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La stupenda lettera d’amore ad Amantea degli anni sessanta

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Scrive Ugo Dattis cittadino onorario di Amantea, sposato con una amanteana, che ancora passa l’estate ad Amantea dove ha comprato casa ha voluto descrivere la Amantea degli anni sessanta.

Ecco il testo :

 

NEPETIA MON AMOUR

Il pino di Posillipo affacciato sulla baia di Napoli è stato, per centoventinove anni, l’albero più famoso d’Italia, immortalato in decine di film e in migliaia di cartoline spedite dai turisti in tutte le parti del mondo.

Meno famoso, ma non meno immortalato, quello posto ai margini della strada statale all’ingresso di Amantea che sembrava darti il benvenuto nella cittadina che, da sempre, rivaleggiava con Paola per fregiarsi dell’appellativo, certamente esagerato, di “perla del Tirreno”.

Entrambi non ci sono più, abbattuti per una di quelle malattie che aggrediscono gli alberi e che spesso sono incurabili esattamente come accade per gli esseri umani.

Forse è stata una fortuna che se ne siano andati così e non distrutti in uno dei tanti incendi che stanno devastando, in questa terribile estate, il patrimonio boschivo calabrese.

Sarà per questo che l’estate del 2017 mi sembra meno estate di quelle che l’hanno preceduta o forse sarà l’età avanzata che mi spinge verso stati d’animo melanconici e a lodare il passato, per dirla alla Baldasarre Castiglione, tempo in cui in cui l’incendio di una collina o di un bosco era evento raro e per lo più dovuto al lancio di un mozzicone di sigaretta da parte di qualche automobilista incazzato per essere stato sorpassato da un auto di cilindrata inferiore alla sua.

Dal 1968 Amantea è stata la mia meta vacanziera preferita, nonostante avessi casa a Torremezzo, minuscola frazione del comune di Falconara, che aveva guadagnato fama internazionale a causa della volubilità che caratterizzava i suoi abitanti.

Questa non invidiabile nomea divenne tanto proverbiale che era in uso definire “amici da Farconara” le persone incostanti e mutevoli e che non davano alcun affidamento e “compagni da Farconara” quelle che cambiavano, in maniera disinvolta, schieramento politico da sinistra a destra secondo la loro convenienza.

Probabilmente non era vero niente perché la cattiva fama di Falconara non si basava su alcun elemento accertato scientificamente e certo era solo un modo di dire.

Identico a quello che ha marchiato in maniera indelebile un piccolo paese dell’entroterra cosentino i cui abitanti, secondo la leggenda, non spiccavano per intelligenza e sagacia, tanto è che nel capoluogo se volevi dare del fesso a qualcuno in maniera elegante lo apostrofavi come “spiartu i Mangone”.

Esattamente come, ancora oggi, accade in Olanda per i cittadini di Marken, villaggio di meno di duemila anime, che rimase isolato per decenni dal resto del Paese per il cedimento di una diga, costringendo gli abitanti a contrarre matrimonio con i loro consanguinei con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare.

A differenza di Mangone e Marken, i nativi di Amantea avevano, al contrario, fama del tutto diversa e, come gli ateniesi, godevano, certamente, del favore della dea Minerva che, come è noto, nell’entroterra cosentino e in quella parte dell’Olanda dove crollavano le dighe non aveva mai voluto mettere piede.

Come tutti i paesini calabresi, anche Amantea aveva assistito al terribile fenomeno della emigrazione e molti suoi figli, come ricordavano commossi gli esponenti politici nei comizi elettorali che si tenevano in piazza Commercio, erano partiti per il Venezuela, il Brasile o gli Stati Uniti, dove avevano fatto “fortuna”, grazie alla loro indiscussa capacità imprenditoriale.

Quelli che erano rimasti in Patria nella amatissima Nepetia, così veniva chiamata Amantea dagli esponenti politici sempre più commossi nei comizi elettorali che si tenevano in Piazza Cappuccini, non volendo essere da meno dei loro concittadini emigrati, grazie ad una innata vocazione per il commercio e per il turismo, erano stati tanto bravi da trasformare un piccolo centro di pescatori in una città così ricca di negozi e alberghi da richiamare migliaia di persone alla ricerca di prodotti e servizi di qualità a prezzi competitivi.

Quello che sembrava un cammino inarrestabile verso traguardi sempre più ambiziosi, poi, si è interrotto bruscamente a causa di un fenomeno presente da sempre in tutte le realtà meridionali: la insipienza e la arroganza della classe politica che non ha saputo o voluto amministrare il bene collettivo e l’interesse pubblico che doveva convivere con l’interesse privato senza mai, però, esserne succube. Proprio a causa di questa calamità, Amantea, che poteva essere come Rimini, oggi è una città come tante altre, soffocata dal traffico, massacrata da una politica urbanistica senza senso, ripiegata su se stessa per l’immenso debito pubblico accumulato negli anni.

Una città che con il trascorrere del tempo, ha assistito, impassibile se non rassegnata alla perdita della sua identità culturale, alla morte di alberi simboli di appartenenza tribale, alla scomparsa di attività che erano quasi “un marchio di fabbrica” come la Fiat a Torino“.

Non c’è stata estate, negli ultimi cinquanta anni, trascorsa senza ritornare almeno una volta. Non c’è stato giorno in quei brevi periodi in cui la mente non tornasse al passato per chiederti come sia stato possibile un cambiamento in peggio così radicale.

L’Amantea famosa per i suoi ristoranti “Cavalla” o “Dal Catanese” più simili a taverne medioevali o stazioni di posta che accoglievano, per lo più, gente di passaggio, perché era ancora da venire il tempo in cui, come avviene oggi, si va a “mangiare fuori” per puro diletto o per trascorrere una serata, non esiste più.

Non esiste più l’Amantea orgogliosa della sua Arena Perna, stupenda costruzione in legno di forma circolare dove negli anni sessanta si esibivano cantanti di fama internazionale, meta di viveur nostrani e improvvisati play boy con i pantaloni bicolore a zampa di elefante. Si andava non solo per ascoltare musica ma, anche come in tutte “le rotonde sul mare” degni di rispetto, a ballare.

Da giovani squattrinati come eravamo allora non potevamo certo permetterci il costo del biglietto di ingresso e quindi ascoltavamo la musica dalla spiaggia vicino al campo sportivo, nella cui infermeria, dotata di un piccolo letto ad una piazza, avevamo una volta dormito in due, perché non possedevamo nemmeno le trecento lire per pagare l’ospitalità in una piccola pensione.

Confesso che non passo più da tempo da via degli Orti, la strada che conduce al cinema all’aperto Sicoli, dove seduti su terribili sedie in ferro assistevamo alla proiezione dei film che non avevamo potuto vedere durante l’inverno. Il cinema è chiuso da tempo e la recinzione in mattoni rappresenta per me un vero e proprio “muro del pianto” tanti sono i ricordi indelebili che mi legano a quel luogo.

Ora passo le mie giornate estive passeggiando in centro dove, diligentemente, svolgo i miei riti quotidiani.

Un deferente inchino alla sede della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, uno sguardo alla vicina profumeria di Renato e al negozio di scarpe di Bruno, un caffè al bar Caruso.

L’ultima tappa, quella più importante, per salutare Rocco e Carlito Capanna e per comprare i giornali dall’amico di sempre Claruzzo.

Sorridendo gli chiedo “L’Unità” anche se da tempo non è più in vendita. E’ un gioco infantile perchè anche prima era impossibile comprare il giornale nel suo locale.

L’Unità, Claruzzo, la vendeva per strada per conto del partito e ne ha venduto tante, come orgogliosamente mi ricorda ogni anno, da meritare un viaggio premio in Unione Sovietica e un calcio nel sedere dall’illustre genitore incarognito per la testardaggine del figlio che, unico caso al mondo, si faceva concorrenza da solo.

Bei tempi!

Redazione TirrenoNews

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