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Quando i potenti privilegiati sono comodamente stabili e sereni nelle loro convinzioni; quando la loro coscienza crea la nebbia necessaria ad avvolgere gli uomini oppressi e convincerli di essere creature inferiori, orgogliosi della loro condizione servile, in quel momento entrano in campo gli intellettuali, usignoli dei moderni re, a loro agio con sé stessi, essendo i loro maestri scrittori-ombra dei loro indifendibili discorsi politici.

Ascolterò il cambiogiggino pell

dei marosi e sarà

come la Morte

ingannata dagli astuti

ma infeliciPrepotenti

Questo, mentre contavo i passi del mio terrazzo a Beaumont sur Mer durante la notte di luna piena; mentre riaffioravano alla mente immagini un po’ sbiadite, del sottoscala del dipartimento di lingue romanze dove l’amico fraterno Zapata stava per raccontare la strana avventura dell’uomo che osò sfidare gli dèi, che osò sfidare la morte. Seduto al lungo tavolo di fronte a me notai lo sguardo perplesso del caro amico Peter Cole. Interruppi di contare i passi e rientrai.

Oggi l’espressione “fatica di Sisifo” è usata per indicare un lavoro inutile che, per l’appunto, richiede grande fatica senza raggiungere risultati. Eh già, perché la pena alla quale Sisifo era stato condannato negli Inferi era quella di spingere per l’eternità un enorme masso su il pendio di un monte, ma una volta arrivato in cima questo rotolava giù e doveva ricominciare daccapo; ciò non aveva mai fine.

Per lo scrittore franco-algerino Albert Camus, Sisifo rappresenta l’umanità che è sempre in «cammino» nonostante i suoi limiti, nonostante il macigno che ognuno di noi, tra le mille avversità della vita, continua malgrado tutto a spingere, contro tutto e tutti (anche gli stessi dèi), anche se il finale è già scritto, perché “la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”.

Per quanto vivace sia l’immaginazione degli aspiranti scommettitori politici, le prossime elezioni riserveranno sicuramente fenomeni a cui nessuno ha ancora pensato. Dato che ogni elezione amministrativa è sempre fonte di “onde gravitazionali” che verranno annunciate dai famosi Sparaballe di turno come onde salvifiche, e imitando Dalla canterà per le strade: “La televisione ha detto che queste nuove elezioni porteranno una trasformazione, tutti quanti stanno già aspettando.”

“Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
Ogni Cristo scenderà dalla croce
Anche gli uccelli faranno ritorno
Ci sarà da mangiare e luce tutto l'anno
Anche i muti potranno parlare
Mentre i sordi già lo fanno…”.

A chi scrive, piacerebbe guardare a Sisifo come l’essere umano, “troppo umano”, che lotta contro il suo destino, anche sapendo che non cambierà, perché è il lottare che nobilita l’uomo, è l’incessante forza che mette nella lotta che lo rende ‘divino’ più della divinità stessa. Perché dio o gli dèi non potranno mai capire l’immane lotta umana.

Gigino A Pellegrini & G elTarik addormentato

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blaSono sempre più convinto che mai come oggi serve sviluppare una vera e legittima coscienza di classe. Destrutturare il sistema dei poteri forti ed egemoni non può e non dovrà essere scisso dal destabilizzare il loro regime fatto di ricatti, false promesse e prepotenze.

Parlare a caso, senza considerare quel che si dica. Temere loqui. Dicesi anche: parlare in aria. Cioè: senza fondamento. Parlare a vanvera. Così scrive il poligrafo toscano, Francesco Serdonati, vissuto tra il XVI e il XVII secolo, alla lettera P dei suoi Proverbi. La presenza dell’espressione alla lettera P dei Proverbi di Serdonati è significativa poiché ci dice che, a quell’altezza cronologica, la locuzione avverbiale a vanvera veniva già percepita insieme al verbo parlare: “senza senso, a caso, senza fondamento, senza riflettere”.

Sulla provenienza di “parlare a vanvera” si sono fatte molte ipotesi. Alcuni studiosi, ad esempio, asseriscono che la radice di vanvera assomigli a quella di vano. Altri ritengono che la parola derivi dal "gioco della bambàra", una locuzione, forse di origine spagnola, con la quale s'intendeva una perdita di tempo. A rinforzare questa tesi c'è il fatto che in certe zone della Toscana si dica proprio "parlare a bambera".

Oggi gli etimologisti sono favorevoli a credere che parlare a vanvera sia una locuzione onomatopeica che deriva dal suono di chi parla farfugliando e dunque perde tempo senza riuscire a esprimere qualcosa di sensato. Inoltre si raccontano altre origini, più o meno fantasiose, della parola vanvera. Una di queste racconta la meravigliosa storia di una bambina di nome Vera Van, alla quale piaceva ascoltare tutto; a cinque anni chiese di andare a scuola per ascoltare le lezioni. La maestra le disse che si sarebbe annoiata ma Vera scosse la testa e fu iscritta. Quando la maestra faceva l’appello chiamava “Van Vera” e non Vera Van. A Vera piacque molto sentirsi chiamare così. Quando divenne adulta Vera divenne Uditrice Giudiziaria. Col tempo poi divenne vecchia e sorda e i suoi nipoti e pronipoti, che fino a quel momento le avevano raccontato i loro problemi, decisero di ricambiarle il favore. A turno andavano a trovarla e le raccontavano storie e discorsi senza senso.

O voi di Amantea nobili cittadini, patrocinanti di una buona causa, difendete con l’armi il mio diritto di “parlare a vanvera” sulla giustizia, sulle malefatte dei prepotenti, sulle falsità di parecchi amministratori che si sono succeduti negli anni. Voi, cittadini, sostenete ora con le vostre spade il diritto e la giusta causa di tutti e non dei pochi. Fate sì che rivivano nella vostra impresa quegli onori che furono dei nostri avi. Amanteani, amici, fidi seguaci del giusto, sostenitori del buon diritto, nessun di voi permetta che al seggio di primo cittadino a virtù consacrato ed a giustizia, a dignità e modestia di costumi, s’accosti il disonore, ma fate che da libera elezione rifulga il merito. Combattete urlando le parole attribuite secondo la tradizione a Marco Giunio Bruto nell’atto di uccidere Giulio Cesare: “ Sicsempertyrannis”. "Così sempre ai tiranni".

Gigino A Pellegrini & G elTarik

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1649595988373“Sono stato un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti”. Jean Paul Sartre.
Mentre il treno mi portava via dai luoghi della mia mia famiglia d’origine, il mio pensiero andò a ripescare nel mio passato.

Da piccolo mia madre mi insegnava ad essere  meno pauroso, ad avere più coraggio, facendomi saltare giù dalla scala di casa. M metteva sul secondo gradino della scala che portava all’appartamento di nonna, dicendomi: “Salta che ti prendo”. Sebbene fossi impaurito, avevo grande fiducia in mia madre e saltai. Quando saltai dal quinto gradino, mia madre non era più là a prendermi e caddi a faccia in giù.Mi uscì un po’ di sangue dal naso.

Mi sentii tradito e nell’alzarmi mamma mi disse di non fidarmi ciecamente di nessuno neanche di lei. Tradire la propria origine, la propria famiglia, il proprio padre, la propria madre, il proprio partner, significa innanzitutto superare i legami originari con quanto ci appartiene e avere il coraggio di comprendere il proprio desiderio di essere sé stessi.

Di fatto però, il significato attribuito al tradimento rinvia appunto a qualcosa che ha a che fare sia con una dimensione prettamente negativa, sia come forma di insegnamento.Tradire significa dunque, compiere un passaggio.Il tradimento proviene proprio da quei rapporti dove la fiducia primaria è possibile.

Noi ci sentiamo veramente traditi solo quando ci fidiamo veramente — da fratelli, amanti, mogli, mariti, e non da nemici o da estranei. Più grandi sono l'amore, la lealtà, l'impegno, l'abbandono, e maggiore è il tradimento. La fiducia ha in sé il germe del tradimento. 

Non si deve sapere prima che questa volta nessuno ci prenderà in fondo alla scala. Essere avvertiti significa essere premuniti e allora o non si salta più, oppure si salta a metà... ma poi succede che una volta, nonostante una promessa, la vita interviene, accade l'incidente e si cade a faccia in giù. 

Andarsene dalla casa materna è in qualche modo un atto di tradimento, anche se necessario.Non saremo presenti quando ci saràbisogno di noi, lasciamo cadere l'altro, tradiamo un sentimento, , e non spieghiamo ciò che abbiamo fatto. Queste possono apparire come delle brutalità- e noi le compiamo più o meno consciamente e dobbiamo essere responsabili e mantenerle, altrimenti l’anima immiserisce le nostre azioni, rendendole indifferenti e ambivalenti.

"Il sole incessante, le ore dedicate al sonno e alle vacanze, non invitavano più come prima alle feste dell’acqua e della carne; suonavano vuote, invece, nella città chiusa e silenziosa; avevano perduto il metallico splendore delle stagioni felici". Albert Camus  

Gigino A Pellegrini da solo

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