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Come fa a possedere beni per un valore di 300 milioni di euro se dichiara un reddito annuo di 4 euro?

Da qui la corretta supposizione che si tratti di beni che anche in parte derivino da attività delittuose. Salvo che non ci si trovi di fronte ad una evasione fiscale continuata e molto rilevante.

E stamani i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Venezia hanno sequestrato oggi l'intero patrimonio immobiliare e mobiliare, come detto per un valore di 300 milioni di euro, ad un settantenne di Bussolengo (Verona).

Il settantenne era stato già denunciato nel novembre 2011 per l'omessa dichiarazione di ingenti capitali detenuti all'estero e per non aver assolto le imposte dovute sulla vendita di 180 ettari di terreno sul litorale di Eraclea (Venezia).

L'uomo, infatti, aveva dichiarato 4 euro di reddito all'anno, ma possedeva terreni, società e immobili per oltre 300 milioni.

Il tribunale di Verona è giunto alla conclusione di “ qualificare l'imprenditore come persona che, «per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»

tenendo conto non solo dell'evasione fiscale constatata nel 2011, ma prendendo in considerazione anche i risultati di alcune inchieste nelle quali l'imprenditore scaligero era stato coinvolto in passato: si tratta, in particolare, di procedimenti penali, negli anni Novanta, per corruzione e truffa ai danni dello Stato.

In tutti questi anni, l'indagato aveva accumulato un patrimonio immenso, addirittura inimmaginabile se si tiene conto, soprattutto, delle ultime tre dichiarazioni fiscali presentate, nelle quali veniva indicato, in media, un reddito annuo di 4 euro.

Il tribunale di Verona pertanto, accogliendo le proposte della procura scaligera, ha disposto il sequestro di tutti i beni dell'uomo e del suo nucleo familiare: 9 società, oltre 2.350.000 mq di terreni nelle province di Verona, Gorizia, Belluno e Brescia, 18 unità immobiliari e 7 autoveicoli, per un valore complessivo stimabile in circa 300 milioni di euro. Adesso, il settantenne dovrà dimostrare la legittima provenienza del suo patrimonio. Se non riuscirà a farlo, tutti i beni oggi sottoposti a sequestro potranno essere confiscati e acquisiti da parte dello Stato.

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Giovanni Ladu, 57 anni, cagliaritano di origini ma residente da tempo a Novara, si era spacciato per un ufficiale di Gladio con lo pseudonimo di Oscar Puddu e accusato le istituzioni di sapere dove fosse nascosto l’ex presidente della Dc e di non aver fatto nulla.

Ecco cosa ha detto il brigadiere Ladu, nel 2008 a Imposimato

“Se è vero che a ucciderlo, materialmente, furono le Br, è altrettanto vero che numerosi angoli scuri costellano la vicenda che vide, il 9 maggio del 1978, morire il presidente della Democrazia Cristiana, amico-nemico di Enrico Berlinguer e quindi pericolosissimo per la stabilità d’Italia.

Le ombre al riguardo sono sempre state tante, incombenti e, soprattutto, impenetrabili. Dal rapimento in via Fani, fino al ritrovamento del corpo nella Renault Rossa in via Caetani, i 55 giorni di prigionia del politico sono tinti da colori cupi e grigi, in cui non è possibile riconoscere con facilità innocenti e colpevoli.

Per trentacinque anni, i misteri si sono accavallati. Depistaggi e menzogne hanno contribuito a mascherare ulteriormente la verità, farla sprofondare negli abissi, confondendo tanto le acque da far sì che molti elementi fondamentali venissero persi di vista. Proprio quelli che la procura di Roma adesso sta cercando di far riemergere, ripescando dal passato e accogliendo l’esposto di Ferdinando Imposimato, tra i magistrati che già nel ’78 avevano indagato sull’omicidio di Moro.

Oggi Imposimato è presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione e, dalla sua posizione, ha richiesto che venisse riaperto il fascicolo su uno dei delitti più controversi della storia del nostro paese. In base a cosa? A prove sconcertanti, secondo cui la prigione del democristiano, in via Montalcini 8 a Roma, era stata scovata dai servizi segreti e da Gladio settimane prima che il politico venisse ucciso. Non solo: fu tenuta sotto controllo, monitorata, in attesa di un blitz che, però, non avvenne mai. Anche se era già tutto pronto: l’8 maggio, le teste di cuoio sarebbero dovute irrompere all’interno dell’appartamento in cui si nascondevano i brigatisti e liberare Aldo Moro. Il piano di salvataggio era studiato nei minimi dettagli e le probabilità di successo altissime. Una telefonata dal Viminale, però, bloccò il tutto, all’ultimo. E, il giorno successivo, Moro venne ucciso.

E’ una pista, questa, più che inquietante, che, se accertata, rimescolerebbe totalmente le carte in tavola e forse riuscirebbe ad offrire la verità definitiva che da decenni si cerca. Ma è anche, proprio per la sua importanza, una strada pericolosa e scottante, che Imposimato ha imboccato grazie alle testimonianze di un brigadiere sardo della Guardia di Finanza, Giovanni Ladu. L’uomo, che nel 1978 era di leva nel corpo dei bersaglieri, ha dichiarato di essere stato testimone della scelta che condannò a morte Aldo Moro. Inoltre, quando conobbe l’avvocato Imposimato, nel 2008, gli confidò di essere stato tra coloro che, nei giorni di prigionia del presidente della Dc, si trovavano a Roma a sorvegliare l’appartamento-prigione.

In quel periodo, Ladu visse in via Montalcini, assieme alla sua squadra, a pochi metri dal covo delle Br. Il compito dei militari di cui il brigadiere faceva parte era monitorare la situazione 24 ore su 24, e così fu: non solo un controllo visivo continuo; i militari si avvalevano di microtelecamere nascoste nei lampioni della via e di microfoni installati nell’alloggio sopra la prigione di Moro. Passavano in rassegna la spazzatura nei cassonetti e si adoperavano in perlustrazioni, vestiti da netturbini od operai. Nei giorni che trascorsero dal suo arrivo a Roma, il 24 aprile, fino all’8 maggio, Ladu -il cui nome in codice era Archimede- imparò a conoscere i brigatisti, le loro abitudini, i loro comportamenti.

Ladu conobbe anche altri protagonisti della vicenda, fin’ora non citati, come agenti segreti stranieri. Il brigadiere aveva notato, infatti, che il personale addetto alle intercettazioni delle comunicazioni era anglofono. Erano 007 di altri paesi, coordinati da quelli italiani, giunti a Roma per salvare il democristiano, l’8 maggio.

Per quel giorno era stato studiato tutto nei minimi dettagli: era stato predisposto un piano di evacuazione per gli abitanti della palazzina in cui era rinchiuso Moro e montata unatenda-ospedale nei pressi della via, nel caso in cui, durante il blitz ormai già predisposto, vi fossero feriti. Giunsero le teste di cuoio e i corpi militari erano in fibrillazione. Ma, alla vigilia dell’irruzione, accadde l’imprevisto: a Ladu e ai suoi compagni venne comunicato di fare i bagagli e lasciare Roma, assieme ai corpi speciali e gli agenti segreti. Erano ordini e bisognava rispettarli, soprattutto in quanto arrivavano dal Viminale. Il giorno successivo, il 9 maggio, Moro venne trovato senza vita. A tutti i militari coinvolti venne data la consegna del silenzio e il vincolo al segreto. Ma la coscienza, talvolta, è più forte, e Ladu, alla fine, ha deciso di parlare.

Da http://leorugens.wordpress.com/2013/06/30/7692/

Rettifica

Leorugens ci chiede di chiarire, cosa che facciamo subito,  che l'articolo da noi postato e tratto integralmente da http://leorugens.wordpress.com/2013/06/30/7692/ era a sua volta stato tratto da http://www.articolotre.com/2013/06/moro-poteva-essere-salvato-il-brigadiere-ladu-racconta-la-sua-verita/182810

 

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Basilicata. Fabio Amendolara (nella foto) scrive per la «Gazzetta del Mezzogiorno»

In un articolo del 23 ottobre scorso, intitolato Pulizie al «San Carlo»,racconta che la Kuadra srl a cui sono state appaltate le pulizie dell’ospedale di Potenza al momento lavori senza certificati antimafia.

Sarebbero stati chiesti da Patrizia Vinci ,direttore dell’ufficio provveditorato ed Economato del San Carlo, alle prefetture di Genova, dove la società ha la sua sede legale, prima, e poi Napoli , ma, inutilmente almeno finora, senza risposta.

E così il 28 ottobre è stato interrogato dalla Direzione distrettuale antimafia sulle sue fonti informative.

Fabio Amendolara ha opposto il segreto professionale

Amendolara ad «Ossigeno», che si è già occupato di lui nel 2012, raccontando vari episodi di perquisizioni, intercettazioni e richiesta di rivelazione delle fonti ,ha risposto :“Se dovessi finire nel registro degli indagati avrei a disposizione l’avvocato del giornale”.

Ma perché mai dovrebbe finire sotto inchiesta? Gli italiani vogliono sapere se le notizie diffuse siano o meno vere.

Il problema è che Amendolara ha scritto che “La Kuadra è finita sotto la lente delle Procure di Potenza e di Napoli per alcune assunzioni di parenti o di persone vicine a pregiudicati di Potenza”, assunzioni che “sarebbero state decise da un dirigente potentino” “che viene indicato da polizia e carabinieri come «factotum» della ditta”.

Amendolara ha ricevuto messaggi ufficiali di solidarietà dall’Ordine dei giornalisti della Basilicata il cui presidente Domenico Sammartino ha dichiarato: “L’Ordine dei giornalisti di Basilicata ribadisce l’intangibilità del diritto di cronaca e auspica che gli altri poteri, a partire dalla magistratura, rispettino la piena libertà del suo esercizio quale metro di misura della democrazia del nostro Paese”

Solidarietà anche dall’Assostampa pugliese il cu presidente Raffaele Lorusso ha dichiarato. “La richiesta di rivelazione delle fonti di una notizia, sia pure nell’ambito di un’indagine giudiziaria delicata come quella che sta seguendo il collega Amendolara, è sempre irricevibile e va respinta”

Per quel poco che può contare porgiamo ad Amendolara anche la nostra.

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