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Sono le tre di un triste mattino di ottobre e sono sveglio guardando le immagini della Striscia di Gaza SULLA BBC. Il 26 gennaio di un secolo fa, Giuseppe Ungaretti scriveva una delle poesie che toccarono il profondo dell’anima durante la mia adolescenza. Per la prima volta avvertii un forte dolore al petto. Il mio professore di Italiano asciugò le mie misere lacrime.

bel gigg“San Martino del Carso”.

Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

Ma nel cuore

nessuna croce manca

È il mio cuore

il paese più straziato

Versi necessari, condensati in pochi e brevi travasi in cui, servendosi di analogie, esprimeva sentimenti di solitudine e sofferenza esistenziale, ma anche di grande solidarietà e fratellanza.

Questo sentimento di dolore, oggi più che mai mi appartiene . Lo rivendico.

Gigino A Pellegrini & G elTarik

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uomo77“Lo sfruttamento non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri con se stessi” in Al di là del bene e del male. F.Nietzsche

Fragili, residuali, marginali. Sono tanti i termini per definire chi oggi vive la precarietà. Viverla, sperimentarla, e non, semplicemente, trovarsi in una condizione di precarietà. Appare, d’altronde, sempre più chiaro che la precarietà non è solo una condizione. In quanto tale, potrebbe cambiare, venire meno o crescere, a seconda dei fattori che l’hanno determinata.

Per il filosofo tedesco Helmuth Plessner  la precarietà sarebbe la caratteristica che meglio definisce il ruolo e l′azione dell’uomo che entra in un rapporto stretto con l’ambiente e con gli altri uomini. Sarebbe, quindi, unapredisposizione inestinguibile della natura umana.

Sempre secondo Plessner,la produzione di un’immagine in cui l’uomo figura come un essere capace tanto di trascendersi ininterrottamente quanto di celarsi agli altri.  Probabilmente anche a sé stesso. Per questa ragione, l’uomo sarebbe per costituzione costretto a vivere in un regime di precarietà, tanto che quella che Plessner chiama Verunsicherung (precarizzazione) sarebbe la caratteristica di fondo del suo modo di essere al mondo.

La Chiesa e tutte le religioni monoteiste hanno da sempre gratificato l’essere umano credente, con la possibilità della vita eterna nell’aldilà, considerato il limite dell’ esistenza umana, della sua finitezza e della sua precarietà su questa terra. Tema da sempre filosofico, con il quale tutti i grandi pensatori si sono misurati.

Marx descriveva il fenomeno della disoccupazione in quanto prodotto dell’economia capitalista, indirizzataa dimostrare che la mancanza di lavoro non è un fenomeno naturale, ma un prodotto necessario dell’accumulazione capitalistica. L’esubero di mano d’operafu uno dei primi tentativi di fornire una spiegazione storica e teorica della tendenza del sistema capitalistico a generare, in virtù delle sue proprie dinamiche, una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale.

Marx non usa quasi mai il moderno termine “disoccupazione” (Arbeitslosigkeit, in tedesco), ma le espressioni “esercito industriale di riserva” e “sovrappopolazione relativa”. Esattamente come la panchina dei giocatori di calcio o qualsiasi altro sport.Se la nascita del capitalismo va dunque di pari passo con l’emergere del fenomeno della disoccupazione, lo sviluppo di tale modo di produzione, fondato sull’accrescimento continuo del capitale e sulla diffusione delle macchine, instaura dinamiche tali da rendere strutturale e tendenzialmente crescente il pericolo della disoccupazione di massa.

Per tornare alla precarietà dell’uomo in questo inizio di millennio con il suo Covid, le guerre sparse in tutto il mondo e l’atroce realtà dei palestinesi nella Striscia di Gaza, mi sono rivolto agli scritti di due poeti della mia gioventù; Federico Garcia Lorca: Amore, morte e sensualità vengono fusi in "Pequeñovalsvienes", che può essere ritenuto il compimento che per eccellenza affronta la complessa molteplicità dello slancio vitale affettivo. Poi venne Giuseppe Ungaretti, che in sogno mi sussurrava:

“Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro.”

Negli scritti di Ungaretti, non vi è traccia di odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. La guerra è un posto dove i giovani che non si conoscono e non si odiano, si uccidono, in base alle decisioni prese da vecchi conservati in naftalina che si conoscono e si odiano, ma non si uccidono fra di loro.

Gigino A Pellegrini & G elTarik

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liiiiiIl cinema di Eisenstein sta alla Rivoluzione come i Persiani alla Grecia di Maratona. Che un dogma attraversi la comunità umana, e immediatamente toccherà l’artista, risuonerà nel manufatto estetico. Lo si è visto in Russia, prima che l’arte venisse istituzionalizzata e diretta dall’alto.

Hanno ragione quelli che affermano che, stiamo viaggiando sull’autostrada della fine della quasi libertà . Ribellarsi è l’unica cosa che può bloccare quei personaggi che pensano di amministrare una Regione semplicemente mungendo le tette di una vacca d’oro. Questi furbastri vanno combattuti. Ci fosse stata una sola volta in questi lunghi mesi in cui l’Amministrazione regionale si sia degnata di dare una, una sola risposta completa, esauriente alle richieste dei cittadini.

In tutto questo tempo ho scoperto che ai signori della Regione si può solo chiedere che tempo fà...Prova ne è questo mio breve scritto il cui contenuto è uguale a centinaia di altri disseminati nel territorio Calabrese.

Dal loro zelo ottuso sprezzante e autoritario, non si avrà, come sempre, nessuna risposta degna di tale nome. Loro insisteranno fino alla fine a giocarsela da generosi vittime sacrificali che amano il proprio paese! E attenzione, non si fa qui il solito attacco alla sola Amministrazione, ma al “sistema di potere” che regge questa nazione da tempi ormai troppo lontani, senza che nulla cambi.

Credo sia giunto il momento che ogni singolo Calabrese sappia come stanno le cose realmente. Questi padroni della Regione credo che abbiano preso spunto e imparato molto da Gianni Alemanno, quando era sindaco di Roma, uno dei primi amministratori pubblici ad aderire ai salvaciclisti.

Ecco alcuni suoi solenni impegni da sindaco della città Eterna relativi ai temi del traffico, delle buche stradali, della ciclabilità. “Bisogna fare un grande sforzo sulla manutenzione delle strade romane. Non ci sono formule magiche, bisogna semplicemente applicarsi ogni santo giorno, prendere a calci chi non fa il proprio dovere”.

La Calabria, grazie alla fantasia dei suoi “amministratori”, viene invece trattata a base di “cerotti”: un cerotto all’antico collegio dei Gesuiti, di Amantea un altro al palazzo Florio, incerottato da oltre due anni in pieno centro. Mi fermo qui. Per ora. A conferma del perché, nella mia terra natia, avere la faccia come il culo significa non conoscere vergogna, fare qualunque cosa senza scrupoli e senza pudore. Non paghi di non conoscere vergogna per quel che hanno fatto col mandato che è stato affidato loro, gli Amministratori regionali si apprestano a chiudere il proprio regno da farsa con un colpo di mano che a loro sembra probabilmente un capolavoro di sagacia. Poveracci, adesso che sono rimasti col culo – pardon, con la faccia – per terra, si saranno voluti garantire delle “cattedre” adeguate alle proprie capacità professionali.

Scommetto che li troveremo presto ad abbaiare alla luna. Imprecare invano, gridare inutilmente contro qualcuno che è lontano e non può, perciò, più sentirli o che non se ne preoccupa più di tanto. Una delle rubriche più fortunate del settimanale “Cuore” s'intitolava “Hanno la faccia come il culo”. Poi purtroppo il settimanale satirico fondato da Michele Serra chiuse i battenti: ormai la realtà superava la fantasia. Oggi quella rubrica occuperebbe l'intero giornale, per eccesso di fornitori.

Anche i vari Sparaballe regionali, sotto le bombe, gli accoltellamenti, gli incendi di macchine e ristoranti, andrà in giro a invitare i propri concittadini a “non fare di tutta l'erba un fascio”, perché il paese dei suoi mandanti è più virtuoso e “sobrio” di altre città calabresi e “da tempo hanno messo in discussione le giostrine affaristiche e corruttive che erano legate ai sottosistemi di potere delle maggioranze precedenti”.

Avere la faccia come il culo” (avrei potuto usare “faccia tosta”, ma il termine un po’ volgare rende meglio) è un antico detto che sta per “Non provare vergogna per le proprie azioni scorrette, essere sfrontato, spudorato”!

Molti penseranno che mi sto lanciando nella solita filippica contro gli amministratori locali che vogliono, con le loro scelte insensate e deleterie, uccidere varie città della Calabria. Invece no! I destinatari dei miei insignificanti strali oggi sono altri che, con il loro agire scorretto e subdolo, hanno continuato a rovinare quanto di buono si era ereditato dai secoli scorsi. Cosa c’è di male, direte voi, se viene deturpato un antico paese in nome e per conto della modernità e dell’efficienza? Nulla se la cosa fosse finita lì.

Ma la cosa non è finita lì! Bene, bravi e complimenti per il tentativo. Abbiamo scoperto il vostro sporco e patetico gioco, non riuscite proprio ad immaginare un’azione popolare senza il vostro colore preferito! Direbbero i protagonisti di un film americano, riferendosi al colore dei dollari e non della cacca.

Avete dimostrato, ancora se ce ne fosse bisogno, la vostra smisurata voglia di auto appagamento a tutti i costi che niente ha a che vedere con il raggiungimento del bene comune. Vi ho individuati in alta uniforme presso la chiesa di San Francesco qualche giorno fa, cercando dalla gente il plauso e il consenso per le vostre pecette.

I Calabresi dovrebbero essere stanchi di certe ed anacronistiche ideologie. Eppure, puntualmente Sparaballe dichiara come balle quelle altrui, mentre frotte di obbedienti ed osannanti fans si radunano nel sentenziare sulle cose “folli” che il sottoscritto va scrivendo.

Anche di fronte a tutto questo, schiere genuflesse di seguaci si arrampicano sempre più ripidamente come gechi a nutrirsi e a socializzare l’altrui vomito e per dire: “si padrone”, con la faccia, con l’organo fondamentale, come il culo, per espellere "le scorie" biologiche della società, ma che un po' tutti generalmente si vergognano di mostrare in giro. Per questi Amministratori, ahinoi, l'apparenza è più che sufficiente per sentirsi a posto con la propria coscienza. Mentre ai cittadini, che pagano sulla propria pelle gli errori e gli abusi di una classe dirigente inetta e incapace, crea disgusto.

Posso solo augurarmi che le persone in grado di intendere e di volere, abbiano capito e compreso che le responsabilità di ciò che accade non sono sempre dirette. Nel settore pubblico, quindi, ancor più che in quello privato, chi comanda e guida la baracca deve saperne rispondere in ogni momento e, qualora non ne sia stato in grado, bisogna mandarlo via staccando dalla poltrona quel sederone che vi sta incollato con l'Uhu Bostik.

Gigino A Pellegrini & G elTarik

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