Scrive Giancarlo Pittelli già parlamentare di Fi e Pdl:
“La Sesta Sezione della Corte di Cassazione (notoriamente composta da magistrati collegati da vincoli affaristico-massonici a quei “ poteri forti” responsabili della prematura e traumatica fine della luminosa carriera del magistrato Luigi De Magistris) hanno sancito che l’inchiesta Why Not, ab imis fundamentis, era una vera e propria bufala costruita sul nulla, che meritava la demolizione da parte dell’ ottimo Giudice di merito Abigaille Mellace il cui divisamento è stato oggetto di ripetuti e lusinghieri apprezzamenti da parte del Procuratore Generale d’udienza.
Non avevo dubbi sull’esito finale della vicenda per coloro i quali, da Peppino Chiaravalloti ad Agazio Loiero ed a tutti gli altri, sono stati inopinatamente sottoposti alla gogna del processo.
Si chiude così una delle tante vicende servite soltanto a rendere notorietà all’attuale “Re Travicello” di Napoli (l’appellativo è di Marco De Marco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) ed a consentirgli il comodo ed insperato approdo all’agognato proscenio politico nazionale attraverso una scientifica pianificazione della mistificazione, del contrabbando di un’immagine del tutto falsa.
Il prezzo dell’effimero successo conquistato da costui è stato altissimo. Basta volgere lo sguardo alla storia della Catanzaro degli anni dal ’94 al 2007: carriere stroncate, onorabilità distrutte, vite personali e familiari disintegrate, personaggi integerrimi raggiunti dal sospetto attoniti ed incapaci di sopportarne il peso schiacciante.
La fine di “Why Not”, intitolazione che richiama alla mente il gusto di una tragica scommessa, mi induce ad alcune riflessioni.
C’è da chiedersi perché e come tutto ciò sia potuto accadere: come un qualsiasi magistrato del pubblico ministero, al quale la Costituzione e le disposizioni ordinamentali e processuali attribuiscono un potere così ampio ed assoluto sul presupposto di una sua corretta utilizzazione, sia riuscito ad imbastire decine di inchieste penali prive di qualunque fondamento, ad usare la polizia giudiziaria per finalità diverse da quelle istituzionali, a costruire, con la complicità di consulenti informatici e bancari, prove inesistenti in uno con la gestione mediatica del proprio martirio.
E’ presto detto in ragione, prima di tutto, di una considerazione di ordine generale sull’abnormità del potere attribuito ai pubblici ministeri in assenza di qualsivoglia tipo di controllo sul rispetto effettivo del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Mi spiego.
Il principio costituzionale è affidato alla gestione del singolo magistrato inquirente che, di fatto, è libero di scegliere quali fatti illeciti perseguire e quali relegare nel dimenticatoio in vista della spugna prescrizionale. E nessuno conoscerà mai il criterio selettivo che avrà guidato il pubblico ministero nell’atto di scegliere l’indagine alla quale dare privilegiato impulso accantonando, nel contempo, altre – e magari più serie e fondate – vicende meritevoli d’approfondimento investigativo.
Si tratta di una distorsione del sistema che consente di fatto all’inquirente di scegliere – ed in ciò consiste l’aspetto paradossale – l’inchiesta più vantaggiosa per le sue ambizioni, siano esse di carriera o, come è accaduto a Catanzaro, di visibilità mediatica e, dunque, politica.
Tutto ciò in assenza di qualsivoglia tipo di controllo, interno od esterno che sia.
La vicenda catanzarese, a parte l’aspetto di ordine generale, è stata caratterizzata da una serie di “errori” clamorosi compiuti da quanti, in assoluta buona fede e nel fedele rispetto dei principi di diritto processuale penale, hanno ritenuto, attraverso doverose decisioni, di esercitare imprescindibili prerogative.
Intendo riferirmi al compianto Mariano Lombardi, Procuratore Capo – galantuomo ed amico caro e leale, finito anch’egli nel mirino del suo sostituto e dei suoi compiacenti fiancheggiatori – ed ai vertici della Procura Generale presso la Corte d’Appello. Tutti fedeli custodi della legge, rigorosi interpreti dell’altezza dei rispettivi ruoli e funzioni.
Ebbene, costoro hanno applicato la legge nel revocare, il primo, l’assegnazione a De Magistris dell’indagine “Poseidone” e nell’avocare, gli altri, l’inchiesta “Why Not” miserevolmente naufragata proprio ieri sotto i colpi di maglio dei giudici di legittimità. Non hanno sicuramente agito contro i principi e ciò è stato ribadito, senza equivoci, dalla Cassazione e dal CSM.
Ma nell’applicare la legge dello Stato costoro hanno inconsapevolmente fornito al De Magistris un formidabile alibi, una straordinaria “via di fuga” (commodus discessus) rispetto ad ineludibili responsabilità che, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare in prima persona con conseguenze devastanti per la sua immagine e per la sua carriera. Hanno agito senza prevedere quali conseguenze i loro atti avrebbero provocato. Ritenevano di trovarsi davanti alle mere “irregolarità” di un qualsiasi normale sostituto e non già al cospetto di chi aveva già provveduto alla pianificazione di un preciso disegno!
Rivendico un triste primato: allorquando ricevetti il “bigliettino augurale” a firma dell’odierno cadente sindaco di Napoli (meravigliosa città dalla quale dovrà ben presto fuggire inseguito da folle inferocite se non anche da forze di polizia- a tutela della sua incolumità, s’intende! -) capii subito il “gioco” del Nostro e, nel corso della mia conferenza stampa del 30 marzo 2007, appreso del fatto che il Procuratore Lombardi gli aveva “tolto” la gestione dell’indagine “Poseidone”, dissi senza mezzi termini che l’atto si traduceva in un vantaggio straordinario per De Magistris che avrebbe svestito immediatamente i panni dell’impostore per assumere quelli del martire. Chiunque può verificare il contenuto delle mie dichiarazioni e del mio solenne impegno, nei confronti della comunità tutta, a contribuire al disvelamento della verità sull’intera vicenda.
Avevo ragione.
Gli atti conformi alla legge con i quali gli venivano revocate od avocate le deleghe d’indagine di Poseidone e Why Not, rappresentavano il migliore viatico per l’ascesa verso la bramata notorietà (fino a quel momento rimasta reclusa nel ristretto ambito cittadino), il trampolino dal quale spiccare il volo verso le poltrone del potere mediatico e politico. Proprio come era accaduto al suo amico Di Pietro!
Quegli atti hanno fatto sì che non dovesse affrontare le verifiche della giurisdizione sul suo operato, che non dovesse subire la vergogna delle bocciature nelle pubbliche udienze che avrebbe dovuto ineluttabilmente affrontare.
Avrei voluto assistere al balbettio di immaginari e sconnessi teoremi, al confronto sulle prove, all’espressione di tesi giuridiche tratte da personali e segrete pandette.
Avrei voluto che fosse costretto ad impattare, munito di quel bagaglio culturale e tecnico-giuridico di straordinaria pochezza che ha dimostrato di possedere, contro lo spesso muro della moralità e dell’onestà intellettuale di quanti, in ragione del suo agire, hanno sofferto e pagato. Talvolta anche con la vita.