C’è una Calabria sconosciuta anche ai calabresi.
Soprattutto a quelli come diceva il Giusti nel Sant’Ambrogio che hanno il “ cervel, Dio lo riposi, in tutt'altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato”
Ma ogni tanto su questo meraviglioso web qualcuno stimola la nostra attenzione e così abbiamo occasione di ricordare e di farci qualche domanda.
Ricordare il mistero dei due ponti sul Savuto.
Quello Romano ( II secolo a.C.) in Scigliano detto anche “approfittevolmente “ di S. Angelo o di Annibale , che ancora resiste dopo più di due millenni.
Quello moderno di Nocera Terinese realizzato meno di un secolo fa e che è crollato rovinosamente senza essere mai ricostruito quando ebbe a compiere solo 80 anni!.
La domanda è d’obbligo.
Perché mai uno resiste 22 secoli e uno crolla prima ancora di diventare centenario?
Il secondo realizzato negli anni 20 al tempo della costruzione della SS18 è riverso sul letto del fiume e di esso restano solo macerie.
Il primo ancora sufficientemente conservato, monumento storico nazionale che è il più antico d’Italia.
Ma eccovi le necessarie notizie sul Ponte Romano tratto da http://www.scigliano.altervista.org
“Uno dei più antichi d'Italia
Lungo il tragitto verso il mare del fiume Savuto, troviamo, nel territorio di Scigliano, un ponte romano ( II secolo a: C.) detto di S. Angelo o di Annibale, monumento storico nazionale che insieme al ponte Fabbrico dell’ isola tiberina (69 a. C.) sono i più antichi d’Italia.
Il prof. Emilio Barillaro scriveva:”…Il ponte fu gittato dai romani a servizio della via Popilia nel 203 A.C.; distrutto dagli stessi costruttori all’epoca della sconfitta di Annibale per arrestare la fuga di costui ed impedirgli di raggiungere il mare e poi ricostruito con lo stesso materiale edilizio e con lo stesso modulo architettonico dei genieri del generale cartaginese per il transito della sua armata.”
Il Padula in “Calabria prima e dopo l’unità” scriveva:” Quel ponte può dirsi l’unico monumento architettonico della provincia. E’un solo arco colossale della luce di cento palmi che comincia dal suolo e non s’appoggia ai pilastri. Vi si ascende per una scaglionata che lascia tra sé e l’arco del ponte un vuoto dove si ricoverano i pastori. Mentre tu sali spesso ti viene all’orecchio uno scoppio di riso; e sono foresi e forosette che ridono sotto i tuoi piedi. Il ponte è di piperno ( roccia eruttiva effusiva, n.d.r.) e se ne ignora l’autore. Il volgo lo crede opera del diavolo e crede di vedere sopra alcune pietre l’impronta di sua mano e va a cercarvi tesori.”.
L’archeologo Edoardo Galli disse: “….guardando, poi, le fiancate appare evidente l’intenzione dei costruttori di restringere artificialmente, ridurre quanto più possibile la valle, per soverchiarla con un solo, arditissimo, arco. Questo è all’incirca, alto 13 metri e largo il doppio,ma nell’antichità doveva librarsi ad una altezza vertiginosa, poiché è risaputo che tra i fiumi della Calabria il Savuto è uno dei più noti e temuti per piene e devastazioni. Quindi non v’è dubbio che in più di duemila anni il fiume abbia colmato una buona metà dell’ altezza primitiva. Infatti non si vedono i pilastri su cui poggia la volta perché sono sotterrati nella ghiaia e come si può notare oggi, il fiume scorre a livello della corda dell’arco”.
Il ponte faceva parte dell’antica via romana, la Popilia, che venne costruita a partire da Reggio Calabria per poi congiungersi con le altre arterie che portavano a Roma. Il tracciato antico della strada da Reggio Calabria costeggiava il Tirreno, toccava Vibo Valentia, la Piana di S Eufemia, risaliva la Valle del Savuto, attraversava il ponte sul fiume e saliva ai Campi di Malito. Proseguiva poi per lo stretto corridoio del torrente Iassa, sboccava nel Busento all’ altezza del vecchio quartiere di Portapiana. In seguito, seguendo la sponda del Crati sino a Tarsia, quindi Morano, il Vallo di Diano e tagliando Salerno, Nocera e Capua, si congiungeva alla via Appia che portava a Roma.
Il Ponte romano, la cui data di costruzione risale a II secolo a.C., fu costruito con archi in tufo calcareo rosso prelevati da una cava sulla parete di una collina vicinissima al ponte. Ancora oggi si vedono i profondi tagli sulla parete, operati dagli schiavi al servizio dell’ esercito romano. Questi blocchi venivano precipitati a valle e cadevano proprio dove oggi sorge il ponte. Questi massi venivano, poi, lavorati e messi in opera o adoperati per fare la calce nella fornace adiacente, anch’essa ritrovata in passato. Le fondazioni del ponte si trovano ad profondità di circa 1,50 m dal piano attuale del greto del fiume. Sono costituite da una platea di due ordini di blocchi squadrati e sovrapposti per una larghezza di 5 m e una lunghezza pari a quella del ponte compresa la rampa di salita dell’estremo più basso. L’altezza di questa platea e circa di 1,50 m. La volta è costituita da due archi concentrici a tutto sesto di blocchi squadrati di tufo secco sfalsati. Il secondo arco è in tufo per le parti prospettiche e in pietrame e pozzolana all’interno, a copertura del primo arco portante. Da rilevare che a Roma il primo esempio di costruzione a doppio arco concentrico si ebbe nello sbocco della Cloaca Massima costruita nel 580 a.C.
L’arco portante è impostato direttamente sulla platea di fondazione, senza pile di appoggio, e il secondo arco ha solo funzione di rinforzo e di contrappeso al primo. La lunghezza dell’ arco è di 21,50 m mentre la larghezza è di 3,55 m. L’altezza massima è di 11 m rispetto all’attuale piano del fiume.
I romani in virtù dell’ importanza del ponte, lo costruirono in modo da sfidare il tempo e le intemperie, comprese le piene del Savuto (“Il Savuto è gonfio di verno e porta alberi all’impiedi “ scriveva il Padula ) .
Lo costruirono a secco, sapevano già allora che diversi materiali non davano la certezza di durare, proprio per la diversa dilatazione dei singoli materiali. I blocchi di tufo al contrario dopo oltre duemila anni si sono suturati con il calcare scioltosi dalle stesse pietre, tanto da formare un unico blocco.
Il piano di calpestio, la cui lunghezza totale è di 48 m, è stata costruito in muratura con pietrame di fiume e pietra pozzolana. Da un lato troviamo una tipica rampa romana che poggia sulla roccia della collina. Sull’ altro lato poggia invece su un arco trasversale chiuso da muri dallo spessore di 50 cm. Accanto al ponte, nei suoi estremi, esistono i resti di due garitte, utilizzate per riparare le truppe a protezione del ponte, resti ormai irrimediabilmente compromessi. Vicino al ponte, invece, sulle fondamenta di caseggiati romani è stata costruita una vecchia casa colonica , rudere anch’ esso e in parte sede della chiesetta di S. Angelo.
L’antica tradizione popolare diede a questo ponte il nome di Annibale il Cartaginese, ma gli studi, condotti dallo storico meridionale Eduardo Galli nel 1806, pare neghino queste convinzioni. Lo studioso, infatti, afferma che: “I ritrovamenti, nelle vicinanze, di embrici, di vasi, di monete imperiali, hanno generato nelle anime semplici dei paesani la falsa credenza che Annibale, prima di partire dall’Italia, ci abbia dimorato lungamente costruendo perfino il ponte e che perciò porta il suo nome”.
A smentire questa tesi è, anche, lo stile prettamente romano, l’analisi di cippi miliari sulla via Popilia, e la data di costruzione della detta via Popilia, tra il 131 ed il 121 a.C., cioè ottanta anni dopo il passaggio del generale.
Secondo un’altra leggenda, codesto ponte è conosciuto anche con il nome di ponte S. Angelo, proprio per la presenza di una chiesa dedicata a questo Santo: si racconta che questi abbia sconfitto il diavolo proprio sul ponte e quest’ultimo per rabbia tirando un calcio alla spalla destra del ponte provocò una lesione. Tale lesione non è oggi visibile, poiché fu ricucita durante il restauro avvenuto nel 1961.
Attualmente il ponte è uno tra monumenti recensiti e sotto protezione dell’ Unesco ma, inspiegabilmente, pur essendo tra i ponti più antichi d’Italia, è fuori da ogni circuito turistico sia regionale che nazionale.
Vicino al ponte, un tempo luogo di una caratteristica fiera di animali andata perduta per via della attuale legislazione in materia di vendita di animali, esiste un punto attrezzato per scampagnate, dotato di tavoli, panche e fornelli per la cottura alla brace; la legna intorno non manca. Segnaliamo anche la presenza di una fonte di acqua, all'interno del punto attrezzato, di eccellente qualità .
Il 29 di settembre è una tradizione Sciglianese il cotto di capra proprio in questa area attrezzata, che, tempo permettendo, raccoglie molti buongustai locali”