L’Agenzia fotografica francese Afp per celebrare il 1° maggio ha pubblicato un album fotografico contenente 22 professioni che non esistono più. Ne ha dato notizia l’altro giorni “La Stampa” di Torino. Sfogliando l’album si scoprono universi professionali nascosti negli angoli più inaspettati. A Nuova Delhi c’è un solo grammofonista; a Belgrado c’è l’’ultima ombrellaia che ripara ombrelli nel suo negozio; in Italia un solo gnomonista, costruisce e ripara meridiane; ad Atene un solo calzolaio che crea scarpe in pelle su misura; a Bangladesh c’è un solo uomo che pulisce orecchie anche a domicilio; in Egitto c’è l’unico sviluppatore di fotografie; in Columbia un ragioniere di strada che sbriga pratiche amministrative.
Anche io, alcuni anni fa, mi sono occupato in un libro intitolato”Viaggio nella Memoria” dei giochi infantili e popolari, dei mestieri, delle usanze e delle tradizioni. Così ha scritto il caro Prof. Attilio Perri (ahimè non più tra noi) :- Il lavoro di ricognizione di Francesco Gagliardi non solo restituisce alla coscienza storica segni e simboli dell’antica civiltà contadina ed artigiana, quanto stimola la riflessione sulla nostra società il cui principio supremo di vita è il piacere -. Oggi vi voglio parlare, amici miei carissimi, di alcune professioni scomparse che fino agli anni cinquanta c’erano anche in Amantea: l’ammola forbici, l’umbrellaru, u capillaru e u ferraciucciu.
L’ammola forbici si posizionava dove ora c’è l’oreficeria Dea, mentre di ferraciucci c’è ne erano due: uno in Via Nazionale e l’altro in Via Orti dove ora c’è il Cinema Sicoli. Delle altre professioni scomparse ve ne parlerò quattro alla volta ogni settimana.
-Ammola forbici, curtielli e rasuli!- questo era il grido assordante che si udiva nelle piazze il giorno del Santo Patrono. Era il grido dell’arrotino che invitava i paesani a portare le forbici, i coltelli e i rasoi per essere lucidati e molati. L’arrotino arrivava spingendo un trabiccolo simile ad una carriola. Una grande ruota, dalla quale una lunga cinta di cuoio imprimeva velocità ad una mola sempre bagnata da una goccia d’acqua che scendeva da un barattolo di latta, veniva fatta girare con la spinta del piede sinistro, e l’esperto arrotino, con le mani sempre ferme sulla mola, girava e rigirava l’oggetto prezioso fino a quando era ben lucidato e molato. L’arrotino lavorava con le mani e con i piedi e per lunghissime ore la sua schiena stava curva sulla mola.
Nelle brumose giornate novembrine nelle piazze e nelle viuzze del paese si elevava alto il grido de l’umbrellaru che invitava le comari a portare gli ombrelli per essere riparati. Portava a tracolla una cassettina con dentro gli arnesi necessari. Viaggiava a piedi. Si fermava negli angoli delle strade e si sedeva sui gradini delle scale o su di un panchetto. Con pinze, tenaglie, morsetti, fil di ferro, aggiustava e sostituiva le stecche, il collare, la forcella e, se necessario, anche l’impugnatura dell’ombrello. Poi lo apriva e lo richiudeva bruscamente, lo faceva roteare a destra e a sinistra per dimostrare alle massaie il bel lavoro eseguito e glielo consegnava soddisfatto. Si alzava e proseguiva per le vie del paese al grido.- Umbrellaruuuu!-
U capillaru era trafficante di capelli. Raccoglieva i capelli che le nostre donne, le mamme, le sorelle tenevano nascosti nei buchi delle case. Servivano, si diceva, per confezionare le parrucche e i capelli per le bambole. U capillaru era un ambulante, con la cassetta della mercanzia a tracolla piena di cianfrusaglie varie: pastori di creta, pettini, aghi, filo per cucire, elastici. I più fortunati portavano la cassettina sul portapacchi di una bicicletta sgangherata. Era festa per grandi e piccini, quando sentivamo il grido festoso di questo personaggio simpatico e sorridente che allegramente ripeteva :- U Capillaruuu!- Doveva essere un grido e pareva un lamento, sufficiente, tuttavia, perché tutte le donne abbandonassero per un momento i lavori domestici e uscissero di casa con in mano capelli arrotolati. L’ambulante poggiava la bicicletta, afferrava i capelli e con rapidità distribuiva pettini, aghi, elastici, bottoni e pastori. U Capillaru che io ancora ricordo era Giorgio ed abitava alle Rote.
Al mondo dei ricordi appartiene l’arte del maniscalco,mestiere ormai scomparso e per sempre. Ne restano testimonianza in alcuni portoni dove ancora oggi si vedono i ferri da cavallo appesi come portafortuna o contro l’invidia ‘a jettatura. Le botteghe artigianali erano buie ed umide. I ferri per muli e cavalli venivano preparati all’interno dell’officina. Le bestie da ferrare, invece, restavano fuori. Il maniscalco prima puliva con una paletta tagliente lo zoccolo, poi vi applicava il ferro rovente ed infine ribatteva su di esso lunghi chiodi ,“i posti”. L’unghia della bestia sfrigolava fumando e un acre odore pestifero si diffondeva tutto intorno.