Stavo riflettendo su alcune cose riguardanti la nostra lingua amanteana. Qualche estate fa, alla fine di una partita di tennis presso l'allora "Palmar" Hotel, chiesi ai gestori la chiave della doccia. La risposta, gentile, fu che la "doccia" era "rutta". Corsi a casa sudato a docciarmi. La settimana successiva ritornai a giocare sullo stesso campo da tennis. Alla fine della partita chiesi, come tante altre volte, la chiave della doccia. Giuseppe, uno dei gestori, mi guardo un po’ perplesso e aggiunse: " Gigi, te l'ho già detto la settimana scorsa; la doccia è rutta". Così, un po’ sconsolato e un po' pensieroso, raccontai l'accaduto a mia madre. Lei, dopo 40 anni, mi fece capire che "rutta" nella nostra lingua significava per sempre. Non momentaneamente. Oggi, 21 Luglio 2016, dopo essermi consultato con la mia novantenne madre, ho scoperto che "ciuoto" nella nostra lingua non significa "matto" ma "scemo". “Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole”,questa frase, che fa da esordio alla canzone: Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio) di De André- tratta dall’album Non al denaro non all’amore né al cielo del 1971 – basterebbe da sola a svelare il senso di disagio e incomunicabilità di cui è vittima il protagonista. Il brano, ispirato all’epitaffio di Frank Drummer, personaggio dell’Antologia di Spoon River, creduto folle perché incapace di trasmettere i suoi pensieri attraverso il linguaggio, è la trasposizione musicale di un problema sociale molto discusso dopo il 1967. La soluzione si “ebbe” nel 1978, con l’approvazione della legge Basaglia e la chiusura definitiva dei manicomi. “La mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro”, così recitava la poesia di Lee Masters, rendendo manifesta non solo l’oggettiva difficoltà di partecipazione, ma il senso di ridicolo e di esclusione che la patologia stessa comporta. Ogni villaggio ha bisogno del suo “scemo” da additare, poco importa se pazzo lo sia davvero, o se si tratti soltanto di disturbi relazionali, di paura, di fragilità. Cito volentieri il motociclista di Amarcord di Federico Fellini. “Chiamo imbecille chi ha paura di godere”. Scriveva Albert Camus. E’ un pazzo? No, è uno scemo. C’è differenza, e come, tra pazzia e scemenza. Solo gli scemi continuano a non capirla. Per loro sarà opportuno riproporre una vecchia storiella. Un’auto in transito vicino a un manicomio perde una ruota con tutte le viti. La ruota viene recuperata, le viti no. Il conducente si dispera. Un pazzo che ha visto tutto dalla finestra gli grida: “Niente paura: recuperi una vite da ciascuna delle altre ruote, e con tre viti potrà montare la rimanente, riprendendo il viaggio”. “Grazie, geniale… Ma… lei è proprio matto?” “Sì, sono matto, ma non sono mica scemo”. Lo scemo è incoerente e sconclusionato, mentre nella cosiddetta follia c’è sempre una logica. Vi ricordo cosa dice Polonio di Amleto nell’omonimo Dramma. “C’è del metodo in questa follia”. Polonio è un vecchio pedante e insopportabile, che per il interporsi si prende una pugnalata destinata ad altri. Ma anche lui non è scemo, benché Amleto, ingenerosamente, lo qualifichi come tale.
Alla presenza di un qualsiasi matto Amantea si divide in due: da un lato il triste e solitario antieroe schivato da tutti, e dall’altro la piazza, la massa che ride al suo passaggio. La logica di derisione del gregge, ancora oggi, si innesca facilmente alla vista del minimo segno di diversità. Il “Ciuoto” fonda la propria forza sulla presunta normalità (di cui è difficile dare una definizione) che lega un membro all’altro, imponendo l’emarginazione di tutto ciò che fuoriesce dai ranghi delle consuetudini e convinzioni che garantiscono esclusività e appartenenza. Il Paese (ovvero la maggioranza), prende “coscienza”, si fa per dire, solo di fronte al folle che ne giustifica l’esistenza. Oltre non vò!
Gigino A Pellegrini & G el Tarik