Di Pietro è sceso nella vera capitale della Calabria, a Lamezia Terme, dove ha tenuto una conferenza stampa nella quale ha annunciato la “rinascita” di IDV e la sua presentazione alle prossime europee.
“Idv, con umiltà ma con tanta determinazione , ripropone e si ripropone in un'alleanza di centrosinistra per dare un programma unitario a questo Paese perché le larghe intese hanno dimostrato che servono soltanto per mantenere al potere delle persone con il principio del veto».
Non solo ma ha anche affermato che «Con Idv si può tornare a governare per fare il bene dei cittadini e non l'interesse di pochi».
Insomma IDV come Garibaldi parte dal sud.
Similmente a Garibaldi ha il rosso non sulle camicie ma nel posizionamento politico.
Diversamente da Garibaldi non è venuto con vascelli ma ha usato l’aereo.
Diversamente da Garibaldi non ha i “mille” ma pochissimi amici.
Diversamente da Garibaldi che dopo il successo si è dato all’agricoltura, Di Pietro si è dato all’agricoltura dopo la solenne bocciatura alle politiche (per via del fatale sostegno al progetto politico di Antonio Ingroia, altro ex magistrato).
Ma lui dice che non va bene.
“Ho appena finito la vendemmia – dice il protagonista della stagione di “Mani pulite” – poi farò l’olio, ho gli animali. Ma il problema è che devo vendere a prezzi troppo bassi. Per esempio l’olio a 4,7 euro al chilo e non conviene per via del sistema della distribuzione: bisogna cambiarlo”.
Che non si presenti per questo, cioè per cambiare il sistema di distribuzione dell’olio?
No! Non sembra, sembra, al contrario, che intenda fare politica sul serio, intanto affermando che : “È finito il tempo di Berlusconi, di Bossi, di Di Pietro, dell’uomo al comando. Oggi dobbiamo dare spazio ai giovani. Chi ha un po’ di esperienza nel suo campo può dare una mano: io avendo fatto il magistrato c’azzecco sulla giustizia, oppure su cosa vuol dire rilanciare la piccola e media impresa per quanto riguarda l’agricoltura e gli agriturismo. Ma dobbiamo metterci al servizio. Non pensare di prendere voti perché siamo belli. Capito?”.
Che avrà voluto dire?
Come fa a possedere beni per un valore di 300 milioni di euro se dichiara un reddito annuo di 4 euro?
Da qui la corretta supposizione che si tratti di beni che anche in parte derivino da attività delittuose. Salvo che non ci si trovi di fronte ad una evasione fiscale continuata e molto rilevante.
E stamani i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Venezia hanno sequestrato oggi l'intero patrimonio immobiliare e mobiliare, come detto per un valore di 300 milioni di euro, ad un settantenne di Bussolengo (Verona).
Il settantenne era stato già denunciato nel novembre 2011 per l'omessa dichiarazione di ingenti capitali detenuti all'estero e per non aver assolto le imposte dovute sulla vendita di 180 ettari di terreno sul litorale di Eraclea (Venezia).
L'uomo, infatti, aveva dichiarato 4 euro di reddito all'anno, ma possedeva terreni, società e immobili per oltre 300 milioni.
Il tribunale di Verona è giunto alla conclusione di “ qualificare l'imprenditore come persona che, «per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»
tenendo conto non solo dell'evasione fiscale constatata nel 2011, ma prendendo in considerazione anche i risultati di alcune inchieste nelle quali l'imprenditore scaligero era stato coinvolto in passato: si tratta, in particolare, di procedimenti penali, negli anni Novanta, per corruzione e truffa ai danni dello Stato.
In tutti questi anni, l'indagato aveva accumulato un patrimonio immenso, addirittura inimmaginabile se si tiene conto, soprattutto, delle ultime tre dichiarazioni fiscali presentate, nelle quali veniva indicato, in media, un reddito annuo di 4 euro.
Il tribunale di Verona pertanto, accogliendo le proposte della procura scaligera, ha disposto il sequestro di tutti i beni dell'uomo e del suo nucleo familiare: 9 società, oltre 2.350.000 mq di terreni nelle province di Verona, Gorizia, Belluno e Brescia, 18 unità immobiliari e 7 autoveicoli, per un valore complessivo stimabile in circa 300 milioni di euro. Adesso, il settantenne dovrà dimostrare la legittima provenienza del suo patrimonio. Se non riuscirà a farlo, tutti i beni oggi sottoposti a sequestro potranno essere confiscati e acquisiti da parte dello Stato.
Giovanni Ladu, 57 anni, cagliaritano di origini ma residente da tempo a Novara, si era spacciato per un ufficiale di Gladio con lo pseudonimo di Oscar Puddu e accusato le istituzioni di sapere dove fosse nascosto l’ex presidente della Dc e di non aver fatto nulla.
Ecco cosa ha detto il brigadiere Ladu, nel 2008 a Imposimato
“Se è vero che a ucciderlo, materialmente, furono le Br, è altrettanto vero che numerosi angoli scuri costellano la vicenda che vide, il 9 maggio del 1978, morire il presidente della Democrazia Cristiana, amico-nemico di Enrico Berlinguer e quindi pericolosissimo per la stabilità d’Italia.
Le ombre al riguardo sono sempre state tante, incombenti e, soprattutto, impenetrabili. Dal rapimento in via Fani, fino al ritrovamento del corpo nella Renault Rossa in via Caetani, i 55 giorni di prigionia del politico sono tinti da colori cupi e grigi, in cui non è possibile riconoscere con facilità innocenti e colpevoli.
Per trentacinque anni, i misteri si sono accavallati. Depistaggi e menzogne hanno contribuito a mascherare ulteriormente la verità, farla sprofondare negli abissi, confondendo tanto le acque da far sì che molti elementi fondamentali venissero persi di vista. Proprio quelli che la procura di Roma adesso sta cercando di far riemergere, ripescando dal passato e accogliendo l’esposto di Ferdinando Imposimato, tra i magistrati che già nel ’78 avevano indagato sull’omicidio di Moro.
Oggi Imposimato è presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione e, dalla sua posizione, ha richiesto che venisse riaperto il fascicolo su uno dei delitti più controversi della storia del nostro paese. In base a cosa? A prove sconcertanti, secondo cui la prigione del democristiano, in via Montalcini 8 a Roma, era stata scovata dai servizi segreti e da Gladio settimane prima che il politico venisse ucciso. Non solo: fu tenuta sotto controllo, monitorata, in attesa di un blitz che, però, non avvenne mai. Anche se era già tutto pronto: l’8 maggio, le teste di cuoio sarebbero dovute irrompere all’interno dell’appartamento in cui si nascondevano i brigatisti e liberare Aldo Moro. Il piano di salvataggio era studiato nei minimi dettagli e le probabilità di successo altissime. Una telefonata dal Viminale, però, bloccò il tutto, all’ultimo. E, il giorno successivo, Moro venne ucciso.
E’ una pista, questa, più che inquietante, che, se accertata, rimescolerebbe totalmente le carte in tavola e forse riuscirebbe ad offrire la verità definitiva che da decenni si cerca. Ma è anche, proprio per la sua importanza, una strada pericolosa e scottante, che Imposimato ha imboccato grazie alle testimonianze di un brigadiere sardo della Guardia di Finanza, Giovanni Ladu. L’uomo, che nel 1978 era di leva nel corpo dei bersaglieri, ha dichiarato di essere stato testimone della scelta che condannò a morte Aldo Moro. Inoltre, quando conobbe l’avvocato Imposimato, nel 2008, gli confidò di essere stato tra coloro che, nei giorni di prigionia del presidente della Dc, si trovavano a Roma a sorvegliare l’appartamento-prigione.
In quel periodo, Ladu visse in via Montalcini, assieme alla sua squadra, a pochi metri dal covo delle Br. Il compito dei militari di cui il brigadiere faceva parte era monitorare la situazione 24 ore su 24, e così fu: non solo un controllo visivo continuo; i militari si avvalevano di microtelecamere nascoste nei lampioni della via e di microfoni installati nell’alloggio sopra la prigione di Moro. Passavano in rassegna la spazzatura nei cassonetti e si adoperavano in perlustrazioni, vestiti da netturbini od operai. Nei giorni che trascorsero dal suo arrivo a Roma, il 24 aprile, fino all’8 maggio, Ladu -il cui nome in codice era Archimede- imparò a conoscere i brigatisti, le loro abitudini, i loro comportamenti.
Ladu conobbe anche altri protagonisti della vicenda, fin’ora non citati, come agenti segreti stranieri. Il brigadiere aveva notato, infatti, che il personale addetto alle intercettazioni delle comunicazioni era anglofono. Erano 007 di altri paesi, coordinati da quelli italiani, giunti a Roma per salvare il democristiano, l’8 maggio.
Per quel giorno era stato studiato tutto nei minimi dettagli: era stato predisposto un piano di evacuazione per gli abitanti della palazzina in cui era rinchiuso Moro e montata unatenda-ospedale nei pressi della via, nel caso in cui, durante il blitz ormai già predisposto, vi fossero feriti. Giunsero le teste di cuoio e i corpi militari erano in fibrillazione. Ma, alla vigilia dell’irruzione, accadde l’imprevisto: a Ladu e ai suoi compagni venne comunicato di fare i bagagli e lasciare Roma, assieme ai corpi speciali e gli agenti segreti. Erano ordini e bisognava rispettarli, soprattutto in quanto arrivavano dal Viminale. Il giorno successivo, il 9 maggio, Moro venne trovato senza vita. A tutti i militari coinvolti venne data la consegna del silenzio e il vincolo al segreto. Ma la coscienza, talvolta, è più forte, e Ladu, alla fine, ha deciso di parlare.
Da http://leorugens.wordpress.com/2013/06/30/7692/
Rettifica
Leorugens ci chiede di chiarire, cosa che facciamo subito, che l'articolo da noi postato e tratto integralmente da http://leorugens.wordpress.com/2013/06/30/7692/ era a sua volta stato tratto da http://www.articolotre.com/2013/06/moro-poteva-essere-salvato-il-brigadiere-ladu-racconta-la-sua-verita/182810