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Sala Consiliare del Comune di Amantea 17 Agosto 2017 Ore 18:00

Il libro sull’emigrazione negli Stati Uniti d’America nel periodo del grande esodo sarà presentato il 17 agosto alle ore 18:00 nella Sala Consiliare del Comune di Amantea.

E’ stato scritto dal dott. Francesco Gallo, nativo di Lago, ma che vive e lavora lontano dalla sua amata terra di Calabria: Padova, città del Santo, Sant’Antonio da Padova.

 

E’ un medico chirurgo, specialista in psichiatria, membro dell’Accademia Cosentina e della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Professore dell’Università del Maryland negli U.S.A. e infine Presidente dell’Associazione “Laghitani nel mondo”.

Il libro si intitola Emigrazione negli U.S.A. da Amantea dal 1886 al 1925 e da San Pietro in Amantea dal 1897 al 1924.

Il dott. Gallo di emigrazione se ne intende perché oltre ad essere uno studioso della materia è stato anche lui un emigrante.

Con i genitori aveva lasciato il suo paesello natio e si era stabilito in America.

Poi fece ritorno in Patria, studiò, si laureò, si fermò a Padova, si sposò. Ha due figli e ogni anno, anche se per pochi giorni, ritorna in Calabria, per salutare amici e parenti e per respirare a pieni polmoni la salubre aria di casa nostra.

Il dott. Gallo è uno studioso, un appassionato di storia patria, ha pubblicato diversi libri, ha dedicato tempo per terminare, come lui afferma nella presentazione del libro, questa difficile e lunga ricerca sulla emigrazione negli U.S.A.

Ha scritto e pubblicato questo libro perché ha voluto onorare il coraggio e il sacrificio che fecero centinaia e centinaia di Amanteani e Sampietresi che emigrarono in America del Nord durante il periodo del “Grande esodo”. Grazie dott. Gallo.

Abbiamo vivamente apprezzato il vostro grande gesto verso i nostri cari emigranti in terre lontane che hanno dovuto abbandonare la loro terra, i loro affetti, le amicizie, le tradizioni, i costumi, la lingua.

Ha accumunato due Comuni viciniori e confinanti, Amantea e San Pietro in Amantea, perché molto simili sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista culturale. San Pietro è stato per lungo tempo Casale di Amantea e poi durante il periodo fascista addirittura Frazione di Amantea.

E poi da sempre i nostri contadini si recano al mercato ortofrutticolo di Amantea a vendere i loro prodotti agricoli, mentre i pescivendoli di Amantea si recavano a San Pietro a vendere i pesci: vedi Candia, Francisca e Candia ed altri con i muli ed i carretti.

D’estate, noi sampietersi ci rechiamo ad Amantea a fare i bagni, mentre in passato molti amanteani venivano a San Pietro ad estivare perché l’aria è buona, il cibo ottimo, il vino eccellente.

Molte donne del nostro paese, ogni santo giorno, portavano nelle cantine di Amantea nei barili l’ottimo vino che si produceva qui da noi e molto apprezzato dagli intenditori.

Ma anche in America gli Amanteani e i Sampieteresi si incontravano, si frequentavano, si aiutavano a vicenda. Addirittura spesse volte emigravano insieme.

Ma c’è di più. Tanti, ma tanti sampietersi hanno aperto attività commerciali nel comune di Amantea e si sono stabiliti in questo luogo meraviglioso che avrebbe dovuto essere ma non lo è stato la perla del Basso Tirreno cosentino.

Molte nostre signorine si sono sposate con amanteani.

Voglio ricordare una vecchia diceria:- Alla Mantia maritaticce, ma statte accuortu nun ti cè zunrare-. Ma vi dirò di più.

Alcuni Sindaci della Città di Amantea erano originari di San Pietro. Uno, addirittura, ha frequentato le scuole elementari a San Pietro ed è stato alunno della nostra cara compianta maestra Dolores Lupi.

Tralascio la prima e la seconda parte del libro dedicate ad Amantea.

Mi fermo solo un po’ alla terza parte dedicata al nostro caro amato paesello, dove il Dott. Gallo fa una breve descrizione geografica e storico-culturale e dell’emigrazione dei suoi cittadini negli U.S.A. dal 1897 al 1924. Anni difficili.

C’è stata la prima guerra mondiale, l’uccisione del Re a Monza, le guerre coloniali. A pag. 263 c’è lo stemma del Comune, la foto della grande piazza e non poteva mancare la foto della bellissima fontana antica inaugurata nell’anno 1900 conosciuta affettuosamente da tutti i paesani come la fontana du zu Tittu.

Nelle pagine successive, in sintesi, il dott. Gallo ci parla di alcune tappe importanti della storia del nostro paese ed elenca i nomi dei Sindaci. E sorpresa delle sorprese, ho appreso per la prima volta che zio Palmerino Sesti, il migliore fabbro del paese, il nonno di mia cugina Veruzza Sesti, ha ricoperto la carica di Sindaco nel 1911 dopo il suo ritorno dalla lontana America. Anche zio Palmerino fu un emigrante.

Poi fa l’elenco di alcuni notabili e proprietari terrieri.

Alcune famiglie sono completamente scomparse. Da tempo non esistono più come la famiglia Aloisio, Ianne, Maio.

Una pagina è dedicata ai nostri caduti in guerra e alle chiese. E poi c’è un lungo elenco di nomi, 315 per l’esattezza,. Sono i nostri cari emigranti che hanno lasciato il nostro paese per recarsi in America per fare fortuna. Molti l’hanno fatta. E i loro figli e i loro nipoti oggi ricoprono cariche importanti nella pubblica amministrazione, nel Congresso degli Stati Uniti, nelle Università.

Oltre al nome di mio padre che trovasi al N. 93, c’è pure quello di mio nonno materno, Antonio Raso ( anche questo cognome è scomparso) al N. 253 che emigrò negli U.S.A. nel 1900 e si stabilì nella città di Braddock in Pennsylvania.

Delle famiglie sampietresi che in quegli anni del grande esodo emigrarono in America e che sono brillantemente descritte in questo libro io ne ricordo solo alcune perché ho avuto la fortuna di incontrarle quando ero in America. Non posso ricordarmele tutte perché quando emigrarono ancora io non ero neppure nato.

Gli spostamenti degli emigranti amanteani e sampietresi sono stati per la maggior parte permanenti, volontari e spontanei. Solo pochissimi emigranti, dopo aver lavorato all’estero, sono ritornati nel paesello natio.

Le migrazioni hanno contribuito alla formazione di moltissime nazioni moderne. L’America deve il suo popolamento ai flussi migratori. E grazie al lavoro degli emigranti e alle ingenti risorse naturali ebbe un notevole sviluppo economico basato sull’allevamento del bestiame, sull’agricoltura, sulle industrie del ferro e dell’acciaio, sulla costruzione di strade, ponti, ferrovie, sulla estrazione di minerali i cui sottosuoli sono ricchissimi.

Il flusso migratorio degli amanteani e sampietresi verso l’America fu dovuto principalmente al fattore fame e miseria, al sogno di miglioramento economico e sociale, alla disoccupazione, al sovrappopolamento.

Chi è emigrato è stato mosso dalla speranza di trovare migliori condizioni di vita, un lavoro stabile e duraturo, molto remunerativo, un ambiente sociale diverso che avrebbe potuto favorire anche un maggiore benessere a tutta la famiglia e ai propri discendenti.

La maggior parte degli emigranti erano scapoli. In un secondo tempo, dopo aver fatto fortuna e trovato un lavoro stabile, si facevano raggiungere dai familiari. E in compagnia di amici e compaesani fondavano nuovi agglomerati fuori dalle città, lontani dalle fabbriche e dalle miniere, dando nomi di città italiane e solo così davano loro un senso di libertà. A volte gli emigranti si isolavano, scrivevano lettere struggenti ai parenti lontani e si mettevano a piangere. Si lamentavano della lontananza, del cibo, del clima, degli usi e dei costumi, della lingua che non riuscivano ad imparare, perché la maggior parte non sapevano leggere e scrivere.

E qui mi preme ricordare, parlando di nostalgia per la terra lontana, la bellissima canzone di Bovio “Lacreme napulitane”, che anche se intrisa di grande teatralità ci fa rivivere la grandissima tragedia e sofferenza dei nostri cari emigranti in terre lontane. Si avvicinava il Santo Natale e struggente era il ricordo della sera della vigilia. L’emigrante avrebbe voluto essere in mezzo a tutti i familiari, avrebbe voluto ascoltare il suono della zampogna. Io non ci sono ma quando apparecchierete la tavola mettete anche il mio piatto.”Comme si ‘mmiez’a vuje stesse pur’io”.

Quante lacrime mi costa questa America, come è amaro il pane che col sudore ci guadagniamo ogni giorno. Io che ho perso la patria, la casa e l’onore, sono carne da macello. Sono un emigrante! Sognavano ad occhi aperti la cara e dolce terra di Calabria, così bella nelle splendide notti d’estate di luna piena e profumata dalle ginestre in fiore.

Col passare degli anni avevano creato una piccola fortuna, si attaccarono di più al paese che li aveva ospitati, alcuni cambiarono mestiere, si mettevano in proprio e non erano più tentati di ritornare in patria. Si erano completamente adattati agli usi e costumi americani, avevano comprato “il car o il truck”, erano diventati commercianti, proprietari di bar, di pizzerie, di negozi, di sartorie, di calzolerie, di panetterie, e così la nostalgia del luogo natio si andava a poco a poco affievolendosi. Cercavano il successo affrontando rischi e sacrifici e lo hanno ottenuto dopo anni di duro lavoro.

Un emigrato calabrese in America, Michele Pane, così scrive a suo padre, invitandolo a lasciare pure lui la Calabria e partire per l’America lontana. Ha fatto fortuna e nel commercio fa grossi affari, è diventato pubblico notaio, si è americanizzato ed ha finanche cambiato nome. Non si chiama più Michele, ma Mike.

La lettera è un misto di calabrese e americano. Ha inizio con “ Caro Tata”. Ancora oggi, nei piccoli paesi si suole chiamare il padre con l’appellativo di Tata. Mia sorella Anna chiamava il nonno Antonio Tata. Ricordate certamente il bellissimo racconto del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis: L’infermiera di Tata.

La più grande ondata migratoria negli Stati Uniti d’America che era iniziata alla fine dell’ottocento e ai primi del secolo scorso si è esaurita.

E così l’Italia ha cessato di essere un paese di emigranti per diventare un paese di immigrazione. Migliaia e migliaia di nord africani, con vecchie carrette di mare stipati come sardine e con gommoni, sbarcano in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.

In pochi anni hanno invaso il nostro territorio. E così come per i nostri contadini e braccianti agricoli sampietersi ed amanteani gli Stati Uniti erano “La Merica” cento anni fa, oggi per i nord africani e gli asiatici “La Merica” è l’Italia.

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La Korea del Nord, secondo quanto scritto dal Washington Post, ha la bomba atomica e potrebbe colpire con i suoi missili balistici intercontinentali gli USA e tutto il resto del mondo. Il Presidente degli Stati Uniti d’America ha paura e teme che la Korea potrebbe colpire gli USA in un prossimo futuro e ha reagito con dure parole:- E’ meglio che la Korea non minacci ulteriormente gli USA, sennò faranno i conti con le fiamme ed una furia che il mondo non ha mai visto prima-.

Soffiano, dunque, i venti di guerra nucleare e la pace del mondo ancora una volta è messa in pericolo come 67 anni fa.

Era domenica il 25 giugno del 1950, l’ultima domenica di un mese sereno, pieno di sole. I campi erano dorati e le spighe di grano ondeggiavano lieve ad ogni leggero soffio di vento. Ho un ricordo molto preciso di quella domenica. Don Giovanni Posa, sacerdote del luogo, aveva da poco terminato di recitare le preghiere della sera e il Santo Rosario. Le strade adiacenti la chiesa brulicavano di folla che tornava a casa dai campi dopo una giornata di duro lavoro. Fu in quel momento che accesi la radio, una Geloso, e appresi dal lettore del Giornale Radio, rete rossa, la notizia dello scoppio della guerra in Corea.

In un punto lontano dell’estremo oriente, che quella sera non sapevo dove fosse, si decidevano i destini del genere umano. La notizia ebbe una immediata e profonda eco sui giornali di tutto il mondo. Nell’annunciare, nei giorni che seguirono, che Seoul, capitale della Corea del sud, era caduta e che Truman, Presidente degli USA, aveva deciso di inviare aiuti militari, molti giornali di allora ebbero a rilevare le pericolose analogie tra ciò che stava avvenendo in Estremo Oriente ed i fatti che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale.

Pioveva quel giorno in Corea. Il cielo era coperto. Molti contadini al di sotto del 38° parallelo furono svegliati dalle cannonate delle artiglierie nemiche.

Dopo appena un’ora la radio di Seoul annunciava con toni drammatici che l’esercito nord coreano era già in marcia verso sud. Chiedeva a tutto il mondo libero aiuti per poter arginare e sconfiggere la gigantesca avventura comunista. La pace del mondo era così turbata e messa in pericolo in un punto lontano dell’estremo oriente. Ero turbato e triste anch’io quella sera. Sapevo che l’entrata in guerra dell’America avrebbe portato scompiglio nella mia vita. Le autorità di Polizia Italiane mi negarono il permesso di soggiornare in Italia e le autorità americane mi ordinarono l’immediato ritorno negli USA per andare a servire la patria di adozione.

E così la guerra di Corea che si combatteva intorno al 38° parallelo, fino ad allora conosciuto come una linea geografica, divenne anche la mia guerra. E Seoul, Inchon, Pyonyang, Pannunjon, Pusan divennero nomi famosi che ancora oggi a distanza di oltre 60 anni da quella triste avventura, mi riempiono il cuore di mestizia. Una guerra strana, senza vincitori né vinti, una guerra che si doveva e si poteva evitare. Valeva davvero la pena combattere questa guerra lasciando morire centinaia di migliaia di giovani da ambo le parti, quando ancora in Europa non si erano rimarginate le ferite procurate dalla seconda guerra mondiale? La regina delle immagini, la televisione, allora non c’era in Italia e quindi non ha potuto portare ovunque nelle case degli italiani, come poi invece ha fatto con la guerra nel Vietnam, questo dramma consumato in un remoto angolo del mondo. Questo dramma sconvolse la mia vita. Quando la vita incominciava a sorridermi, quando da poco mi ero affacciato alla soglia del mondo, ecco questa assurda guerra combattuta in un paese lontanissimo dal mio, per distanza, per clima, educazione, sentimenti e religione, sconvolgere e disperdere i miei sogni, i miei affetti, i miei sentimenti. L’anelito alla speranza, ad un avvenire migliore, si disciolse immediatamente come neve al sole. E così un giorno di dicembre di tantissimi anni fa fui imbarcato su una nave da guerra con destinazione Inchon, Korea. Il mattino dello sbarco fu per tutti noi una sgradita sorpresa: colline senza l’ombra di un albero, risaie puzzolenti, paesi tristi, squallidi e completamente distrutti, strade impraticabili, casette bruciate, luoghi tristi e desolati, ponti di fortuna. Restai in Corea 16 mesi e due giorni.. Ormai ero tagliato fuori dalla vita. Mi mancavano le strade, le piazze, i marciapiedi del mio paesello dove potevi incontrare tanta gente. Sentivo nostalgia della folla, di quella che a Cosenza a Corso Mazzini per la fretta ti urtava i gomiti e ti calpestava i piedi, la folla allegra, vociante, indifferenziata. Sentivo nostalgia delle vetrine illuminate dei negozi. Sentivo nostalgia delle belle ragazze, di quelle vere, in carne ed ossa, non di quelle riprodotte sui rotocalchi che a centinaia ci passavamo di mano in mano nel corso della giornata. E sognavo ad occhi aperti tutte le cose che avevo lasciato, anche quelle più futili ed insignificanti, ma che ora, in una buca di terra, per me sembravano le più belle.

Poi, però, i colpi dei mortai e delle mitragliatrici, il rombo degli aerei, i cattivi odori, le tracce di sangue sull’uniforme, allontanavano da me tutti i fantasmi che mi portavo dentro e mi riportavano alla cruda realtà coreana. Ricordavo la spiaggia di Amantea, il bar di Totonno e Minichella, le corse in bicicletta alla Variante e Cannavina, l’ombroso pioppo della piazza principale del mio paese, le frittate della nonna Teresa, la vendemmia, i fichi di Cannavina, le ciliegie di Sangineto, i ceppi ardenti nella notte di Natale. I giorni, le notti, le ore non passavano mai ed erano sempre le stesse. Lo sguardo alle montagne brulle coperte di neve, fisso a quel biancore immobile, mi domandavo come avrei reagito quando sarei ritornato a casa. Ritornai a casa sano e salvo con una piccola ferita alla gamba sinistra. La terribile avventura coreana iniziata 16 mesi prima si era felicemente conclusa. Il momento tanto atteso era finalmente giunto. La sanguinosa guerra coreana trasformatasi in attacchi e contrattacchi era giunta all’epilogo. Più di mille soldati eravamo giunti a Seattle nel luogo dove eravamo partiti 16 mesi prima. E’ stato l’ultimo atto di una grande impresa che aveva sollevato negli USA e nel mondo, nei suoi momenti cruciali, timori, perplessità, angosce, proteste. Sul molo erano schierati marinai in uniforme bianca da parata, un picchetto d’onore ed una fanfara che suonava: Star Spangled Banner, Stars and Stripes forever and America the beautiful.

Col biglietto dell’aereo in mano, col sacco militare sulle spalle mi diressi verso l’aereo che mi avrebbe portato a Pittsburgh. E senza voltarmi indietro salii in fretta la scaletta. Dopo un po’ l’aereo incominciò a rullare sulla pista, si alzò in volo, scomparve in mezzo alle nuvole e anche scomparvero come d’incanto tutti i miei patimenti, le privazioni, i pericoli, le paure, le sofferenza, inghiottite dal nulla, dal niente, dal buio che avevo lasciato dietro di me.

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La Conferenza Unificata ha sancito l’intesa sullo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per la revisione delle reti stradali di interesse nazionale e regionale ricadenti nelle Regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Toscana e Umbria.

Il decreto, nell’ottica di ridurre ulteriormente la pluralità di gestori e migliorare l’esercizio dell’intera rete, riguarda il trasferimento ad Anas di 3.523 Km di strade dalle suddette regioni.

“Una buona notizia - ha affermato il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano Delrio - per valorizzare il patrimonio stradale esistente, secondo direttrici nazionali e regionali, sottoponendolo a una cura di manutenzione.

Il riferimento ad un soggetto unico per 3.500 km di strade consentirà di ottimizzare la gestione e uniformare la qualità dei servizi per i cittadini che percorrono queste arterie”.

“Con il via libera della Conferenza Unificata - ha affermato il Presidente di Anas, Gianni Vittorio Armani – l’Anas si avvia a recuperare oltre 3.500 km di strade, portando a 30 mila km la rete gestita.

L’obiettivo principale è quello di garantire la continuità territoriale degli itinerari di valenza nazionale che attraversano le varie regioni, come ad esempio le consolari, evitando la frammentazione delle competenze nella gestione delle strade e dei trasporti. Il cliente non si troverà più a dover fronteggiare interlocutori differenti, ognuno con un ventaglio di procedure diverse, e sarà possibile una più razionale gestione della rete, incrementando l’efficienza della manutenzione e dell’esercizio delle infrastrutture.

Infatti, Anas sarà in grado di attuare interventi più omogenei in tutto il Paese, con evidenti vantaggi per la viabilità sia in termini di standard di sicurezza sia di accessibilità alle aree interne”.

Il perfezionamento del passaggio ad Anas degli oltre 3.500 km prevede l’acquisizione del parere delle competenti Commissioni Parlamentari sullo schema di decreto e la firma del Presidente del Consiglio dei Ministri.

In Calabria sarà trasferita all’Anas una rete pari a 302,459 km, tra cui la Amantea- Potame- Cosenza.

Parliamo della SS 278, poi diventata la SP 257, che va dalla SS19 alla SS 19.

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