che però nel frattempo è morto.

Resta per chi ne rispondeva, tranne per Tomasello, la condanna per mafia già abbondantemente scontata da tutti tranne che da Scotto.

Sarà ora la corte d’appello di Caltanissetta a dover rideterminare la pena, passaggio fondamentale per quantificare i risarcimenti dei danni che chi è stato condannato ingiustamente chiederà.

Da risarcire, infatti, saranno solo i danni derivanti dalla ingiusta condanna per strage, visto che quella di mafia è definitiva.

I risarcimenti potranno essere richiesti quando la sentenza di oggi diventerà definitiva.

Alle battute finali del processo di revisione le due procuratrici generali avevano preso la parola per chiedere scusa alle persone condannate ingiustamente a nome delle Istituzioni.

“Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio“.

Un’ammissione di responsabilità, seppure non personale, decisamente inattesa.

Il 20 aprile scorso, invece, si è concluso il quarto grado del processo Borsellino, nato sempre dalle dichiarazioni di Spatuzza.

Condannati all’ergastolo sono stati i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, dieci anni sono stati inflitti ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Prescritto, invece, Vincenzo Scarantino. I giudici, infatti, hanno riconosciuto al picciotto della Guadagna la circostanza attenuante di essere stato indotto a fare le false accuse.

Resta da capire chi sia stato ad indurlo(Da Ilfattoquotidiano)

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I due si erano conosciuti su Internet ed il loro rapporto si era sviluppato prevalentemente online.

 

 

La ragazza era arrivata al punto di pensare al suicidio.
Un 19enne della provincia di Cosenza aveva costretto una 17enne catanese all’invio di foto intime, minacciandola che avrebbe divulgato le immagini se non ne avesse ricevute altre.

 

I due si erano conosciuti su Internet ed il loro rapporto si era sviluppato prevalentemente online.

La ragazza aveva inizialmente ceduto alle lusinghe del giovane e gli aveva inviato una foto osè.

 

Quell’immagine è stata utilizzata come ricatto per ottenerne altre e al rifiuto della minore, il ragazzo avrebbe detto: “Se mi mandi altre foto non la mando in giro”.

Nonostante le minacce, la ragazza aveva resistito, ma era arrivata sul punto di rispondere che si sarebbe tolta la vita.

 

Il padre della vittima, vedendo la figlia in difficoltà, fortunatamente è riuscito a scoprire la vicenda e a denunciare il tutto alla polizia postale di Catania.

Le indagini hanno consentito in tempi piuttosto brevi di identificare l’autore delle minacce e la procura non ha esitato a porre un decreto urgente di perquisizione, nel corso della quale gli investigatori hanno sequestrato lo smartphone e supporti informatici che saranno oggetto di apposita analisi.

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Catania - lobelisco dellelefante

Catania conta poco più di 300.000 abitanti, ma è posta al centro di una conurbazione fra le più popolose d'Italia. La sua città metropolitana registra, infatti, oltre un milione di abitanti.

Fondata nel 729 a.C. da un drappello di Calcidesi, la città etnea vanta una storia millenaria e un patrimonio storico e culturale immenso.

Insieme a Ragusa e ad altri comuni della Val di Noto, il suo centro storico è stato insignito del titolo di Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO, che ne salvaguarda i numerosi tesori barocchi.

La città dell'elefantino si è mostrata più forte delle eruzioni del suo vulcano e dei frequenti terremoti che hanno distrutto parte del suo patrimonio storico, ma che non hanno mai costituito un bavaglio alla crescita e all'identità di questa meravigliosa città.

Per giungere a Catania, è possibile seguire due strade: la prima è quella di arrivare con la propria auto sullo Stretto di Messina ed imbacarsi sul traghetto. La seconda invece, prevede il noleggio auto presso l’aeroporto di Fontanarossa, una volta atterrati presso lo scalo siculo.

Piazza del Duomo

Il cuore pulsante di Catania è costituito da Piazza Duomo, nella quale si erge a padrone indiscusso lo spirito barocco della città, che si esplica soprattutto sulle meravigliose facciate del palazzo del municipio e del Palazzo dei Chierici, nonché della Cattedrale di Sant'Agata, patrona della città.

L'imponente tempio cristiano domina la piazza con la sua facciata a tre ordini completamente realizzata in marmo di Carrara. La cupola posta sulla crociera venne terminata nel 1802 e presenta finestroni che illuminano l'interno. La struttura poggia su un podio al quale si accede tramite una piccola scalinata e dopo aver oltrepassato la recinzione che chiude il sagrato.

Meravigliosa è l'abside dell'altare maggiore, con volta a botte e recante un ciclo di affreschi eseguiti da Giovanni Battista Corradini nella prima metà del 1600. Di fronte alla Cattedrale campeggia il simbolo della città, ovvero il celebre obelisco portato sul dorso dall'elefantino.

Nei pressi della piazza figura anche quella che da molti viene definita la “Fontana di Trevi sicula”, ma che in realtà si chiama Fontana dell'Amenano. L'appellativo che la connota le fu dato in seguito alla radicazione dell'abitudine di lanciare al suo interno monetine bene auguranti. Via

Etnea

Questa strada è l'arteria principale della città, la divide in due e sorge sull'antico cardo. Attraversa le vestigia dell'antica fondazione per poi raggiungere Villa Bellini, ovvero il meraviglioso parco cittadino, ricco di statue, sculture e vialetti ottocenteschi calati in uno splendido ambiente naturale.

Via Etnea è ricca di palazzi barocchi che vi si affacciano e lungo il suo percorso si contano ben sette chiese, che si alternano ai numerosi locali e ristoranti che riempiono le serate dei catanesi e dei turisti interessati a scoprire le meraviglie di questa città. Via Etnea è stata recentemente pavimentata, nonché pedonalizzata per un lungo tratto compreso fra Piazza Duomo e l'incrocio denominato i “Quattro Canti”.

San Giovanni li Cuti

Fra i più pittoreschi borghi marinari di Catania spicca certamente San Giovanni Li Cuti, con il suo antico porticciolo e le case basse e colorate dei pescatori. Fra le attrazioni di questo caratteristico angolo della città, spicca la folta presenza di ristoranti specializzati nella preparazione del pesce. Le luci della sera, inoltre, trasformano quest'angolo di paradiso in una sorta di paesaggio fiabesco sul pelo dell'acqua.

Il castello Ursino

Fondato da Federico II di Svevia nella prima metà del 1200, l'edificio ebbe grande rilevanza durante il periodo dei Vespri siciliani in quanto sede del parlamento ed in seguito come residenza dei sovrani aragonesi. All'interno del castello, oggi, è stato fondato il museo civico. La pianta quadrangolare presenta quattro torri di guardia principali di forma circolare, alte circa trenta metri ognuna.

Notevole la raccolta del museo, con sculture, mosaici e frammenti decorativi di età ellenistica e romana.

Per deliziare il palato, non dimenticate di assaggiare i prodotti tipici siciliani, come gli arancini, lo sfincione, le gustosissime granite e una bella fetta di cassata siciliana.

Pubblicato in Mondo

Tutto nasce dalla legge siciliana che prevede il rimborso degli stipendi percepiti dai consiglieri provinciali.

Inizialmente l'avviso a comparire era stato inviato a Antonio Rizzo (Pd), Maurizio Tagliaferro (Mpa), Consolato Aiosa (Mpa), Gianluca Cannavò (Pdl), Sebastiano Cutuli (Gruppo misto), Antonio Danubio (Udc),

La Procura però successivamente chiese l'archiviazione delle posizioni di Rizzo, Aiosa e Tagliaferro e dei rispettivi datori di lavoro.

Rimasero quindi soltanto Gianluca Cannavò (Pdl), Sebastiano Cutuli (Gruppo misto), Antonio Danubio (Udc),

Al centro dell'inchiesta le indagini delle Fiamme gialle su rimborsi ottenuti indebitamente dall'Ente attraverso la simulazione del rapporto di lavoro o la falsa attestazione di mansioni e retribuzioni superiori a quelle effettivamente godute.

Secondo le indagini avrebbero ottenuto indebiti rimborsi dalla Provincia di Catania attraverso la simulazione del rapporto di lavoro o la falsa attestazione di mansioni e retribuzioni superiori a quelle effettivamente godute.

Ora sono stati sequestrati beni complessivi per circa mezzo milione di euro ai tre consiglieri della Provincia di Catania ed indagati dalla competente Procura della Repubblica di Catania che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per il reato di truffa aggravata e falso

A seguito di provvedimento del GIP di Cataniaa i militari del nucleo di polizia tributaria della GDF hanno sequestrato 240mila euro di beni all'ex consigliere Gianluca Cannavò e dei suoi familiari; 71mila euro all'ex consigliere Sebastiano Cutuli e al suo datore di lavoro Carmelo Urso; e 171mila euro all'ex consigliere Antonio Danubio e al suo datore di lavoro Salvatore Nigita.

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