La vita di una piccola cittadina dovrebbe avere tutti i vantaggi e le agiatezze delle grandi città, senza averne i danni. La popolazione dovrebbe abitare case rese più sane e più belle da chi le progetta e costruisce. Anche in questo caso, il mondo piccolo borghese apparecchia il terreno all'ormai matura trasformazione in peggio del vivere sociale. In teoria amerebbero il “bello”; mentre nella praxi, questo elemento viene considerato non molto importante. A segnare i confini dell’urbanistica di una moderna cittadina non è dunque uno specifico culturale, bensì, e soltanto, uno specifico urbanistico ed economico: un patrimonio abitativo fortemente degradato e deteriorato, l'assenza dei servizi sociali più elementari, la concentrazione in esso delle fasce marginali della popolazione urbana. Opere strutturali nate dalla cattiva coscienza di piccoli borghesi che hanno collaborato alla costruzione dello stato unitario, che ha visto non solo il proliferare di incarichi ma la loro distribuzione ad un personale impreparato ed inefficiente, la cui unica qualità era lo stare dalla parte del regime imperante. Balconi senza ringhiere, palazzi senza intonaco, muri che nascondono interni desolati. Scheletri tirati su e mai terminati, progetti faraonici che hanno visto la loro realizzazione solo su carta. Al massimo potrebbero sperare in una mezza vita tridimensionale sullo schermo di un computer. Altro orrore è il non finito calabrese, che fa da sfondo a manifestazioni, a campagne elettorali, a sfilate per le vie cittadine e al passeggio delle Madonne in giro per il paese, è una presenza costante e ingombrante, una bruttura che si è impadronita della quotidianità dei calabresi. Ciascuno si imbatte quotidianamente in questa architettura dell’assenza, del non finito, così tipico e caratteristico della Calabria. La incontriamo dappertutto, passeggiando sul lungomare e vedendo la bruttura di un palazzaccio nella parte sud del lungomare. Un condominio che non ha mai srotolato il suo tappeto rosso guadagnandosi l’oscar della bellezza. Case che sono state tirate su a caso per le generazioni future e per quelle che verranno, ma che probabilmente non ci abiteranno mai. Ecco cosa rappresenta il non finito. Case con i mattoni a vista, con i tondini di ferro che spuntano dai tetti, sono proprio il simbolo delle promesse mai mantenute. In molti casi il non finito è una struttura costruita con i propri risparmi da privati. Magari da gente che se n’è andata all’estero e che sperava di poter tornare al proprio paese d’origine. Basta guardarsi intorno e si leggono insegne in spagnolo, in inglese e francese. Nomi in moltissimi casi che determinano il paese dove il proprietario ha lavorato per anni, prima di tornarsene al paesello. Il non finito non si limita alla bellezza o bruttezza. Sembrerebbe necessario passare da una dimensione estetica a una etica. Il non finito non è il classico problema di abusivismo o di una casa non finita, è un problema di luoghi di vita. Un monumento alle aspettative deluse. Un monumento al fallimento delle politiche per il ripopolamento dei paesi e dei sacrifici fatti da chi in questa terra vorrebbe vivere o tornare ma che non può perché mancano lavoro e prospettive. Però è anche molto di più, e l’aspetto estetico non è secondario. Come si può convivere con queste casacce, dormitori o strutture incomplete, progettate da mediocri che hanno pensato di arrotondare lo stipendio di insegnante in qualche anonima scuola media, spolverando il proprio diploma di laurea. Questi orrori siamo talmente abituati a vederli, a viverci accanto, a sapere che ci sono, che ormai nessuno ci fa più caso. Appartengono alla normalità. Nessuno se ne sconvolge. Al di là del bello e del brutto. Fanno parte di noi, appartengono al nostro modo di “non vivere”.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik