Chi paga una raccomandazione per un posto di lavoro ai figli e chi prende questi soldi millantando di avere le conoscenze giuste per ottenere il risultato, sono sullo stesso piano quanto a livello di «turpitudine» del comportamento, sottolinea la Cassazione in un curioso verdetto su un 'affaire' napoletano.
Tuttavia ad avviso degli 'ermellini' - che hanno respinto il ricorso di un padre che rivoleva i 20mila euro pagati invano a un 'amico' per un posto in banca alla figlia - se la raccomandazione fallisce, e il posto evapora, i soldi devono restare a chi se li è presi, come accadeva nell'antica Roma.
Con buona pace di chi ha pagato per nulla.
In vicende del genere, spiegano i supremi giudici, prevale «il noto brocardo romanistico» per cui «in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis».
Insomma quando il 'contratto' di scambio avviene nella reciproca scorrettezza, nulla può essere richiesto indietro e si tiene i soldi l'ultimo che li ha messi in tasca.
Spiega la Suprema Corte che pagare per un posto è senz'altro un «illecito» contrario alla legge e all'ordine pubblico, e questo «a prescindere dall'esito, magari anche negativo, della trattativa immorale».
È pure un atto contrario al buon costume, sottolinea la Cassazione.
E quando un accordo 'turpe' realizza «la contemporanea violazione tanto dell'ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità», nulla si può pretendere indietro.
Così - come nella migliore tradizione napoletana - chi ha avuto ha avuto, e chi ha dato ha dato: i soldi rimangono a chi li ha presi e anche l'articolo 2035 del codice civile viene in soccorso dicendo che «chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume non può ripetere quanto ha pagato».
Pertanto Francesco B., un padre di Torre Annunziata nel napoletano, truffato dall'amico Francesco L.M. che si era fatto dare 20mila euro assicurandogli un lavoro al Banco di Napoli per l'amata figlia Luisa, non riavrà il prezzo della raccomandazione flop.
Il poveruomo raggirato aveva denunciato per truffa il millantatore, ma la prescrizione lo aveva salvato.
In primo grado il tribunale torrese aveva detto NO alla restituzione, poi la Corte di Appello di Napoli nel 2016 aveva dato ragione al padre e ordinato all'amico di ridargli i soldi.
Ora la Cassazione ha accolto il ricorso del millantatore e ha definitivamente stabilito che si deve tenere i soldi.
In nome della «natura della causa e del comportamento, sicuramente da censurare» tenuto da entrambe, il verdetto ha stabilito che le spese legali devono pagarle metà per uno.