Da ragazzino ho sempre assistito alla processione del venerdì prima di Pasqua.
I ricordi riaffiorano e anche alcune domande che mi ponevo.
Non ho mai capito, per esempio, l’assenza di Giuseppe al funerale del figlio Gesù.
Eppure un figlio rappresentava e rappresenta la carne dei genitori, il prolungamento della loro carne e in qualche modo rappresentava e rappresenta il prolungamento della loro vita.
La loro vita e loro carne allora come adesso è lì, incarnata al di fuori di loro, in quel figlio che però è senza vita.
La madre, Maria, affranta, sono certo, sarà sempre lì.
Dietro alla salma del proprio figlio.
Col passare degli anni mi sono reso conto che per una madre perdere il proprio figlio deve essere la tragedia più grande che possa colpire la vita di una donna che lo ha partorito.
Un dolore dal quale non ci si riprende mai, una ferita sempre aperta.
Ho visto la statua di quella madre piangere per quel figlio e per ciò che avrebbe potuto vivere e per il suo futuro che non ci sarà.
Domattina, a distanza di anni, mi ritroverò sullo stesso muretto delle Scuole Elementari del mio paese natio mentre da lontano arriveranno quelle voci che annunceranno l’arrivo delle immutate statue portate a spalla e che rappresentano i protagonisti del sacrificio di un giovane di 33 anni, dei suoi aguzzini e dell’ inconsolabile madre dal volto coperto dal velo accompagnata dalle voci e pianti di tantissime donne.
Lei apparirà, come sempre,in quel suo vestito nero dietro al corpo senza vita di quel figlio.
E, come allora, la percezione del cordoglio della collettività non sarà la stessa per il padre “assente” e per la madre.
L’attenzione tenderà a concentrarsi sullo straziante dolore della madre e sul corpo di quel figlio.
Gigino A. Pellegrini & G el Tarik