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ELISA-SCUTELLA-NEW3Riceviamo e pubblichiamo.

Soddisfatta la deputata Scutellà: «Atto opportuno contro scelta incomprensibile»

CORIGLIANO-ROSSANO – Mercoledì 9 Ottobre 2019 – Certezza della pena, incomprensibile la decisione di concedere un permesso premio all’assassino di Fabiana Luzzi a soli tre anni dalla sua condanna. Giusto lo sdegno dei genitori della giovane vittima di Corigliano-Rossano alla quale manifestiamo tutta la nostra solidarietà. Opportuna la decisione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di inviare i controlli ispettivi per far luce sull’accaduto.

È quanto dichiara la portavoce del Movimento 5 Stelle alla Camera dei Deputati, Elisa Scutellà, componente della Commissione parlamentare giustizia nonché co-promotore del Codice Rosso che ha inasprito le pene per i reati contro le donne e per le violenze di genere.

«La notizia dei permessi premio concessi all’assassino di Fabiana Luzzi – dice la deputata Scutellà - a soli tre anni dalla sentenza ha lasciato sgomenti i familiari, l’opinione pubblica e la stessa Corigliano-Rossano che non può dimenticare una sua figlia né le modalità disumane che hanno portato al suo omicidio. L’iniziativa del Ministro Bonafede – aggiunge - di attivare l’ispettorato per consentire le opportune verifiche, la considero oltre che un atto opportuno, alla luce di una possibile anomalia della macchina della Giustizia, un segno inconfutabile di uno Stato che non assiste inerme ma che pone in essere gli strumenti a sua disposizione per dirimere qualsivoglia dubbio di fronte ad un provvedimento che, seppur non entrando nel merito, pare essere singolare ed incomprensibile. Sono pertanto pienamente soddisfatta – precisa poi la portavoce pentastellata - soprattutto come cittadina di Corigliano-Rossano, della presa di posizione del nostro Ministro che ha dimostrato di non voler “lasciar correre” ma, soprattutto a fronte di un evento tanto tragico e violento, di voler intervenire per dimostrare la vicinanza dello Stato alla famiglia di Fabiana ed al nostro territorio che non vuole e non può dimenticare – conclude - una sua figlia strappata alla vita.

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Alejandro Meran, il killer dei poliziotti, non era in cura al centro di igiene mentale.

Nonostante ciò, alcuni giornali insistono sul suo “disagio psichico”.

«Un demone lo consumava dentro», scrive oggi il Corriere.

«Le ombre gli minavano il cervello».

La fonte di queste informazioni a tinte forti?

La famiglia del killer.

La madre ha detto che Alejandro «sentiva voci». Il fratello ha invece dichiarato che «parlava con il muro».

Insomma, un vero mentecatto. Che però lavora come magazziniere.

L’azienda di cui è dipendente si affida quindi a un pazzo?

È evidente il motivo di questi racconti dei familiari del killer.

Vogliono accreditare il “disagio psichico”.

Ciò sarebbe la premessa del riconoscimento dell’infermità mentale.

E, con l’infermità mentale, Meran eviterebbe il carcere.

Sarebbe un esito assurdo.

Ma l’Italia pullula di giudici buonisti che scarcerano i criminali.

E dobbiamo essere preparati a qualsiasi scenario.

L’amarezza e la rabbia sarebbero comunque, in tal caso, enormi e incontenibili. Anche alla luce dei particolari che emergono dalle indagini.

Il killer poteva fare un’ecatombe alla questura di Trieste.

Ha sparato 17 colpi con due pistole. Meran ha tentato di uccidere «almeno altri 8 agenti».

Di cui «tre addetti alla vigilanza».

Quattro della squadra mobile .

E uno che cercò di aiutare gli agenti dopo aver sentito gli spari.

Le conclusioni degli inquirenti mettono i brividi.

I colpi sono stati sparati ad altezza d’uomo.

E, se fossero andati a segno, le vittime sarebbero state 10.

Il giudice delle indagini preliminari non concede però nulla al “disagio psichico”.

Anzi, il killer ha «dimostrato» di non avare freni alle sue «spinte criminali».

E di essere «soggetto pienamente inquadrato nel tempo e nello spazio».

Dello stesso parere sono il procuratore capo e il pubblico ministero.

Quindi niente disagio psichico.

Ma, nella fase dibattimentale del processo al killer, potrà accadere di tutto.

E i familiari di Alejandro hanno dimostrato di saperlo già.

E hanno cominciato a fare i furbi.

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La polemica travolge la terza carica dello Stato, Roberto Fico.

Tutto nasce per il tweet riservato dal grillino ai due poliziotti uccisi in Questura a Trieste, Pierluigi Rotta e Matteo Demenego.

Il 4 ottobre, Fico, infatti ha cinguettato: "Una terribile notizia da Trieste. Sono vicino alle famiglie dei due poliziotti rimasti uccisi. A loro e al capo della polizia di Stato esprimo tutto il mio cordoglio".

 

Già, "rimasti uccisi" e non assassinati, ammazzati, uccisi punto e stop. "Rimasti uccisi".

Parole inopportune che hanno scatenato la reazione, tra gli altri, di Francesco Storace, il quale ha puntato il dito in un articolo pubblicato dal Secolo d'Italia: "A Trieste c'è stato un brutale duplice omicidio, non un incidente stradale, signor presidente della Camera.

Ma il rispetto, se non ce l'hai come valore, non puoi manifestarlo".

E ancora, aggiunge Storace: "Che vergogna questo numero uno di Montecitorio che vale davvero zero nella società, scossa molto più di lui dalla violenza cieca e feroce perpetrata nella questura del capoluogo giuliano".

Storace, in estrema sintesi, chiede la rimozione del tweet da parte di Fico, almeno una rettifica.

Ma il cinguettio resta ancora lì, "non tolgono quell'obbrobrio dalla rete, non lo sostituiscono con una frase meno indegna, e si beccano la meritata sequela di insulti sui social", rimarca Storace.

E contro Fico si schiera anche Antonio Maria Rinaldi, il quale rilancia l'articolo del Secolo d'Italia: "Fico, quella vergogna sui Caduti di Trieste va cancellata", ricorda anche Rinaldi.

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