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Gigino Pellegrini: interminabile sogno.

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gigino nuovaMi sono spesso azzardato ad avanzare ipotesi delle quali non ero sicuro, ma tutto quello che ho scritto qui è da poco nella mia testa ed è nel mio interesse non sbagliarmi perché mi si sospetti di aver enunciato dei teoremi di vita dei quali non avrei la dimostrazione completa.

Vi prego di darmi un parere, non sulla verità, ma sull'importanza dei teoremi. Ci sarà, certamente, qualcuno che troverà da ridire nel decifrare tutto questo guazzabuglio.

A mezzanotte un uomo mi spiava maldestramente da dietro una macchina parcheggiata sulla piazzetta. Per un breve istante, con tristezza ed imbarazzo, lo ho osservato. Sono uscito di casa per fare una passeggiata per le antiche strade di questa città con la speranza che la bellezza delle facciate dei palazzi portasse un po’ di oblio sulle misere e umilianti vicende umane. Mi sono inerpicato per una scala e su per una stradina! Una lunga strada moderna, stretta fra due muri, fatta proprio apposta per le rapine. Ma la strada saliva solo ad una chiesa dove non avevo nulla da fare. Percorsi un'altra strada. Vidi un giardino di peschi in fiore e una panchina.

 Ho chiuso gli occhi e mi è sembrato di sentire un gigante che russava. Respiri regolari, sordi, che di tanto in tanto salivano di tono e terminavano in un affanno. Era il Mare di Ulisse, che si muoveva con il vento da sud-ovest. Lo scirocco. Era una vista meravigliosa. Il mare sotto di me, così vicino che avrei quasi potuto gettarci dentro la cenere della mia sigaretta. La luna ardeva sopra l'orizzonte a sud. A nord-ovest si vedeva una piccola luce lontana che lampeggiava con lo stesso ritmo regolare del respiro delle acque. Poi giacevo di nuovo, vidi la costa agitata, simile ad un fiume di argento liquido venirmi incontro…. e mi lasciavo portar via.

Il vento cresceva e le onde salivano; diventavano altissime e si coprivano a vicenda, tanto che come mostri neri con il vello d'argento sulla schiena si inseguivano l'un l'altra, si inghiottivano e tornavano a salire; venivano a schiere, sempre nuove, in una serie infinita che non terminava mai. Il respiro si trasformava in un rantolo e i singhiozzi diventavano lacrime.

Poi ad oriente iniziava ad albeggiare! Un debole colore arancio che poco a poco diventava giallo limone. Le luci si spegnevano. Le onde si facevano azzurre e infine ecco il sole.  Ero solo di fronte all’Ulisse, qualcosa si frapponeva alla vista, non permetteva più al mio sguardo di spaziare e illuminare i miei pensieri. Per l'occhio che stava per alzarsi da queste parole è diventato solo il fondo del mio piano-doccia.

Ero stanco. Stanco di guardare nel vuoto, nel nulla, e allora l'immaginazione gettò qua e là nell'azzurro qualche isola verdeggiante. Sentivo un terribile vuoto nel guardare fuori. Tutti i tentativi di raggiungerla, di distendermi sulla sua collina, finirono nel nulla.  Ovunque muri, muri di sabbia senza fine che spingevano avanti questo viandante come attraverso un tubo pneumatico per poi metterlo di fronte ad una parete oppure ad una porta chiusa e presidiata da un cane rabbioso. Come un monaco confuciano decidevo di sedermi sulla sponda di un fiume e aspettare che lei ripassasse.  “Sono le dieci, papà”. La voce di Lorenza mi riporta nella mia attuale camera da letto in Calgary. È il mio penultimo giorno in Canada e Laurel ha deciso di farci conoscere un posticino niente male nel cuore della citta’: il “1886 Cafè”. Una tarda colazione fatta da due uova, del prosciutto cotto canadese e delle patate fritte a tocchetti. Il tutto sotto lo sguardo fisso di un bisonte e la neve che veniva giù.

Gigino A Pellegrini & G el Tarik

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