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Il sindaco dr Vincenzo Gaudio Calderazzo , l’assessore alla cultura dr.ssa Concettina Francesca Aloise ed il soprintendente dr Mario Pagano invitano a partecipare Domenica 20 novembre, con inizio alle ore 17.00, a Fiumefreddo Bruzio presso il castello, al convegno su “Arte in Castello” -  Omaggio a Salvatore Fiume, Prima Rassegna d’arte contemporanea.

 

 

Interverranno il sindaco del comune di Fiumefreddo Bruzio dr Vincenzo Gaudio Calderazzo, il senatore Paolo Naccarato, il critico d’arte Roberto Sottile, gli artisti Tonina Garofalo ed Aldo del Bianco, la storica dell’arte e responsabile del settore artistico della Soprintendenza di Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Catanzaro, Cosenza e Crotone dr.ssa Enrichetta Salerno, il soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Catanzaro, Cosenza e Crotone prof Mario pagano.

 

 

Conclude il sottosegretario del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo onorevole Dorina Bianchi.

 

 

Coordina il giornalista Antonio Chiappetta dell’ufficio stampa “Borgo di Fiume”.

 

 

 

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San Pietro in Amantea. Scrive Ciccio Gagliardi:” E’ passato molto tempo dall’ultimo mio intervento sul “Quotidiano”.

E’ dal mese di giugno che non scrivo. Sapeste quanto mi dispiace.

 

 

E chiedo scusa ai miei 10 lettori che a Corso Mazzini mi fermano e mi chiedono:- Hai finito l’inchiostro?-

Non ho finito l’inchiostro e mi dispiace davvero, però questa situazione politica che si è venuta a creare con l’avvento del Sig. Renzi mi ha fatto stare male.

Cosa avrei dovuto scrivere? Che fa schifo? Che fa pena? Che le tasse sono aumentate? Che il Pil non cresce? Che la disoccupazione aumenta giorno per giorno? Che i poveri sono diventati sempre più poveri e sono in continuo aumento?

Mi fanno pena e mi fanno schifo tutti quei personaggi che ogni santo giorno appaiono in televisione e spocchiosamente affermano che le cose in Italia vanno a gonfie vele.

Per loro sicuramente che percepiscono un lauto stipendio.

Non vanno bene per milioni di italiani che fanno ogni giorno la fila alla mensa della Caritas per avere un piatto caldo.

Questi poveracci non fanno pena, mi fanno rabbia, perché vorrei che la gente per bene scendesse in piazza come faceva una volta e facesse sentire la sua voce.

Per questi motivi sono stato in rispettoso silenzio. Non ne vale più la pena parlarne e scrivere.

Gli elettori non contano più. Non hanno più voce in capitolo.

Come un ammasso di pecore belanti siamo costretti a dire sempre di sì. Guai ad opporsi. Sarebbe la fine.

Cosa mi ha spinto allora a scrivervi? E’ stato un articolo apparso su un giornale nazionale con una intervista ad un noto e famoso architetto italiano: Ricostruiamo tutti i paesi distrutti dove erano prima, perché tutto si può ricostruire come hanno fatto le nazioni europee che dopo i bombardamenti della seconda guerra hanno ricostruito le case e gli edifici pubblici come prima, meglio di prima.

Falso.

La maggior parte di quei paesini distrutti dal terremoto nelle Marche e nell’Umbria non verranno mai ricostruiti come prima, perché è impossibile ricostruirli.

Lo dicono gli esperti, lo confermano i geologi, lo sostengono i tecnici del Genio Civile.

Il motivo è semplice: il terreno è ad elevato rischio sismico.

E poi è franoso, argilloso e presenta lesioni e fratture visibili ad occhio nudo. Ma queste cose non le dicono.

Per loro la priorità è la consultazione del prossimo 4 dicembre.

Le priorità invece sono: assicurare e subito ai tanti bambini che hanno abbandonato i loro paesi e le loro scuole la continuità dell’anno scolastico; garantire ai tanti sfollati non un solo piatto di lenticchie calde ma tutti i servizi essenziali; le tende e i container vanno bene per l’emergenza, ma ora che il crudo inverno in quelle zone colpite dal sisma sta per arrivare, servono casette vere e sicure; e servono sostegni adeguati e urgenti agli agricoltori e alle imprese.

Ma la cosa prioritaria e necessaria è snellire le pratiche burocratiche.

Basta con le pastoie, con firme, contro firme, con domande in carta bollata, con pareri degli esperti, dei Comuni, delle Province, delle Regioni, del Genio Civile, dei Vigili del Fuoco.

Se si incominciano a preparare gare di appalto come sempre si è fatto i tempi si allungherebbero e la gente non avrebbe mai una casetta decente e gli allevatori una stalla per il bestiame.

Tutto si può costruire, tutto si deve costruire. E’ vero.

Bisogna fare presto perché i soldi ci sono.

Bisogna pure dire, però, che tutto non si può costruire sullo stesso posto di prima perché è impossibile farlo.

Ma nessuno fino ad oggi, nemmeno le più alte cariche dello Stato, hanno messo sull’avviso gli abitanti delle Marche e dell’Umbria ormai sistemati negli alberghi della riviera marchigiana.

E chissà per quanto tempo ancora.

Francesco Gagliardi

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Riceviamo e con piacere pubblichiamo l'articolo di Francesco Gagliardi:

Un tempo nelle nostre campagne esistevano solo case coloniche, le cosiddette “turre”, massimo due stanzette ed una cucina.

Poi a parte c’erano le stalle per l’asino e per le vacche, il pollaio, il porcile, il fienile, la legnaia,un magazzino con i sacchi di farina di frumento e di granoturco.

Insomma, tutto quanto bastava per rendere la turra una struttura sufficiente a se stessa, qualche villa padronale, una chiesetta e una o due case di piccoli artigiani.

L’acqua da bere bisognava andarla a prendere con i barili nelle fontanelle sparse qua e là.

E per i bagni?

Ma quali bagni, non rientravano nelle consuetudini dei contadini.

D’estate qualcuno si immergeva lungo il corso dei fiumi o nelle cibbie.

Le chiesette nelle nostre contrade sono due.

Una dedicata al Profeta Elia si trova nella omonima contrada, l’altra dedicata all’Arcangelo Michele si trova nella contrada Gallo.

Ce n’era un’altra in contrada Colopera, ora non esistono più neppure le pietre.

Nelle contrade c’erano finanche le scuole elementari, perché c’erano tantissimi alunni nell’età dell’obbligo scolastico.

Il numero degli alunni non deve trarci in inganno.

Moltissimi di loro frequentavano la scuola soltanto durante i mesi invernali. In autunno e primavera abbandonavano la scuola e si dedicavano al lavoro dei campi.

Ecco perché la maggior parte degli abitanti erano analfabeta o semianalfabeta.

Quasi tutti gli abitanti del paese non sapevano né leggere né scrivere, a stento sapevano fare la loro firma.

Ci sono atti addirittura del Comune dove compare questa dicitura: Per il Sindaco analfabeta segno di croce dell’Assessore anziano.

Delle donne poi non ne parliamo.

Non avevano mai preso in mano neppure l’abbecedario.

La gente, oltre essere analfabeta, non sapeva neppure parlare l’italiano.

Pochissimi erano in grado di esprimersi nella lingua che oggi tutti usiamo.

Mentre i figli delle famiglie benestanti frequentavano regolarmente gli studi i bambini e le bambine dei contadini venivano subito impiegati nelle faccende domestiche e nei campi.

Ogni turra possedeva un forno che veniva usato ogni 15-20 giorni e serviva a cuocere il pane non solo per la famiglia numerosa che abitava quella turra, ma anche per le famiglie vicine e indigenti che non avevano il forno.

Ma il forno veniva usato anche per infornare i fichi, la ghianda e le castagne per gli animali.

Mentre le donne nei cosiddetti “catoi” erano intente a impastare la farina, un uomo, spesso il padrone, provvedeva ad accendere il forno con la legna e le frasche che le donne avevano raccolto nei boschi circostanti.

La legna veniva attizzata con il forcone.

Intanto il forno si scaldava.

Le fascine accese crepitavano allegramente e il riverbero delle fiamme tingeva di rosso il volto del fornaio.

Quando il forno era ben caldo veniva ripulito dai tizzoni e dalla cenere mediante il rastrello e messi in un angolo del forno, poi con uno “scupolo” un po’ bagnato, il fondo del forno veniva ripulito accuratamente.

Infine seguiva l’infornatura mediante una lunga pala.

Alla fine la bocca del forno veniva chiusa con una porta in ferro.

L’uomo o la donna addetti al forno sapevano quanto tempo occorreva per la cottura del pane. Quando la porta veniva rimossa usciva dal forno un odore caratteristico di buon pane che da tempo abbiamo ormai dimenticato. Era festa grande in casa quando la mamma faceva il pane.

Ognuno voleva una pagnottina per sé e quando si impastava la farina con l’acqua tutti volevano mettere le mani nella madia ( a Majlla ), togliere la pasta lievitata, partirla, foggiarla a pagnotte e farvi sopra il segno della croce. Mi vengono in mente alcuni versi di una poesia di Ferruccio Greco:

…e sientu ancora mò l’adduru anticu

Chi saglia ppe re scale d’intra u vicu

Quannu u pane ni purtava a furnara

Na sporta de fatiga duce e amara.

Ricordo pure una poesia del poeta Francesco Pastronchi molto bella e che oggi, purtroppo, nelle nostre scuole non si fa più imparare a memoria. S’intitola :

Il pane.

Pane, ti spezzan gli umili ogni giorno,

lieti se già non manchi alla dispensa.

A lor quale più sacra ricompensa

Di te, che giungi fervido dal forno?

Come biondeggi al desco disadorno,

così tra vasi d'oro; in te si addensa

ogni ricchezza, e la più bella mensa

di tua ruvida veste non ha scorno.

Figlio del sole, tu ne porti un raggio

in ogni casa, e a chi di te procaccia

onestamente, illumini la fronte.

Ma più risplendi, quando nel viaggio,

stanco, il mendico dalla sua bisaccia

ti trae, sedendo al margine di un fonte.

E che dire della poesia di Gianni Rodari.

Se io facessi il fornaio, vorrei cuocere il pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare.

Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole.

Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chili i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.

Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame!

Il più bel giorno di tutta la storia.

San Pietro in Amantea by Francesco Gagliardi

 

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