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Successe con Berlusconi, il 9 novembre 2011, ed il 12 Berlusconi si dimise: proprio per questo il suo partito non dovrebbe parlare!

Il 12 novembre 2011 gli subentrò Monti e lo spread si mantenne altissimo..

 

 

Scese solo con il Decreto Salva-Italia (guarda caso)che recava provvedimenti in materia fiscale e previdenziale (la famosa legge Fornero).

Il decreto ebbe però l’effetto di stemperare la tempesta finanziaria, con lo spread che il 5 dicembre scese a 374 punti.

Poi risalì fino a quota 500 punti.

Piano, piano cominciò a calare nei mesi successivi.

Chi parlò allora? Buh!

Ed allora il silenzio, oggi, sarebbe onesto,logico, corretto ed auspicabile; tanto per non essere falsi, ipocriti e pagliacci!

Ecco a voi un articolo che ne parla e reca un’analisi dell’andamento del differenziale durante i passati governi.

“Lo spread torna a spaventare l’Italia mentre il governo Conte è pronto a indossare l’elmetto e andare allo scontro frontale con Bruxelles: dopo una sostanziale bocciatura del Def da parte della Commissione Europea, la maggioranza carioca non intende fare passi indietro difendendo le scelte prese nell’imbastire il fondamentale documento.

Un muro contro muro questo tra il governo Lega-Movimento 5 Stelle e l’Unione Europea che ha agitato i mercati, con il differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi che è tornato pericolosamente a salire.

Ma da cosa dipende l’oscillazione dello spread Btp-Bund? Per capire al meglio cosa può incidere in negativo o in positivo, abbiamo analizzato il suo andamento nei momenti più significativi di questa Seconda Repubblica, per capire quali avvenimenti hanno determinato le mosse del differenziale nell’uno e nell’altro senso.

Lo spread quando è nato l’Euro

Il 1 maggio del 1998 l’Italia venne ufficialmente inserita nel novero dei primi paesi che avrebbero utilizzato la Moneta Unica. Non fu semplice però rientrare nei rigidi parametri comunitari, tanto che nel 1996 il primo governo Prodi dovette ricorrere al Contributo straordinario per l’Europa, meglio noto come Eurotassa, ovvero un’imposta basata su cinque aliquote progressive (fino al 3,5%) sul reddito annuo lordo.

Il 1 gennaio del 2002 quando entrò ufficialmente in circolazione l’Euro, lo spread tra Germania e Italia era a 27 punti. Alla guida del paese allora c’era Silvio Berlusconi, per quello che era il suo secondo governo dopo la breve esperienza del 1994.

Durante questa legislatura, che durò fino al 2006 con tanto di rimpasto di governo un anno primo della scadenza, lo spread ha sempre mantenuto un andamento stabile per poi scendere a 17 punti quando a maggio il paese è tornato al voto.

Grazie a una coalizione dell’Ulivo formato monstre, da Rifondazione fino all’Udeur di Mastella, Romano Prodi vinse le elezioni e diede vita al suo secondo governo che durò fino a gennaio 2008. Quando il professore si dimise, lo spread era a quota 40 punti.

Voto anticipato e nuovo largo successo per Silvio Berlusconi che, l’8 maggio 2008, giurò insieme al suo governo quando lo spread era a 45 punti. In quel periodo però scoppiò la crisi economica che contagiò il mondo intero.

La crisi

La crisi economica globale, tra le tante conseguenze, portò anche a un progressivo aumento dello spread. Quando l’8 aprile 2009 il governo Berlusconi approvò il Decreto Anticrisi, il differenziale era arrivato a quota 122 punti.

Il provvedimento portò a un progressivo calo tanto che a inizio 2010 si era scesi a 86 punti. Oltre agli scenari economici internazionali, in casa nostra il governo iniziò a traballare per la rottura tra Berlusconi e Fini.

Quando l’ex Presidente della Camera il 30 luglio 2010 decise di abbandonare il Popolo delle Libertà e di fondare Futuro e Libertà, garantendo comunque il sostegno al governo Berlusconi, lo spread era a quota 128 punti.

Era il periodo quello anche del cosiddetto Rubygate che coinvolse l’allora Presidente del Consiglio, con Silvio Berlusconi che il 21 dicembre 2010 venne indagato dalla Procura di Milano. Quando il 30 dicembre il suo governo approvò la legge di Bilancio, lo spread era a 186 punti.

Nei primi mesi del 2011 lo spread fu altalenante anche se rimase tutto sommato costante. Quando però a inizio estate per il centrodestra arrivò una pesante sconfitta alle amministrative, considerando anche le vicende processuali del premier, il differenziale a luglio passò da 183 a 354 punti.

L’estate 2011 fu quindi una sorta di picco della crisi, con l’Italia complice anche la difficile situazione politica interna che venne inserita nei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), acronimo dei paesi che erano in difficoltà.

Con l’addio di Mario Draghi a Bankitalia e la bocciatura di Standard & Poor’s sui conti nostrani, ad agosto 2011 lo spread per la prima volta sfondò il tetto dei 300 punti, toccando l’apice dei 389 punti il 4 agosto.

Quello fu il momento in cui Jean Claude Trichet e Mario Draghi, presidente uscente e quello in pectore della BCE, mandarono una dura lettera al governo italiano indicando delle misure da adottare per evitare la bancarotta del paese: in quel momento entrò sulla scena politica Mario Monti, da molti indicato come l’unico in grado di risolvere questa crisi.

Gli ambienti del centrodestra quindi parlavano di un tentativo di rovesciamento del governo da parte dei “poteri forti”. A settembre però quando si dovette imbastire la Manovra, lo spread riprese a galoppare arrivando anche a quota 397 punti anche perché arrivò l’annunciato downgrade da parte di Standard & Poor’s.

La pressione dell’Europa così aumentò sempre più tanto che il 26 ottobre Silvio Berlusconi cedette e, anche lui con una lettera, promise che il suo governo avrebbe adottato misure per aumentare l’età pensionabile e la flessibilità nel mondo del lavoro.

La maggioranza però ormai era allo sbando e il 9 novembre 2011 lo spread toccò il suo record: 574 punti. Il 12 novembre quindi, dopo l’approvazione della Manovra, Berlusconi si dimise e il 16 novembre prese il via il governo Monti.

Dal governo Monti a quello Lega-5 Stelle

Caduto sotto i colpi dello spread, il governo Berlusconi lasciò il passo a quello dei tecnici presieduto da Mario Monti. Il 4 dicembre 2011 il Consiglio dei Ministri varò il Decreto Salva-Italia, con provvedimenti in materia fiscale e previdenziale (la famosa legge Fornero).

Il decreto ebbe però l’effetto di stemperare la tempesta finanziaria, con lo spread che il 5 dicembre scese a 374 punti. Dopo un fiammata fino a quota 500 punti, nei mesi successivi il differenziale iniziò a calare.

Quando il 24 e 25 febbraio 2013 l’Italia tornò alle urne, lo spread era sceso a 293 punti. Con la nascita del governo Letta, continuò la discesa tanto che il 1 gennaio 2014 il differenziale faceva segnare quota 216 punti.

Arrivato Renzi al governo nel febbraio 2014, quando il 26 maggio il Partito Democratico alle elezioni europee ottenne il 40% lo spread fece segnare 156 punti, continuando a calare progressivamente nei mesi seguenti.

Con l’introduzione del Jobs Act e l’approvazione della Manovra, il 31 dicembre 2015 lo spread arrivò a 96 punti. Il 5 dicembre 2016, giorno delle dimissioni di Matteo Renzi dopo la sconfitta referendaria, il differenziale era a 165 punti.

L’instabilità politica del paese che ne derivò, nonostante l’avvio del governo Gentiloni, riportò a febbraio 2017 lo spread a quota 200 punti. Quando il 23 dicembre però venne approvata la legge di Bilancio, il differenziale era tornato a 148 punti.

Si è arrivati così alle ultime elezioni politiche del 4 marzo 2018 con lo spread che faceva segnare 131 punti. Nonostante il sostanziale pareggio, l’asticella è rimasta pressoché stabile fino a metà maggio.

Tra il 28 e il 29 maggio, giorno in cui in pratica si è fatto il governo Conte, lo spread è balzato da quota 233 a 289 punti. Dopo questo forte rialzo, il differenziale è rimasto stabile per tutta l’estate fino all’arrivo di settembre e del Def da dover imbastire.

Le rassicurazioni del ministro dell’Economia Giovanni Tria hanno fatto da pompiere e lo spread così è sceso fino a 233 punti. Quando però il Def è stato ufficializzato, ecco che il differenziale ha ripreso la sua corsa tornando sopra il muro dei 300 punti.

Vedendo e analizzando questa sorta di “storia dello spread”, si può notare come in fondo ci siano delle analogie tra quello che accadde nell’autunno del 2011 e quello che sta avvenendo in questi giorni.

Al momento comunque la situazione è preoccupante ma non grave. Ad incendiare la situazione però (come avvenne con Berlusconi) potrebbe essere il responso delle agenzie di rating atteso per fine ottobre.

In caso di un declassamento, il governo Lega-Movimento 5 Stelle potrebbe trovarsi a far fronte a una nuova impennata dello spread: nel 2011 Berlusconi alla fine si piegò all’Europa e accettò l’arrivo dei tecnici, difficile però immaginare che Salvini e Di Maio possano decidere di comportarsi nell’eventualità allo stesso modo.

Da https://www.money.it/andamento-spread-Italia-ultimi-governi Alessandro Cipolla 12 Ottobre 2018 - 10:19

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genteLa fusione non si regge sulla capacità di accattonaggio del gettito erariale

CORIGLIANO-ROSSANO – Giovedì, 22 Novembre 2018 – E allora, perché non tutto il cucuzzaro?! C’è chi scomoda Catalano, noi scomodiamo Totò per cercare di chiarire e chiudere definitivamente la pantomima messa in piedi da qualche ex assessore. Chiariamo subito, a scanso di equivoci, che la unificazione di due grandi realtà urbane come Corigliano e Rossano non si regge in piedi sulla capacità di accattonaggio del gettito erariale ma su politiche virtuose che sappiano guardare oltre, che sappiano mettere in campo nuove progettualità e da qui intercettare nuovi finanziamenti. Altro che due o dieci milioni di euro di bonus. Una prima certezza la fusone l’ha data: a governare le sorti della nuova Città dovrà essere una classe politica nuova e virtuosa che sappia tagliare i legami con tutti quei feudi di poteri locali che negli ultimi 30 anni hanno lentamente depauperato e isolato le due realtà dal resto della Calabria.

È questa la posizione del coordinamento cittadino de Il Coraggio di Cambiare l’Italia di Corigliano-Rossano in merito alla querelle nata attorno al bonus erariale di due milioni di euro l’anno e per i prossimi cinque anni, di cui potrà godere la nuova Città.

Se proprio vogliamo dirla tutta nell’ottica di una grande Città di quasi 100mila abitanti che è baricentrica in un’area che ha altrettanta utenza, e che quindi deve crescere ed offrire servizi, sono pochi anche quei 10milioni di euro che qualche ex assessore, affetto da miopia politica cronica, vorrebbe che si attribuissero al nuovo Municipio. Il problema, però, è che Corigliano-Rossano non potrà e non deve parassitare soldi pubblici dallo Stato. Deve pretendere le giuste risorse ma, contemporaneamente, deve sapere investire tempo, forze e risorse in progettualità che portino sul territorio importanti investimenti e nuovi finanziamenti che creino sviluppo, servizi e lavoro.

Per fare questo serve una classe politica e dirigente nuova che abbia lo sguardo finalmente rivolto alle esigenze delle Persone e che non gestisca più la cosa pubblica in modo oligarchico in base alle velleità e alle ambizioni personali. Perché questa, si sappia, è stata la più grande vergogna che ha contraddistinto per larga parte (per fortuna non tutti!) gli ultimi decenni di vita amministrativa nelle due ex Città. Causa questo modus operandi di sindaci e assessori, che hanno saputo solo guardarsi i piedi, siamo stati vittima di scippi scellerati e di abominevoli scelte che hanno escluso Corigliano e Rossano dalle scelte strategiche regionali e nazionali.

Purtroppo, molti – ribadiamo, non tutti, per fortuna -  tra quelli che hanno retto le sorti delle due ex città hanno preferito andare con il cappello in mano a questuare favori personali piuttosto che sedersi ai tavoli di trattativa per battere i pugni e patrocinare gli interessi del territorio. Anche chi oggi, da ex, recrimina e millanta maggiore credito verso il Governo centrale per la nuova Città è stato tra quelli che non ha mosso un dito perché le cose migliorassero e si creassero nuove opportunità per i cittadini. È storia ed è scritta nelle pagine indelebili della memoria della nostra terra.

©CMPAGENCY

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(ANSAmed) – MADRID, 20 NOV – Il premier spagnolo Pedro Sanchez chiede al Marocco di ridurre la migrazione irregolare, per inviare un “messaggio categorico alle mafie”, riferisce oggi El Pais.

“Se non lo facciamo, saranno i nostri figli a morire nello Stretto“,

ha avvertito il presidente del governo socialista, dopo l’incontro a Rabat col suo omologo Saadedin el Otmani.

La pressione migratoria sulla Spagna è in costante aumento: al 15 novembre scorso erano 55.949 i migranti sbarcati da inizio anno sulle coste iberiche, dei quali oltre il 90% provenienti dal Marocco, divenuto il nuovo crocevia della rotta del Mediterraneo occidentale utilizzata dai trafficanti, stando ai dati diffusi dal governo di Madrid.

Il dato equivale a un aumento del 142% dei flussi rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Il governo del Marocco ha promesso di “rafforzare le politiche di rimpatrio” degli immigrati irregolari dalla Spagna, come ha confermato Sanchez al termine della riunione.

Dopo aver manifestato “piena soddisfazione” per la risposta di Rabat sui respingimenti, Sanchez ha concordato di aumentare la quota dei rimpatri quotidiani, che era stata ridotta nelle ultime settimane dai 25 iniziali ai 10 accettati ogni giorno da Marocco alle frontiere delle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla.

Da inizio dell’anno, il Paese magrebino ha accettato il rimpatrio di 3.400 marocchini, a fronte dei 4.450 accettati lo scorso anno.

Dopo l’incontro con Saadedin el Otmani, Sanchez è stato ricevuto in udienza dal monarca Mohamed VI.

Nel corso del colloquio, durato un’ora, sono state affrontate alcune questioni pendenti, come la visita di Stato dei monarchi spagnoli in Marocco, prevista agli inizi del 2018 ma sospesa da Rabat all’ultimo momento e ora nuovamente programmata per il 2019.

Sempre nel 2019 si svolgerà una riunione di alto livello e il forum imprenditoriale ispano-marocchino.

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