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Soffiano venti di guerra. La pace del mondo in pericolo. di Francesco Gagliardi

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La Korea del Nord, secondo quanto scritto dal Washington Post, ha la bomba atomica e potrebbe colpire con i suoi missili balistici intercontinentali gli USA e tutto il resto del mondo. Il Presidente degli Stati Uniti d’America ha paura e teme che la Korea potrebbe colpire gli USA in un prossimo futuro e ha reagito con dure parole:- E’ meglio che la Korea non minacci ulteriormente gli USA, sennò faranno i conti con le fiamme ed una furia che il mondo non ha mai visto prima-.

Soffiano, dunque, i venti di guerra nucleare e la pace del mondo ancora una volta è messa in pericolo come 67 anni fa.

Era domenica il 25 giugno del 1950, l’ultima domenica di un mese sereno, pieno di sole. I campi erano dorati e le spighe di grano ondeggiavano lieve ad ogni leggero soffio di vento. Ho un ricordo molto preciso di quella domenica. Don Giovanni Posa, sacerdote del luogo, aveva da poco terminato di recitare le preghiere della sera e il Santo Rosario. Le strade adiacenti la chiesa brulicavano di folla che tornava a casa dai campi dopo una giornata di duro lavoro. Fu in quel momento che accesi la radio, una Geloso, e appresi dal lettore del Giornale Radio, rete rossa, la notizia dello scoppio della guerra in Corea.

In un punto lontano dell’estremo oriente, che quella sera non sapevo dove fosse, si decidevano i destini del genere umano. La notizia ebbe una immediata e profonda eco sui giornali di tutto il mondo. Nell’annunciare, nei giorni che seguirono, che Seoul, capitale della Corea del sud, era caduta e che Truman, Presidente degli USA, aveva deciso di inviare aiuti militari, molti giornali di allora ebbero a rilevare le pericolose analogie tra ciò che stava avvenendo in Estremo Oriente ed i fatti che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pioveva quel giorno in Corea. Il cielo era coperto. Molti contadini al di sotto del 38° parallelo furono svegliati dalle cannonate delle artiglierie nemiche.

Dopo appena un’ora la radio di Seoul annunciava con toni drammatici che l’esercito nord coreano era già in marcia verso sud. Chiedeva a tutto il mondo libero aiuti per poter arginare e sconfiggere la gigantesca avventura comunista. La pace del mondo era così turbata e messa in pericolo in un punto lontano dell’estremo oriente. Ero turbato e triste anch’io quella sera. Sapevo che l’entrata in guerra dell’America avrebbe portato scompiglio nella mia vita. Le autorità di Polizia Italiane mi negarono il permesso di soggiornare in Italia e le autorità americane mi ordinarono l’immediato ritorno negli USA per andare a servire la patria di adozione.

E così la guerra di Corea che si combatteva intorno al 38° parallelo, fino ad allora conosciuto come una linea geografica, divenne anche la mia guerra. E Seoul, Inchon, Pyonyang, Pannunjon, Pusan divennero nomi famosi che ancora oggi a distanza di oltre 60 anni da quella triste avventura, mi riempiono il cuore di mestizia. Una guerra strana, senza vincitori né vinti, una guerra che si doveva e si poteva evitare. Valeva davvero la pena combattere questa guerra lasciando morire centinaia di migliaia di giovani da ambo le parti, quando ancora in Europa non si erano rimarginate le ferite procurate dalla seconda guerra mondiale? La regina delle immagini, la televisione, allora non c’era in Italia e quindi non ha potuto portare ovunque nelle case degli italiani, come poi invece ha fatto con la guerra nel Vietnam, questo dramma consumato in un remoto angolo del mondo. Questo dramma sconvolse la mia vita. Quando la vita incominciava a sorridermi, quando da poco mi ero affacciato alla soglia del mondo, ecco questa assurda guerra combattuta in un paese lontanissimo dal mio, per distanza, per clima, educazione, sentimenti e religione, sconvolgere e disperdere i miei sogni, i miei affetti, i miei sentimenti. L’anelito alla speranza, ad un avvenire migliore, si disciolse immediatamente come neve al sole. E così un giorno di dicembre di tantissimi anni fa fui imbarcato su una nave da guerra con destinazione Inchon, Korea. Il mattino dello sbarco fu per tutti noi una sgradita sorpresa: colline senza l’ombra di un albero, risaie puzzolenti, paesi tristi, squallidi e completamente distrutti, strade impraticabili, casette bruciate, luoghi tristi e desolati, ponti di fortuna. Restai in Corea 16 mesi e due giorni.. Ormai ero tagliato fuori dalla vita. Mi mancavano le strade, le piazze, i marciapiedi del mio paesello dove potevi incontrare tanta gente. Sentivo nostalgia della folla, di quella che a Cosenza a Corso Mazzini per la fretta ti urtava i gomiti e ti calpestava i piedi, la folla allegra, vociante, indifferenziata. Sentivo nostalgia delle vetrine illuminate dei negozi. Sentivo nostalgia delle belle ragazze, di quelle vere, in carne ed ossa, non di quelle riprodotte sui rotocalchi che a centinaia ci passavamo di mano in mano nel corso della giornata. E sognavo ad occhi aperti tutte le cose che avevo lasciato, anche quelle più futili ed insignificanti, ma che ora, in una buca di terra, per me sembravano le più belle.

Poi, però, i colpi dei mortai e delle mitragliatrici, il rombo degli aerei, i cattivi odori, le tracce di sangue sull’uniforme, allontanavano da me tutti i fantasmi che mi portavo dentro e mi riportavano alla cruda realtà coreana. Ricordavo la spiaggia di Amantea, il bar di Totonno e Minichella, le corse in bicicletta alla Variante e Cannavina, l’ombroso pioppo della piazza principale del mio paese, le frittate della nonna Teresa, la vendemmia, i fichi di Cannavina, le ciliegie di Sangineto, i ceppi ardenti nella notte di Natale. I giorni, le notti, le ore non passavano mai ed erano sempre le stesse. Lo sguardo alle montagne brulle coperte di neve, fisso a quel biancore immobile, mi domandavo come avrei reagito quando sarei ritornato a casa. Ritornai a casa sano e salvo con una piccola ferita alla gamba sinistra. La terribile avventura coreana iniziata 16 mesi prima si era felicemente conclusa. Il momento tanto atteso era finalmente giunto. La sanguinosa guerra coreana trasformatasi in attacchi e contrattacchi era giunta all’epilogo. Più di mille soldati eravamo giunti a Seattle nel luogo dove eravamo partiti 16 mesi prima. E’ stato l’ultimo atto di una grande impresa che aveva sollevato negli USA e nel mondo, nei suoi momenti cruciali, timori, perplessità, angosce, proteste. Sul molo erano schierati marinai in uniforme bianca da parata, un picchetto d’onore ed una fanfara che suonava: Star Spangled Banner, Stars and Stripes forever and America the beautiful.

Col biglietto dell’aereo in mano, col sacco militare sulle spalle mi diressi verso l’aereo che mi avrebbe portato a Pittsburgh. E senza voltarmi indietro salii in fretta la scaletta. Dopo un po’ l’aereo incominciò a rullare sulla pista, si alzò in volo, scomparve in mezzo alle nuvole e anche scomparvero come d’incanto tutti i miei patimenti, le privazioni, i pericoli, le paure, le sofferenza, inghiottite dal nulla, dal niente, dal buio che avevo lasciato dietro di me.

Redazione TirrenoNews

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