Il Covid è stato un uragano che ci ha attraversato il corpo e l’anima. Ci ha attaccato quasi tutto l’organismo con conseguenze devastanti e la mappa dei danni che il virus ha causato è molto estesa. L’infezione ha investito molti dei nostri organi con una tempesta citochinica. Si tratta di una risposta immunitaria fuori controllo che provoca eccessiva infiammazione. In condizioni normali, le citochine (molecole che servono a sollecitare i meccanismi di difesa dell’organismo) vengono rilasciate fino a quando scompare la causa che le ha stimolate.
La cosiddetta tempesta citochinica potrebbe aver concentrato la sua azione sul nostro cervello, sistema nervoso centrale e periferico, con delle conseguenze dirette sulla salute cognitiva e sui rapporti interpersonali, anche se l’amicizia fra due persone non è una conoscenza fatta di sabbia che alla prima mareggiata la vedi scomparire. Spesso le persone gridano, quando sono adirate, solamente perché i loro cuori si allontanano molto. E devono coprire questa distanza, in qualche modo, prima di potersi ascoltare di nuovo.
L'importante è che si misurino con le parole, altrimenti arriverà un giorno in cui la distanza fra i due cuori sarà tale da non farli incontrare mai più. "Parce que c'était lui, parce que c'étaitmoi" (È stata colpa sua, è stata colpa mia). Queste poche parole di Montaigne risuonano come un'ode all’amicizia .
In “LesEssais”, il celebre autore ritrae un rapporto di amicizia simbiotico, stabile e completo. Perdere un amico o una persona in cui si crede, o comunque di qualcuno che per noi ha un grande valore lascia in genere un grande vuoto. Questo è quello che appare. La sensazione che proviamo la descriviamo come “vuoto” poiché si tratta di una sensazione nuova o non comune in cui ci sentiamo assolutamente impotenti e vulnerabili.
All’apparenza sembra che improvvisamente qualcosa manchi, che si sia liberato un posto che nessun altro possa occupare, poiché, certamente, chi perdiamo è e resta, per la sua essenza, insostituibile. L'amicizia è quasi un amore ragionato e ragionevole, basato su fedeltà, fiducia e intimità, che non conosce timore.
Si rivela dunque un rapporto più rassicurante di una relazione amorosa. Consideriamo l'altro come un nostro doppio ed è per questo che perdere l’amicizia di una persona può essere associata alla perdita di una parte di noi stessi. Risultato: la fine di un’amicizia può essere estremamente dolorosa. Per rassegnarsi di fronte alla perdita di una amicizia, è necessario innanzitutto conoscere le dinamiche di questo tipo di rapporto, spesso a noi estranee.
A ben pensare la perdita di un amico “particolare”, in realtà rappresenta per il nostro io un vero e proprio terremoto, che richiama una tale serie di sentimenti sensazioni, paure, dolori, sensi di inadeguatezza, che la nostra mente non sa altro che chiamare “vuoto”. Alcune amicizie diventano nocive, ma è difficile rendersene conto o ammetterlo.
Tendiamo, giustamente io credo, a proiettare sugli amici i nostri sentimenti perché consideriamo l'altro un riflesso di noi stessi. Così come noi non faremmo mai del male ai nostri amici. Una rottura sembra inevitabile quando un'amicizia, diventa distruttiva. A volte coltiviamo rapporti talmente esigenti da mettere in pericolo la nostra autonomia e la nostra libertà. Invece di nobilitarci e di confortarci, questa amicizia può diventare all’improvviso una vera e propria minaccia.
“L'amicizia è una virtù o s'accompagna alla virtù; inoltre essa è cosa necessarissima per la vita. Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni…… L'amicizia perfetta è quella dei buoni e dei simili nella virtù. Costoro infatti si vogliono bene reciprocamente in quanto sono buoni, e sono buoni di per sé; e coloro che vogliono bene agli amici proprio per gli amici stessi sono gli autentici amici (infatti essi sono tali di per se stessi e non accidentalmente); quindi la loro amicizia dura finché essi sono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile; e ciascuno è buono sia in senso assoluto sia per l'amico.” Aristotele.
Gigino A Pellegrini & G elTarik
Sono le tre di un triste mattino di ottobre e sono sveglio guardando le immagini della Striscia di Gaza SULLA BBC. Il 26 gennaio di un secolo fa, Giuseppe Ungaretti scriveva una delle poesie che toccarono il profondo dell’anima durante la mia adolescenza. Per la prima volta avvertii un forte dolore al petto. Il mio professore di Italiano asciugò le mie misere lacrime.
“San Martino del Carso”.
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
Versi necessari, condensati in pochi e brevi travasi in cui, servendosi di analogie, esprimeva sentimenti di solitudine e sofferenza esistenziale, ma anche di grande solidarietà e fratellanza.
Questo sentimento di dolore, oggi più che mai mi appartiene . Lo rivendico.
Gigino A Pellegrini & G elTarik
“Lo sfruttamento non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri con se stessi” in Al di là del bene e del male. F.Nietzsche
Fragili, residuali, marginali. Sono tanti i termini per definire chi oggi vive la precarietà. Viverla, sperimentarla, e non, semplicemente, trovarsi in una condizione di precarietà. Appare, d’altronde, sempre più chiaro che la precarietà non è solo una condizione. In quanto tale, potrebbe cambiare, venire meno o crescere, a seconda dei fattori che l’hanno determinata.
Per il filosofo tedesco Helmuth Plessner la precarietà sarebbe la caratteristica che meglio definisce il ruolo e l′azione dell’uomo che entra in un rapporto stretto con l’ambiente e con gli altri uomini. Sarebbe, quindi, unapredisposizione inestinguibile della natura umana.
Sempre secondo Plessner,la produzione di un’immagine in cui l’uomo figura come un essere capace tanto di trascendersi ininterrottamente quanto di celarsi agli altri. Probabilmente anche a sé stesso. Per questa ragione, l’uomo sarebbe per costituzione costretto a vivere in un regime di precarietà, tanto che quella che Plessner chiama Verunsicherung (precarizzazione) sarebbe la caratteristica di fondo del suo modo di essere al mondo.
La Chiesa e tutte le religioni monoteiste hanno da sempre gratificato l’essere umano credente, con la possibilità della vita eterna nell’aldilà, considerato il limite dell’ esistenza umana, della sua finitezza e della sua precarietà su questa terra. Tema da sempre filosofico, con il quale tutti i grandi pensatori si sono misurati.
Marx descriveva il fenomeno della disoccupazione in quanto prodotto dell’economia capitalista, indirizzataa dimostrare che la mancanza di lavoro non è un fenomeno naturale, ma un prodotto necessario dell’accumulazione capitalistica. L’esubero di mano d’operafu uno dei primi tentativi di fornire una spiegazione storica e teorica della tendenza del sistema capitalistico a generare, in virtù delle sue proprie dinamiche, una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale.
Marx non usa quasi mai il moderno termine “disoccupazione” (Arbeitslosigkeit, in tedesco), ma le espressioni “esercito industriale di riserva” e “sovrappopolazione relativa”. Esattamente come la panchina dei giocatori di calcio o qualsiasi altro sport.Se la nascita del capitalismo va dunque di pari passo con l’emergere del fenomeno della disoccupazione, lo sviluppo di tale modo di produzione, fondato sull’accrescimento continuo del capitale e sulla diffusione delle macchine, instaura dinamiche tali da rendere strutturale e tendenzialmente crescente il pericolo della disoccupazione di massa.
Per tornare alla precarietà dell’uomo in questo inizio di millennio con il suo Covid, le guerre sparse in tutto il mondo e l’atroce realtà dei palestinesi nella Striscia di Gaza, mi sono rivolto agli scritti di due poeti della mia gioventù; Federico Garcia Lorca: Amore, morte e sensualità vengono fusi in "Pequeñovalsvienes", che può essere ritenuto il compimento che per eccellenza affronta la complessa molteplicità dello slancio vitale affettivo. Poi venne Giuseppe Ungaretti, che in sogno mi sussurrava:
“Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l’uomo a incontrarsi nel massacro.”
Negli scritti di Ungaretti, non vi è traccia di odio per il nemico, né per nessuno: c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. La guerra è un posto dove i giovani che non si conoscono e non si odiano, si uccidono, in base alle decisioni prese da vecchi conservati in naftalina che si conoscono e si odiano, ma non si uccidono fra di loro.
Gigino A Pellegrini & G elTarik