Poche righe per ribadire quello che tutti i cittadini, e i malcapitati che passano da Amantea, patiscono ogni giorno e in ogni angolo della città.
Strade dissestate, molte delle quali impercorribili, piene di buche, alcune delle vere e proprie voragini, molte prive di illuminazione.
Il pericolo per le persone, automobilisti e pedoni, è all’ordine del giorno, oltre i danni ai mezzi. A Catocastro come al Centro Storico, a Campora come ad Acquicella, nelle contrade tutte, la situazione è la medesima: abbandono, degrado, incuria, ad iniziare proprio dalla viabilità oltre che dalla carenza di servizi primari per i cittadini.
A questo bisogna aggiungere il fatto, non meno rilevante, che il traffico è sempre in tilt, in particolare su Via Stromboli (SS 18) dominata ormai dai TIR che la preferiscono all’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Eppure le soluzioni ci sarebbero eccome. Ma l’Amministrazione Sabatino, oltre ai proclami, a distanza di oltre un anno non ha provveduto neppure a redigere un Piano Traffico per risolvere la situazione della viabilità. Quindi non solo non si provvede alla manutenzione delle strade, con disagi e malcontento ormai diffuso nella popolazione, ma neppure si pensa a fare di Amantea una città degna di questo nome. Ovunque regnano degrado, abbandono ed emarginazione sociale. Una “strada” se così si può chiamare, che esprime pienamente questa triste situazione è stata asfaltata l’unica volta nel 1982. Da allora è stata dimenticata da tutti gli Dei e da questa inscusabile Amministrazione. E’ un luogo che giace nell'incuria e che si presenta scarsamente accogliente e percorribile per i suoi abitanti, i loro familiari e gli stessi spericolati cittadini che si avventurano nel percorrerla. Si tratta di una stradina comunale che collega, la strada che conduce a Serra di Ajello, alla contrada Marano. Il degrado e le oltre 500 buche, è ben visibile. Dalla sporcizia, dalla vegetazione non curata, dal dissesto e dall’assenza totale di manutenzione. Si rende dunque necessario un intervento urgente per ridare ai cittadini, che vivono in questo chilometro disastrato, il sacrosanto diritto di fare due passi, senza rompersi le gambe, su quella che una volta era chiamata strada e per rendere fruibile e dignitoso questo straordinario luogo fatto di campi coltivati, di vigneti e uliveti. Il degrado in città è sotto gli occhi di tutti e sotto il naso di tutti. In aggiunta, basta recarsi sul lungomare e dare una sbirciatina a ciò che galleggia indisturbata sul mare di Ulisse. Solo un breve accenno ai “cerotti” che coprono il corpo del paese. Dalle ex carceri, al palazzo Florio in pieno centro, ecc. E’ una storia infinita di ostacoli, incuria ma anche di scelte che hanno portato il Comune a privilegiare altri interventi e a lasciare indietro la parte alta del centro storico i cumuli di immondizia, ratti e pericolosi ciuciuli rossi. L’area del cosiddetto Centro storico costituisce, per la rilevante presenza di elementi storico-architettonici, il fulcro dell’identità cittadina e al tempo stesso rappresenta una delle zone con maggiore capacità di condizionare la trasformazione della città. Senza considerare che: la città storica evidenzia da tempo dei trend allarmanti: riduzione di nascite e invecchiamento di quella popolazione che rimane, abbandono di una parte del patrimonio edilizio, terziarizzazione e successivo decadimento delle attività commerciali. Altre problematiche incidono fortemente su questa grave situazione: la mancanza di segnali stradali e la loro vetustà o ad esempio il verde urbano non curato dall’amministrazione che in occasione di eventi meteorologici provoca spessissimo danni a cose e persone. Non solo il centro storico: le realtà periferiche ed ancor più quelle delle frazioni lamentano lo stato di totale abbandono in cui sono state lasciate dall’amministrazione. Marciapiedi inesistenti o totalmente inagibili, verde pubblico lasciato a se stesso. Politiche, quelle di questa inverosimile Giunta comunale, che hanno impedito un’equa distribuzione su tutto il territorio delle risorse e quindi degli interventi, provocando danni, che i numeri sopra elencati dimostrano senza alcun alibi per il governo cittadino.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Politica
Il consueto malcostume di tutti i regimi liberal democratici è la mancanza di una via di mezzo tra l’eccessiva confidenza eccezionalmente testimonianza ad alcuni depositari del potere e l’ombrosa diffidenza di cui la più parte è vittima. Questi sentimenti di fiducia o diffidenza si espandono negli altri cittadini come una epidemia, fortificandosi man mano attraverso il riflesso vicendevole di tutte le fiducie simili tra loro, così come di tutti i sospetti. E' questa la maggioranza degli Amanteani? A volte sospetto di sì e mi viene una enorme tristezza e uno sconforto abissale. Comprendo come un tale pensiero possa risuonare negli animi come una critica disfattista e senza motivo, in un periodo così denso di problemi dove dovrebbero essere il positivismo e la voglia di fare i sentimenti dominanti. Purtroppo qui, in quello che avrebbe dovuto essere uno dei luoghi più belli della Calabria, in questa cittadina adagiata sulla riva del mare di Ulisse, le cose sono andate di male in peggio negli ultimi 50 anni. Proprio in questi giorni, gli amanteani fanno finta di non vedere ciò che sta succedendo su di un pezzo di costa a sud della città. Qualcuno sta lavorando alacremente, giorno e notte, con mezzi pesanti e non per recintare un pezzo di costa pubblica appartenente al demanio dello Stato. Chi sta “pulendo” e recintando non è lo stato né il comune ma qualche privato. Non un mecenate ma qualcuno che trarrà profitto da questa situazione con l’arrivo dell’estate. Già esiste un altro pezzo di suolo pubblico di cui si è appropriato il gestore di un albergo “la Scogliera” . Questa evidente sottrazione ai cittadini è stata denunciata l’anno scorso per cui chi scrive è stato anche minacciato di morte dallo stesso gestore del sopracitato albergo. Riprendendo il discorso, il nuovo tentativo di appropriazione di terreno demaniale riguarda una striscia di costa di circa 2 chilometri che va dal ponte della “Tonnara” alla scogliera di Coreca. Striscia di costa bellissima che gli amanteani non potranno più frequentare gratuitamente. Questo, probabilmente, dovuto ad una eventuale “svista” (non ce ne siamo accorti) da parte di tutte le autorità competenti, incluso gli amministratori comunali e il suo dirigente responsabile dell’Ufficio demaniale. Ecco perché mi sento di definire “vigliacco” e “codardo” il paese dove sono nato. Altro che paese di eroi, navigatori, scrittori e musicisti. Siamo diventati un Paese di servi, cialtroni, collusi, ignavi ed anche egoisti vigliacchi. E per reprimere quel senso di colpa che ci tormenta diventiamo buonisti. Ce ne freghiamo se il vicino di casa è malato o anziano che ha bisogno di un minimo di considerazione. Ci irritiamo se qualcuno bisognoso della nostra semplice comprensione ci limita anche un centesimo di grado di libertà. Libertà che spesso vuole dire insolenza, arroganza, sopruso. Poi, quando tentiamo di alzare la testa per reagire, ecco arriva lui: lo Stato. Lui, nostro nemico. Ci sta educando alla non azione. All'ignavia.Poi non ci si può meravigliare se i vigliacchi non alzano un dito a dare aiuto a persone bisognose . Vigliacchi che hanno perso ormai ogni riferimento. Che non hanno neanche il coraggio per vivere nella realtà. Invece di tentare un'azione esclamano "doveva capitare proprio a me?" E viscidi, si dileguano. Noi pavidi, schiavi delle nostre incertezze, siamo la causa principale del declino di questo povero Paese. A nostra “insaputa” siamo diventati strumento dei delinquenti più sfrenati. Siamo diventati il grimaldello di chi ci manda alla deriva. Siamo diventati gli escrementi di una società putrida governata da altrettanti putridi soggetti scelti da noi. E pensiamo di lavarci la coscienza con la preghiera di rito a quelli che vengono chiamati "migranti" alla messa della domenica, sfoggiando l'abito nuovo? O giocando a fare i compagni con i soldi che non abbiamo guadagnato. E chi può fronteggiare questa situazione se non lo straniero che pare uscito dall'inferno? Ci ha pensato Clint Eastwood nel lontano 1973 con il film “High plains drifter” pessimamente tradotto con “Lo straniero senza nome”. Sono sempre più convinto che il regista-attore americano avesse in mente proprio Amantea nel realizzare questo film. Al personaggio deus ex machina del film viene promesso credito illimitato e la possibilità di poter fare tutto quello che vuole, e ne approfitta promovendo a sindaco e sceriffo nonché suo aiutante il nano del paese, facendo sloggiare tutti gli ospiti dell'albergo per stare più comodo, scopandosi le mogli dei "timorati" paesani, facendo dipingere tutte le case e la chiesa di rosso, cambiando il nome delle cittadina sul cartello all'ingresso del paese in “Hell”, inferno. All’arrivo dei “cattivi”, da lungo tempo atteso, “il vendicatore” scompare nel nulla, proprio come uno spettro, e il villaggio sembra consegnato ai nemici. Ma l’Eastwood regista è tutt’altro che monocorde e spesso sorprende con impennate più stilizzate, come, in questo film, la potente e notturna resa dei conti finale, dove, nel villaggio incendiato, lo straniero, armato di frusta, nei chiaroscuri della fotografia di Bruce Surtees, assume sempre più le sembianze spaventose di un fantasma, o comunque di una creatura ultraterrena.Rientrato in città completamente ridipinta organizza il "bentornati" ai tre, con tanto di tavolata a festa e di esposizione di uno striscione di benvenuto; fa preparare i cittadini allo scontro ma, nel momento in cui i tre arrivano sparando, nessuno reagisce e molti vengono uccisi, mentre lo straniero si era allontanato lasciando che i cittadini si arrangiassero. La sera tutti i cittadini vengono radunati nel saloon dai tre banditi, che nel frattempo avevano dato fuoco a mezzo paese, ma all'improvviso uno dei tre viene trascinato fuori da una frusta e, mentre gli altri due esitano ad uscire, questi viene ucciso a frustate dallo straniero. La frusta viene gettata dentro il locale ed i due complici escono facendosi scudo delle persone, ma non trovano nessuno e rimangono soli dopo che il gruppo è fuggito a seguito di un lancio di candelotti che però non scoppiano; i due si trovano anche senza cavalli, nascosti dallo straniero, ed allo scoperto e vengono uccisi dall'uomo uno dopo l'altro. Lo straniero in ultimo viene salvato da Mordecai, un nano da lui preso in simpatia, che uccide il proprietario dell'albergo che aveva tentato nella confusione di sorprenderlo alle spalle. Il giorno dopo lo straniero riparte, solo, nonostante il sorriso compiacente di Sarah. Purtroppo gli Amanteani, come Clint Eastwood, attendono da sempre l'uomo della provvidenza, che qualche volta, purtroppo, si identifica anche nell'uomo forte o nell'idiota di turno che ha in mano le ricette miracolose per risolvere i problemi del paese. E ciò è dovuto anche al decadimento della politica, di cui i cittadini hanno colpe non indifferenti per aver abbandonato la cultura politica ed essersi limitati a rimirarsi nello specchio e curare il proprio orticello. E' chiaro che non tutti gli Amanteani sono così, ma non è possibile, qui, mettersi a fare la distinzione tra buoni e cattivi.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Calabria
“I'll stand by you in wear or well Daisy, Daisy
You'll be the bell we'll try to rip you know
Sweet little daisy bell, You'll take the lead in each trip we take.”
La quarta rivoluzione industriale sta cambiando non solo quello che facciamo, ma anche chi siamo. Influenzerà la nostra identità e tutti i quesiti ad essa associati: il nostro senso della privacy, le nostre nozioni di proprietà, le nostre abitudini consumistiche, il tempo che dedichiamo al lavoro e al tempo libero, e il modo di progettare le carriere, coltivare le nostre capacità, incontrare persone, e nutrire i rapporti interpersonali. Sta già cambiando la nostra salute conducendoci verso un sé "quantistico", e fra non molto produrrà una nuova fase evolutiva. La lista è infinita e a porre i confini sembra esserci al momento solo la fantasia umana. Insieme a tanti altri, utilizzo la nuova tecnologia già da molti anni, ma a volte mi chiedo se l'integrazione della tecnologia nella nostra vita possa in qualche modo diminuire la quintessenza delle nostre capacità umane, come la compassione e la cooperazione. Il nostro rapporto con lo smartphone è un esempio calzante. Essere collegati costantemente può privarci di uno dei beni più importanti della vita: la pausa, la riflessione, e la capacità di avere una conversazione piena di significato. Una delle più grandi sfide individuali poste dalle nuove tecnologie dell'informazione è la privacy, che istintivamente riusciamo a percepire. Inoltre, sembra essere importante il monitoraggio e la condivisione di informazioni su noi stessi, come parte cruciale della nuova connettività. Certamente vi saranno molti dibattiti su questioni fondamentali come l'impatto sulla nostra vita interiore e sulla perdita del controllo sui nostri dati che si intensificheranno negli anni a venire. Allo stesso modo, la rivoluzione che si sta attuando nel campo delle biotecnologie e l Intelligenza Artificiale, che stanno ridefinendo il significato dell’essere “umano” spingendo indietro le soglie attuali della durata della vita, la salute, la cognizione e capacità, costringendoci a ridefinire i nostri confini morali ed etici. Né la tecnologia né la rottura causata da essa è una forza esogena sulla quale gli esseri umani non hanno alcun controllo. Tutti noi dovremmo essere responsabili della sua evoluzione, nelle decisioni che prendiamo ogni giorno, come cittadini, consumatori e investitori. Chiaramente questo il Sistema di potere decisionale cercherà di non permetterlo. Dovremmo, quindi, essere in grado di cogliere l'opportunità ed assumere il potere di modellare e condurre la Quarta Rivoluzione Industriale, indirizzandola verso un futuro che rifletta i nostri obiettivi e valori comuni. Per poter raggiungere tale obiettivo, dovremmo essere in grado di sviluppare una visione completa, condivisa e globalizzata su come la tecnologia stia influenzando la nostra vita e come potremmo rimodellare una nuova economia, gli ambienti sociali, culturali, e umani. Non c'è mai stato un momento così nella storia umana; una così grande possibilità di rivoluzionare il sistema in cui viviamo o subire uno dei momenti potenzialmente più pericolosi per l’intera umanità. Oggi il sistema del potere decisionale, tuttavia, continua ad essere volutamente fermo nel proprio pensiero tradizionale, lineare, e molto impegnato nel creare molteplici crisi nelle zone periferiche del sistema e trovare allo stesso tempo una propria continuità futura legata indissolubilmente al suo plasmare il nostro futuro, togliendo ancora una volta la possibilità all’autodeterminazione dei popoli. Per impedire tutto ciò avremmo bisogno di costruire un futuro che funziona per tutti e non per pochi. Ponendo le persone nelle condizioni di gestire la propria esistenza. Al contrario, nella sua forma più pessimistica e disumanizzante , la quarta rivoluzione tecnologia, potrebbe effettivamente avere il potenziale di "robotizzare" l’umanità e, quindi, privarla del cuore e dell’anima.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Calabria
Il sistema di potere capitalistico ha sviluppato un nuovo schieramento di mezzi per soddisfare il suo unico obiettivo, che è quello di estrarre plusvalore ovunque sia possibile e proiettarsi nel futuro senza dipendere troppo, come in passato, sulla “mano d’opera umana”.
Tutti questi mezzi, in una certa misura, attingono a risorse virtuali : "Il plusvalore virtuale" rende più facile appropriarsi di altri tipi di plusvalore.
Tutte queste forme di esproprio sono in genere presentati sotto forma ideologica marxista, per poi trasformarsi in realtà virtuale nel pensiero di James Clerk Maxwell in cui un’immagine invertita appare come se fosse nel verso giusto. Purtroppo questi non sono solo i sogni di una classe, ombre proiettate su di uno schermo virtuale, che ha spazio per molte altre proiezioni.
Al di fuori della camera oscura dell'ideologia capitalista la lotta continua. Il lavoro precario e non contro il capitale forte o precario, in un campo di lotta imprevedibilmente influenzato dalle nuove tecnologie di produzione e di informazioni.
Ci troviamo nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica che modificherà radicalmente il nostro modo di vivere, lavorare e relazionarsi gli uni agli altri. Nella sua scala, la portata e la complessità, la trasformazione sarà diversa da qualsiasi cosa l'umanità abbia sperimentato prima d’ora. Noi non sappiamo ancora quanto essa si svilupperà, ma una cosa è chiara: la risposta deve essere integrata e completa, e coinvolge tutte le parti interessate del sistema politico mondiale, del settore pubblico e privato nel mondo accademico e della società civile.
Il mondo virtuale sta condizionando, in una certa misura, tutte le forme di lavoro; creando disoccupazione e diverse nuove classi di lavoratori, costringendole a combattersi l’uno contro l’altra, senza la consapevolezza che la Rete virtuale li relega tutte in una unica moltitudine. I collegamenti non sono stati intuiti ancora dai veri utenti che sono gli unici che potrebbero rendere questa grande alleanza virtuale, reale. Potenzialmente, questa presa di coscienza da parte degli sfruttati, è possibile. Le rivoluzioni recenti conosciute come “la primavera araba” sono state caratterizzate dall’essere “prodotti” dei social media che maldestramente e con poca conoscenza sono state fallimentari.
Tuttavia, vi è una visione alternativa che è rappresentata dalla rivoluzione di strada o sul campo di battaglia.
Questo senza voler sminuire l’importanza della nuova tecnologia.
Alcune di queste tecnologie potrebbero servire a facilitare il rapido cambiamento sociale quando forniscono modi per superare le restrizioni alle libertà di espressione e di associazione. In tal modo, le tecnologie di comunicazione permetterebbero la formazione di nuove identità sociali in grado di sfidare i poteri sociali esistenti, promuovendo la crescita di un movimento di massa che si posizionerebbe come fedele al proprio paese e alla sua gente, in opposizione ai vari governi liberal democratici e non. Al vuoto creato dalla mediazione sempre più pervasiva della tecnologia indotta, reagiamo con il consumo, sempre più spesso di tipo compulsivo. La fame che è oggi tornata reale e interessa milioni di persone e famiglie alla ricerca del pasto quotidiano, è diventata anche fame di consumo. Si compra e si consuma per superare lo stress, l’ansia e la depressione, lo si fa con un appetito che non è mai soddisfatto perché mai soddisfatta è la ricerca di serenità e rilassatezza. Poco importa se questo consumo etnologico che porta a sostituire il telefonino o l’iPod in continuazione e a cambiare il proprio iPad ad ogni uscita di un modello nuovo non abbia nulla di liberatorio. Le possibilità di miliardi di persone di essere connesse da dispositivi mobili, con una potenza senza precedenti di elaborazione, capacità di memoria, e l'accesso alla conoscenza, sono illimitate. E queste possibilità stanno per essere moltiplicate grazie ad innovazioni tecnologiche in settori come l'intelligenza artificiale, la robotica, l'Internet delle cose, veicoli autonomi, la stampa 3-D, nanotecnologie, biotecnologie, scienza dei materiali, lo stoccaggio di energia, e l'informatica quantistica. La percezione generale è che stiamo vivendo tempi di crisi profonda e di grande cambiamento. Dopo anni di prosperità e di sviluppo, facciamo fatica a comprendere perché siamo arrivati qui e viviamo nell'assoluta incertezza su ciò che potrebbe succedere. La differenza con le passate innovazioni sta nella globalità della crisi e nel fatto che tocca aspetti diversi quali l'ecologia e l'ambiente, la sovrappopolazione del pianeta, l'accresciuta disparità e disuguaglianza tra ricchi e poveri ma anche aspetti psicologici e sociali quali la crisi della famiglia tradizionale e nucleare, la difficoltà delle nuove generazioni a trovare una occupazione. ( il 40% dei giovani italiani tra i 15 e i 24 anni sono disoccupati e sui rimanenti il 40% ha un lavoro precario e sottopagato) e la crisi psicologica dell'individuo alle prese con una ridefinizione del Sè in un mondo diventato reale e virtuale insieme. "Questa è la prima epoca che abbia prestato tanta attenzione al futuro, ma è piuttosto ironico, dato che potremmo non averne uno.", scriveva Arthur C. Clark autore di fantascienza e inventore britannico. Noto per il suo romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968. Una realtà diventata sempre più iconica e simbolica, manipolata linguisticamente che riduce e trasforma la ricchezza e l'abbondanza della natura e del reale e introduce sempre nuove astrazioni in grado di portarci sulla strada malfatta, di rompere ed oscurare i legami con la realtà ed impedire di soddisfare i desideri generati da situazioni di mutamento. Visto il pensiero unico dominate che suggerisce un approccio quasi religioso alla tecnologia, come si può uscire da questa situazione? Forse ridando senso alle cose e alla realtà significa riconoscere il potere della tecnologia e nel farlo operare un atto di radicale ridimensionamento. La vita non sembra essere un videogioco e l’agire umano non può essere sostituito da applicazioni. Ogni tanto sarebbe utile staccare la spina, hardware e software insieme, e nel farlo abbandonare i mondi indotti e ovattati della virtualità per riprendere in mano il proprio destino.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Calabria
Riflessioni di un ex giovane calabrese di belle speranze.
Ciò che è mancato a lui e ad una intera generazione è stata una giusta valutazione della dialettica per quel fondo della propria formazione basata prevalentemente sul dato “scientifico” (così si diceva) che induceva a vedere il mondo e la vita su di un piano di sviluppo razionale quando la realtà della vita sociale e della “lotta rivoluzionaria” metteva loro spesso davanti ad un mondo che obbediva in buona parte a spinte di irrazionalità.
La metodologia basata sul dato “rigorosamente” razionale, proprio della scienza, non sempre corrispondeva con la metodologia basata sulla dialettica che era movimento e contraddizione e questo, non è stato di poco conto. Una frase di Togliatti mise fine al partito comunista rivoluzionario: “ La via democratica al potere”, con la “conta dei voti” come simbolo del metodo liberal democratico che legittima l'esistenza della maggioranza e della minoranza. E qui si entra nelle pieghe di un dramma psicopolitico che ha avuto come sua componente la paura, anche e soprattutto fisica, di una rottura con quel passato di esperienza nella quale tutta una generazione aveva sviluppato con la propria coscienza, prima ancora che con l’intelligenza e creatività, il concepimento delle classi sociali.
Chiaramente non una classe sociale intesa come processo produttivo cristallizzato, di un grande numero di individui. Sarebbe stato troppo riduttivo. Il concetto di classe sociale come un'immagine dinamica.
Quando si avvertiva una tendenza sociale, un movimento per date finalità, allora era possibile riconoscere l’esistenza di una classe nel senso “vero” del termine. Si scopriva, così, che un movimento rivoluzionario poteva esistere se vi era una dottrina ed un metodo di azione. Un movimento divenne anche una scuola di pensiero politico e quindi un'organizzazione di lotta. Il primo era un fatto di coscienza, il secondo era un fatto di volontà, più precisamente di tendenza ad una finalità.
Bastava ricordare che, se la coscienza degli uomini era il risultato e non la causa delle caratteristiche dell'ambiente in cui erano costretti a muoversi, la regola non sarebbe stata mai che lo sfruttato, l'affamato, il denutrito, potesse capacitarsi che avrebbe dovuto rovesciare e sostituire lo sfruttatore ben pasciuto e ferrato di ogni risorsa e capacità.
La democrazia elettiva borghese correva incontro alla consultazione delle masse, perché sapeva che la maggioranza avrebbe sempre risposto a favore della classe privilegiata, delegando ad essa volontariamente il “diritto” a governare, e a perpetuare lo sfruttamento. Se di questa verità si fosse cercata conferma in Calabria, ne avrebbero trovate una infinità. Bastava ricordare che era luogo comune squisitamente borghese contrapporre il "buon senso" della massa ai "tormentati" di una "minoranza di sobillatori".
La Calabria è come allora l’ultima regione d’Europa, governata da famiglie politiche e delinquenziali che a volte celebrano matrimoni; segue prole.
L’informazione in Calabria assomiglia molto ai bunker americani anti atomici; ça va sans dire che il corpo del dissenso è invisibile. In rete il giudizio critico ha scarso seguito e la denuncia sociale dura due ore, la vita di un post su Facebook.
Poi l’esistenza riprende il proprio viaggio nell’incertezza, nella precarietà, nella meschinità e umiliazione morale e politica. Il quadro è più che chiaro , ovvio: il dominio politico-delinquenziale dell’economia e dei settori pubblici impedisce ogni forma di sviluppo, per cui lavoro e produzione, impresa privata e crescita sociale sono impossibili. L’emigrazione aumenta, malgrado regga il dato degli abitanti, falsato dalla residenza, elemento formale. Si risiede in Calabria ma non ci si vive. In Calabria 1/3 degli studenti iscritti all’università è fuori regione.
Ci si iscrive in Facoltà universitarie prestigiose per poi “ambire” a qualche cattedruccia di qualche sperduta scuola media e forse in qualche liceo.
Insegnare una lingua straniera, matematica, disegno o musica. Questi fatti non contano: non li considerano i consiglieri regionali, il presidente della giunta, i rappresentanti nazionali, il governo centrale e gli stessi emigrati. Da almeno un decennio c’è in atto una diaspora impressionante quanto inavvertita in Calabria, un abbandono silenzioso che genera ulteriore rassegnazione e il dogma che nulla cambierà. Amen!
“Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo”.
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Sud paese quasi incolpevole che altrove cercai. Tu, autentica terra della fantasia dove il poeta è compreso e l’anfitrione viene accolto come al tempo d’Ulisse.
La prima tappa del viaggio di Enea è la Tracia, dove appare un terribile prodigio: i rami di mirto, che l’eroe strappa per ricoprire di fronde l’altare degli dèi, sanguinano.
Questi sono i rami gemmati dalle frecce che hanno trafitto Polidoro, il giovane figlio di Priamo ucciso e depredato dal suo infido ospite, il re Polimestore.
I Troiani lasciano allora la Tracia e si recano a Delo, dove consultano l’oracolo di Apollo.
L’oracolo indica loro di cercare “l’antica madre”.
Essi allora si recano a Creta, la terra natia del loro progenitore Teucro. Giunti nell’isola, iniziano a costruire la nuova città, ma un cattivo presagio (una pestilenza) e gli dei Penati apparsi in sogno ad Enea rivelano che non è Creta l’antica madre, ma l’Italia, la terra d’origine del loro capostipite Dardano.
Nell'antica colonia achea di Kroton insieme al culto di Eracle, fondatore mitologico della città, e di Apollo, ispiratore della fondazione stessa, era molto sentito il culto di Hera Lacinia. Pochi chilometri più a sud della città, sul promontorio Lacinio, sorgeva il grande santuario dedicato ad Hera Lacinia, tra le più grandi aree sacre di tutto il mondo ellenico. Moglie e sorella di Zeus e regina tra gli dei, Hera veniva venerata come dea protettrice dei pascoli anzitutto, delle donne, della fertilità femminile, della famiglia e del matrimonio.
Nel VI secolo a.C. venne eretto un maestoso tempio dorico a 48 colonne, facente parte del monumentale Santuario di Hera Lacinia, che già prima era esistente e venerato in tutto il mondo greco. Nello stesso periodo il leggendario Milone, eroe olimpionico ritenuto figlio di Eracle, fu nominato sacerdote del tempio di Hera Lacinia in segno dell'assoluta devozione che la città di Kroton aveva nei confronti del santuario e della dea venerata. Il santuario, uno dei più grandi e certamente più famosi di tutta la Magna Grecia, divenne subito il principale luogo di culto del versante ionico, meta di viandanti e navigatori provenienti da ogni dove pronti a pagare pegni votivi pur di ingraziarsi la potente dea.
“Siamo sul suolo della Magna Grecia. Non ti dirò : ‘Scopriti ed inchinati’. Fa come vuoi; poiché anche qui, come su ogni posto del mondo sul quale sia passato l’uomo, è sparso odio, orgoglio, invidia, rivalità, spirito di distruzione. …Ma, se vuoi, fermati qui, su queste rovine e sosta in silenzio…..Poiché questo fu un mondo in cui gli Dei non avevano vergogna di essere uomini ed i filosofi, gli artisti, gli atleti di essere Dei.”
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Comunicati - Sport - Giudiziaria
La Pasqua in Calabria è una delle feste più sentite tra gli eventi dell’anno tanto che ancora oggi molti dei riti pasquali vengono celebrati secondo gli usi tradizionali.
I riti della Pasqua o meglio dire i riti della settimana santa calabrese sono davvero suggestivi e famosi proprio per l’intensità con cui vengono celebrati.
Se ci si trova in vacanza in Calabria a Pasqua, non bisogna perdere i riti e le tradizioni più famose.
Le celebrazioni dei riti pasquali in Calabria più suggestive sono quelle che precedono il giorno di Pasqua, negli ultimi giorni della settimana Santa.
La Processione dei “Varetti” di Amantea, ripropone la passione di Cristo, è uno dei Riti di Pasqua in Calabria più famosi.
Un rito molto importante, suggestivo e solenne a cui prendono parte fedeli fortemente devoti.
La processione parte dalla Chiesa Madre che si trova nella parte vecchia del Paese; per poi percorrere in discesa una prima parte per poi proseguire lungo una salita piuttosto ripida, lungo la quale i fedeli seguono in processione il Cristo morto e la Madonna Addolorata.
Nel tempo della Passione si rievoca il tradimento, la cattura e la crocifissione di Gesù Cristo.
La sua morte espiatrice è stata il modello di ogni martire il cui sacrificio partecipa alla redenzione.
Le rievocazioni della Passione consistono in un solenne corteo in cui sono teatralmente riproposti da personaggi in costume gli episodi canonici della Passione del Cristo, della cattura nell'orto di Getsemani, della crocifissione, fino alla esibizione dei simboli materiali tradizionalmente collegati alla sua morte.
Come il sole all'equinozio è posto nel punto centrale per risorgere nella parte superiore dello zodiaco, così il Cristo è crocifisso al centro del cosmo, per risorgere e poi ascendere al cielo.
Questo passaggio della Passione di Cristo è simboleggiato nella solenne Via Crucis del Venerdì Santo.
La parola Passione deriva dal latino "Passio, Passionis", che deriva da "Pati", che significa soffrire.
Nella religione cristiana la Passione è attribuita al complesso di sofferenze e dei tormenti patiti fino alla morte, sulla croce, da Gesù Cristo.
Ed è proprio il Venerdì della Settimana Santa il giorno tradizionalmente considerato della Passione.
Questo Venerdì dei Varetti si è consumato questa mattina con una partecipazione enorme di fedeli, fra questi tutti i membri dell’Amministrazione Comunale, i quali se ne stavano in ordine sparso dietro le statue che venivano portate a spalla.
Tutti questi signori, quando la processione è arrivata su Via Margherita, son passati davanti ad un Chioschetto abitato dal figlio di un Dio minore. Il suo nome è Andrea Ganzino il quale non avendo una casa dove abitare, inizialmente viveva in una capanna sulla spiaggia, ultimamente si è trasferito in questo chiosco.
Un ragazzo, Andrea, meno fortunato del Bambin Gesù, perché non ha avuto l’asinello e la mucca a procurargli un po’ di caldo nella mangiatoia.
Ho pensato che questi Signori del Potere dovrebbero sì, far parte della processione del Venerdì cosiddetto Santo, ma dovrebbero parteciparvi come “Battienti” emulando i battenti della vicina Nocera Terinese e dunque torturandosi le carni proprie; le gambe e il petto con il “Cardo” che porta infissi tredici frammenti di vetro.
In aggiunta dovrebbero poi versarsi sulle ferite una mistura di vino e aceto. Questi Amministratori Battienti li avrei apprezzato se tutti insieme avessero seguito, una parte, la processione dietro il Cristo Morto e l’altra metà, la Madonna Addolorata La quale ha usufruito dei capelli che le sono stati donati da una signora lavoratrice, Flora Furelli che nel 1940, al ritorno, del marito Francesco Mannarino, dalla guerra, si taglio la lunghissima chioma donandola alla testa dell’Addolorata come voto.
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Primo Piano
Al mio ritorno dall’Ovest canadese e dalla tendenza delle sue città di espandersi orizzontalmente. Sempre più inaccessibili gate communities.
Sempre più alienazione. All’improvviso riemerse dalla mia mente una sera di qualche anno fa a Firenze. Invitato ad una cena insieme all’amica Viviana. Fra le persone presenti c’era anche l’architetto Leonardo Ricci, allora preside della facoltà di Architettura. Avevo letto alcuni suoi articoli che mi avevano entusiasmato.
Così mi ritrovai a chiacchierare con lui sul ruolo dell’architetto nell’era moderna. Lui stava per lasciare l’università e andarsene in pensione. Mentre cercavo fortemente di concentrarmi su cosa stesse dicendo, venivo distratto, di tanto in tanto, dalla bellezza di una donna che si accompagnava ad un altro professore.
Ciò che rimane di quella conversazione sono i frammenti di un suo sogno segreto. Poter progettare e costruire una sola casa. Qualcosa che assomigliasse ad una chiesa ma nel suo significato primo di casa per tutti.
Una casa aperta giorno e notte. Una casa in grado di permettere alle persone di socializzare e conoscersi. Un’ agorà, non certo virtuale, per rompere il cerchio di solitudine, alienazione e odio. Una casa per tutti coloro che vivevano nelle città e sentivano il desiderio di stare insieme in pace e con amore. Era un sogno che per realizzarlo non poteva progettarlo e costruirlo da solo.
Era il racconto di un grande irregolare della cultura italiana del secondo ’900, un intellettuale caratterizzato da un netto furore laico.
Si era formato durante la II guerra mondiale all’interno di una cultura minoritaria e per molti versi radicale come quella valdese (a Firenze contava personalità come Franco Fortini e Giovanni Klaus Koenig).
Finita la guerra Ricci fu l’animatore di alcune esperienze sociali uniche, come la comunità di Agàpe, costruita facendo spaccare e trasportare le pietre a giovani ex partigiani e fascisti perché anche loro imparassero a “ricostruirsi” insieme. Qualcosa di molto simile ai kibbutz israeliani degli anni sessanta.
Le parole di Ricci mi risuonano ancora nelle orecchie: “…La forma è una conseguenza del potenziale di vitalità insito dentro l’oggetto che sta per nascere. Fare un’architettura vuol dire far vivere la gente in un modo piuttosto che in un altro”.
Quello che invece sta succedendo nell’Occidente e non solo, avrebbe fatto inorridire il visionario Ricci e la sua idea di convivenza. Ci sono delle notevoli rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie imponente e diversificata di “espulsioni” sociali, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene volutamente documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, e dunque non viene narrata come una dinamica omnicomprensiva che sta conducendo l’umanità in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
Quella delle “espulsioni” va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nel sistema del potere attuale e di quello del prossimo futuro le espulsioni attraverseranno domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Vi saranno e vi sono già diversi modi di “espulsioni” che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari.
Tra gli esempi dei processi di espulsione, vanno ricordati il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slums e i massicci esodi di disperati che fuggono, da un lato all’altro, dalle guerre e dai massacri, in una specie di recinto dove normalmente si addestrano i cavalli selvatici. Riciccia davanti ai miei occhi quell’uomo; quell’architetto visionario che alla fine della sua carriera voleva essere ricordato come un rivoluzionario: “…Così cominciavo la mia prima lezione.
Sentite ragazzi. È arrivato fra noi il momento di fare una scelta: scelta nella confusione. Questa scelta non può essere gratuita. Voi farete dell’architettura. Ma fare dell’architettura non vuol dire progettare una forma piuttosto che un’altra. Questa è una posizione inammissibile oggi.
La forma è una conseguenza del potenziale di vitalità insito dentro l’oggetto che sta per nascere. Fare un’architettura vuol dire far vivere la gente in un modo piuttosto che in un altro. Come farete voi a regolarvi? Allora la vostra architettura sarà soltanto la testimonianza di un atto vissuto dove la gente possa compiere atti vitali e coscienti. Forma quindi, ma non più forma simbolo, non più forma droga, ma forma ‘atto’ ”. Che brutto scrivere quando mancano i gesti, mancano gli occhi delle persone vive di fronte a te. Manca soprattutto la ‘presenza’ degli altri di quegli altri che annegano nel mare di Ulisse e che non avranno mai una casa.
Sto guardando il cielo sopra di me. Le foglie stamattina si muovevano appena.
L’aria tremava e veniva da lontano, come dalla preistoria. Un suono ovattato, attutito, tanto da diventare ‘ricordo’, era il rumore di un elicottero. Strano! Sembrava il suono di una libellula che faceva fatica ad alzarsi dal suolo.
Ed ecco il sogno della notte invadere la mia mente.
Sul terrazzo, inarcavo la schiena. Respiravo a pieni polmoni. Una barca a vela fendeva il mare. Guardo Lei in lontananza. Mi sorride. Lei è dolce. Le sorrido. Ho voglia di prenderla. Di stringerla a me.
Sentire il sole dalla sua pelle. Entrare dentro di lei come nel mare! Star bene. Star bene insieme! Ma che stupido. Mi sorride. Ma sento che è delusa. Anch’io sono deluso mentre l’elicottero scompare oltre la collina.
Che c’entra tutto questo, con l’architettura, con la barbarie, con la tristezza del vivere? C’entra il mondo.
Il mondo come un grande enorme battello sospeso nello spazio. Questo battello che ruota e si muove velocissimo intorno al sole portando con se alberi, case e l’umanità.
“Sole splendimi sin dentro al cuore, vento caccia via pensieri e pene, non v'è al mondo diletto maggiore che andar vagando sconfinatamente”. (Herman Esse)
Gigino A Pellegrini & G el Tarik
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Nel romanzo del 1895 La macchina del tempo, di H.G. Wells, il protagonista, dopo aver inventato una macchina che avrebbe attra versato il tem po, decide di partire e si trova ad esplorare un mondo del remoto futuro post-atomico, apparentemente un eden lussureggiante e tranquillizzante.
Incontra un gruppo di ragazzi e ragazze, giovani, biondi e di bell'aspetto, che si disinteressano di tutto, incolti, senza una organizzazione sociale, senza aspirazioni e che si limitano a vivere nell'ozio consumando il cibo e i beni che trovano inspiegabilmente preparati per loro in una antica rovina della precedente civiltà, che hanno irrimediabilmente dimenticato assieme a tutta la cultura e la scienza del loro passato.
Incontra anche un cane che, come tale, abbaia senza motivo quando fiuta o sente un “pericolo” (ad esempio, il tossire di qualcuno). Quanto ad olfatto e udito, gli amici a quattro zampe sono imbattibili, ma esagerano spesso nella stima delle minacce.
Non riescono a distinguere una potenziale minaccia da una vera come quella alla quale si trova l’umanità in questa confusa fase storica.
I presupposti di un’incombente catastrofe non arrivano da Rin Tin Tin o da Lassie, ma da scienza e tecnologia.È un momento critico, e l’uomo è consapevole di cosa sta succedendo. Il sistema di potere avrebbe la conoscenza e la scienza per capire a cosa porterà continuare su questa strada e dunque, rimediare. Ripercorrendo distrattamente la storia umana, si scopre che la disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e accompagna l’umanità sin da quando ha costruito delle città.
Oggi la disuguaglianza è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare e capire profondamente il periodo attuale.
Ci sono delle notevoli rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie imponente e diversificata di “espulsioni” sociali, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene volutamente documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, e dunque non viene narrata come una dinamica omnicomprensiva che sta conducendo l’umanità in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale. Quella delle “espulsioni” va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata.
Nel sistema del potere attuale e di quello del prossimo futuro le espulsioni attraverseranno domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Vi saranno e vi sono già diversi modi di “espulsioni” che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari.
dTra gli esempi dei processi di espulsione, vanno ricordati il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slums e i massicci esodi di disperati che fuggono, da un lato all’altro, dalle guerre e dai massacri, in una specie di recintodove normalmente si addestrano i cavalli selvaggi. L’aspetto predatorio che distingueva le classi dominanti si stanno via via trasformando applicando inizialmente l’esclusione tesa all’eliminazioni delle classi che una volta servivano a garantire il dominio e il benessere dei dominanti.
Sono classi che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi appare come un contratto legittimo.
Ci sono le banche centrali che forniscono ciò che racimolano. Negli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione. L’angosciosa condizione dell’uomo moderno ridotto a uno spaventapasseri impagliato, privo di ombra, di colore, di movimento e di parola. Dalla sua bocca escono solo suoni senza senso che stridono come il vento tra le erbe secche o la zampa di un topo su vetri infranti. Agli uomini vuoti che si aggirano in un mondo vuoto si contrappongono coloro che hanno varcato il fiume che separa la vita dalla morte. Essi hanno compiuto il viaggio definitivo e sono ormai staccati dal grigiore della vita, il cui ricordo li sfiora appena.
Eppure se un’immagine della realtà terrena affiora nella loro mente è quella di un mondo di fantasmi, di uomini vuoti impagliati.
Edmonton nov. 22 2015 Gigino Adriano Pellegrini & G el Tarik
THE HOLLOW MEN
“We are the hollow men
We are the stuffed men
Leaning together
Headpiece filled with straw. Alas!
Our dried voices, when
We whisper together
Are quiet and meaningless
As wind in dry grass
Or rats' feet over broken glass
In our dry cellar.”
T. S. Elliot
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Molti anni orsono, durante una delle prime estati passate lontane dal Mare di Ulisse, mi trovavo a Edmonton, nel nord ovest canadese, alla guida di una Galaxy 500 Ford del 1964 comprata usata per circa 600$.
Era molto bella e grande come erano allora le macchine americane. Nera all’esterno e rossa internamente. Andavo alla ricerca di solitudine. Le immense foreste dei pini canadesi sembravano proseguire all’infinito. Un’attrazione irresistibile.
Lasciavo Edmonton percorrendo l’autostrada 43 nord che portava in Alaska, ma non era quella la mia destinazione.
Il luogo che attirava i miei interessi si chiamava Grand Prairie. Una cittadina distante da Edmonton circa 450 km. Uno dei passaggi del cigno trombettiere che è la più grande specie vivente degli uccelli acquatici del mondo, quindi anche il più grande cigno del mondo. Si pensa inoltre che esso sia il più grande uccello originario del Nord America. È chiamato cigno trombettiere perché il suo verso ricorda il suono di una tromba.
La loro apertura alare media è di 2 m. Il nome Grand Prairie deriva dalla sua vicinanza alle grandi praterie del nord e dell’ovest e ricoprono buona parte della Provincia dell’Alberta.
Il giorno dopo ripresi la strada. Direzione nord ovest e mi ritrovai a Peace River. In quello che allora era un piccolissimo paese venni a contatto per la prima volta con alcuni indiani del nord, le loro usanze e riti. La danza del sole, una delle più sacre cerimonie delle popolazioni pellerossa delle Grandi praterie, si svolgeva da quelle parti in località riservata e segreta.
Questo giustificava la numerosa presenza di indiani nel piccolo paese. Così mi spiegava un “Cree” nel suo inglese molto particolare, mentre consumavamo un bibitone di caffè seduti nell’unico coffee shop di Peace River. Gordon Redbird, così si chiamava l’indiano cacciatori di pelli, mi spiegava che la cerimonia non era per tutti e si trattava di un’esperienza di grande impatto emotivo. Finito il litrozzo di caffè mi ritrovai in strada, invitato dal trapper a seguirlo fino a raggiungere una piccola radura in mezzo a betulle, abeti rossi, pioppi e libellule. Uno strano cerchio fatto di arbusti occupava gran parte dello spazio. Nel centro un bel po’ di pietre levigate di fiume. Si trattava di uno spazio dove gli indiano costruivano la loro “Sweat lodge”, una capanna sudatoria.
Un luogo dove mettersi alla prova nel sopportare il calore resistendo al gran desiderio di voler uscire al più presto all’aria aperta. Nella capanna del sudore, si impara a controllare le proprie paure restando dentro fino alla fine della cerimonia. Secondo Gordon, in quel sudario l’uomo affronterebbe il suo grande nemico: se stesso.
Tutto questo è riaffiorato nella mia mente in una giornata bellissima passata, insieme a due vecchi e carissimi amici Enrico e Mario Potestio, a Fort Edmonton sulla riva sud del mitico “Saskathewan river” delle Giubbe Rosse e del Grande Blake, l’eroe dei fumetti a strisce di un tempo andato, del fraterno amico Orly.
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