Nel 2013, otto anni fa, una donna madre di un bambino piccolo, certamente inesperta e non una ladra di professione perché nel rubare un paio di pantofole di un negozio di Palermo non rimuove neppure l’antitaccheggio, per la prima volta in vita sua si allontana da un negozio con la merce nella borsa senza prima passare dalla cassa. Il padrone se ne accorge, viene fermata e chiama i Carabinieri. Le pantofole rubate avevano un valore di 19,99 euro. Pochi euro, per la verità. Ma la donna aveva commesso un reato anche se il valore della merce era esiguo. Per la legge la donna aveva commesso un reato e quindi doveva essere punita. La legge è uguale per tutti, c’è scritto nelle nostre aule dei Tribunali. Il proprietario poteva chiudere un occhio, poteva farne a meno di avvertire le Forze dell’ordine. Anche perché la donna si era subito pentita. Aveva ammesso il furto e in lacrime si era dichiarata pronta a pagare i 19,90 euro. Niente da fare. E’ stata denunciata e portata in giudizio. Chi ruba dovrà essere punito. Infatti la donna è stata condannata a 50 euro di multa e a un mese di reclusione. Dopo due processi, però, e dopo otto lunghi anni, la sentenza è stata definitivamente ribaltata per la tenuità del fatto. Io che non ho compreso il significato di tenuità mi sono preso la briga di andare a consultare il Dizionario della Lingua Italiana e così ho finalmente capito che il reato commesso dalla signora era tenue, lieve. Non si doveva condannare una persona solo per aver commesso un furto di appena quattro soldi. Quanti anni ci sono voluti per avere una condanna o una assoluzione definitiva per il furto commesso? Nelle altre parti del mondo e nei paesi civili pochi mesi direi. In Italia, invece, otto anni. Quattro anni di indagini, colloqui, verbali, udienze e quattro anni di processi impiegando ore ore nelle cancellerie dei Tribunali con lo sperpero del pubblico denaro. Per punire un ladro incallito? Un delinquente? Un camorrista? Uno spacciatore di droga? No, per un paio di pantofole rubate del valore di appena 19,99 euro. Le spese giudiziarie ammontano a circa 3.000 euro, senza contare le ore perse che sarebbero potuto servire per affrontare altri processi molto più importanti e più gravi. Chi le paga? Noi contribuenti, evidentemente. Processo che si poteva evitare, perché, come abbiamo visto, la donna era incensurata, inesperta, in lacrime aveva restituita la refurtiva e si era dichiarata pronta a pagare. La storia che vi ho raccontato, miei lettori carissimi, è apparentemente banale, ma finisce per rivelarsi invece emblematica, come riferisce Palermo Today, “per comprendere certi cortocircuiti della giustizia, che sembra accanirsi sui più deboli e arrovellarsi su questioni irrilevanti in un contesto di cronico intasamento dei tribunali”.