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In memoria

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in memoriaAl mio ritorno dall’Ovest canadese e dalla tendenza delle sue città di espandersi orizzontalmente. Sempre più inaccessibili gate communities.

Sempre più alienazione. All’improvviso riemerse dalla mia mente una sera di qualche anno fa a Firenze. Invitato ad una cena insieme all’amica Viviana. Fra le persone presenti c’era anche l’architetto Leonardo Ricci, allora preside della facoltà di Architettura. Avevo letto alcuni suoi articoli che mi avevano entusiasmato.

Così mi ritrovai a chiacchierare con lui sul ruolo dell’architetto nell’era moderna. Lui stava per lasciare l’università e andarsene in pensione. Mentre cercavo fortemente di concentrarmi su cosa stesse dicendo, venivo distratto, di tanto in tanto, dalla bellezza di una donna che si accompagnava ad un altro professore.

 

Ciò che rimane di quella conversazione sono i frammenti di un suo sogno segreto. Poter progettare e costruire una sola casa. Qualcosa che assomigliasse ad una chiesa ma nel suo significato primo di casa per tutti.

Una casa aperta giorno e notte. Una casa in grado di permettere alle persone di socializzare e conoscersi. Un’ agorà, non certo virtuale, per rompere il cerchio di solitudine, alienazione e odio. Una casa per tutti coloro che vivevano nelle città e sentivano il desiderio di stare insieme in pace e con amore. Era un sogno che per realizzarlo non poteva progettarlo e costruirlo da solo.

Era il racconto di un grande irregolare della cultura italiana del secondo ’900, un intellettuale caratterizzato da un netto furore laico.

Si era formato durante la II guerra mondiale all’interno di una cultura minoritaria e per molti versi radicale come quella valdese (a Firenze contava personalità come Franco Fortini e Giovanni Klaus Koenig).

Finita la guerra Ricci fu l’animatore di alcune esperienze sociali uniche, come la comunità di Agàpe, costruita facendo spaccare e trasportare le pietre a giovani ex partigiani e fascisti perché anche loro imparassero a “ricostruirsi” insieme. Qualcosa di molto simile ai kibbutz israeliani degli anni sessanta.

 

Le parole di Ricci mi risuonano ancora nelle orecchie: “…La forma è una conseguenza del potenziale di vitalità insito dentro l’oggetto che sta per nascere. Fare un’architettura vuol dire far vivere la gente in un modo piuttosto che in un altro”.

Quello che invece sta succedendo nell’Occidente e non solo, avrebbe fatto inorridire il visionario Ricci e la sua idea di convivenza. Ci sono delle notevoli rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie imponente e diversificata di “espulsioni” sociali, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene volutamente documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, e dunque non viene narrata come una dinamica omnicomprensiva che sta conducendo l’umanità in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.

Quella delle “espulsioni” va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nel sistema del potere attuale e di quello del prossimo futuro le espulsioni attraverseranno domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Vi saranno e vi sono già diversi modi di “espulsioni” che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari.

Tra gli esempi dei processi di espulsione, vanno ricordati il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slums e i massicci esodi di disperati che fuggono, da un lato all’altro, dalle guerre e dai massacri, in una specie di recinto dove normalmente si addestrano i cavalli selvatici. Riciccia davanti ai miei occhi quell’uomo; quell’architetto visionario che alla fine della sua carriera voleva essere ricordato come un rivoluzionario: “…Così cominciavo la mia prima lezione.

 

Sentite ragazzi. È arrivato fra noi il momento di fare una scelta: scelta nella confusione. Questa scelta non può essere gratuita. Voi farete dell’architettura. Ma fare dell’architettura non vuol dire progettare una forma piuttosto che un’altra. Questa è una posizione inammissibile oggi.

La forma è una conseguenza del potenziale di vitalità insito dentro l’oggetto che sta per nascere. Fare un’architettura vuol dire far vivere la gente in un modo piuttosto che in un altro. Come farete voi a regolarvi? Allora la vostra architettura sarà soltanto la testimonianza di un atto vissuto dove la gente possa compiere atti vitali e coscienti. Forma quindi, ma non più forma simbolo, non più forma droga, ma forma ‘atto’ ”. Che brutto scrivere quando mancano i gesti, mancano gli occhi delle persone vive di fronte a te. Manca soprattutto la ‘presenza’ degli altri di quegli altri che annegano nel mare di Ulisse e che non avranno mai una casa.

Sto guardando il cielo sopra di me. Le foglie stamattina si muovevano appena.

L’aria tremava e veniva da lontano, come dalla preistoria. Un suono ovattato, attutito, tanto da diventare ‘ricordo’, era il rumore di un elicottero. Strano! Sembrava il suono di una libellula che faceva fatica ad alzarsi dal suolo.

Ed ecco il sogno della notte invadere la mia mente.

Sul terrazzo, inarcavo la schiena. Respiravo a pieni polmoni. Una barca a vela fendeva il mare. Guardo Lei in lontananza. Mi sorride. Lei è dolce. Le sorrido. Ho voglia di prenderla. Di stringerla a me.

Sentire il sole dalla sua pelle. Entrare dentro di lei come nel mare! Star bene. Star bene insieme! Ma che stupido. Mi sorride. Ma sento che è delusa. Anch’io sono deluso mentre l’elicottero scompare oltre la collina.

Che c’entra tutto questo, con l’architettura, con la barbarie, con la tristezza del vivere? C’entra il mondo.

 

Il mondo come un grande enorme battello sospeso nello spazio. Questo battello che ruota e si muove velocissimo intorno al sole portando con se alberi, case e l’umanità.
“Sole splendimi sin dentro al cuore, vento caccia via pensieri e pene, non v'è al mondo diletto maggiore che andar vagando sconfinatamente”. (Herman Esse)

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

Ultima modifica il Venerdì, 05 Febbraio 2016 08:44

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