C'è un legame fra la sofferenza della terra calabrese e la sofferenza della sua gente che ha subito modificazioni o cancellazione delle tracce mnemoniche dovute, solo in parte, al passare del tempo.
La leggenda narra che il suo creatore volle il mare sempre turchese, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, i suoi raccolti pingui, l’acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante. Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro il suo artefice fu preso da una dolce sonnolenza, forse perché compiaciuto della sua opera.
Del suo breve sonno approfittò un essere demoniaco che assegnò a questa regione le avversità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, la N’drangheta, la vendetta, l’omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione.
Dopo le calamità, le necessità: il lavoro, la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno di giustizia, il bisogno di libertà, il bisogno della grandezza, che ogni tanto germoglia in alcuni suoi figli; il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. Il bisogno di esser fieri dei propri antenati.
La Calabria è stata in passato meta di viaggiatori stranieri che l’hanno raccontata a modo loro nei propri diari di viaggio, offrendo però quasi sempre una visione nuova della Regione, cogliendo sfumature che forse solo un forestiero avrebbe potuto notare. I viaggi in Calabria, un tempo, non erano certo frequenti come oggi, quando ormai diverse zone sono regolarmente prese d’assalto dal turismo di massa.
Altri tempi quando all’inizio del XX secolo l’anglo tedesco Norman Douglas l’attraversò a piedi da nord a sud. Giunto sul massiccio del Pollino scrisse “queste stupende montagne sembrano fondersi, al tramonto, in una nebbia di ametista”. Circa cinquant’anni più tardi una poetessa polacca meno nota, Kazimiera Alberti, dedica a questa Terra un libro dal titolo: “L’Anima della Calabria”.
Le poche righe che riporterò in questo scritto, i calabresi tutti farebbero bene a leggerle e inciderle sulla propria anima e trasmetterle alle future generazioni.
“Quando i Romani erano ancora poveri pastori abitanti in capanne di paglia sostenute da pali, quando Roma era formata da vicoli stretti e tortuosi e casupole di fango, quando il cittadino romano non conosceva ancora la moneta e parti di armatura poste sulla bilancia erano già mezzo di scambio, quando essi mangiavano bigio pane di farro ed usavano vino solo quale medicina mentre alla donna era in generale vietato, quando alle matrone romane era vietato il belletto né conoscevano gioielli ‘poiché anche gli anelli di matrimonio erano in ferro’, quando migliaia di poveri nelle ‘popina’(osteria di Roma antica) mangiavano fave ed aceto e ‘pane plebeo’, qui, sotto il cielo di Calabria, sulle rive dei suoi due mari, Ionio e Tirreno, fioriva già ricca, sensuale, una delle più raffinate culture dell’Umanità: la ‘Magna Grecia’! Abiti eleganti di nobile tessuto, case ricche di marmi ed opere d’arte, artistici gioielli e ceramiche, vasi statuette, mobili ed affreschi, cultura del corpo e recite teatrali, alimenti scelti e vini deliziosi, belle donne ed atleti, città di mezzo milione d’abitanti, rigurgitanti di templi, colonne, acropoli, terme, teatri, processioni religiose, sport, poesia”.
Gigino A Pellegrini & G elTarik