Se vi fermate all’ingresso del bosco potete ascoltare il silenzio della foresta arricchito dai suoi piccoli rumori, dalle sue piccole voci.
Lo stormire delle foglie, il cigolio dei rami piegati dal vento,
il fruscio di foglie secche sul suolo, il rumore di rami secchi, le foglie e le pigne che cadono a terra, il rumore di un uccello notturno che si alza in volo, il rumore degli scoiattoli, il ticchettio degli insetti che camminano sui tronchi.
E quando il bosco dorme in tutte le sue parti puoi sentire lo spessore del suo silenzio.
Un silenzio che ti turba, ti sconvolge.
Un silenzio che ti impedisce di sentire, di vivere il bosco.
Ma se decidi di camminarlo, allora tutto rivive.
Senti il fruscio delle foglie secche sotto i tuoi piedi, un fruscio che vive quando tu vivi, che si ferma quando ti fermi , come se tu fossi la sua voce e forse lo sei davvero.
Strano vero! Il bosco vive se tu lo fai vivere, muore se tu lo fai morire.
Similmente alle porte di una città, magari all’alba o poco prima, quando la gente dorme, le saracinesche dei negozi e dei bar, dei ristoranti, sono abbassate, i cani non abbaiano, le caffettiere ancora non sono sul fuoco a borbottare.
È ancora notte e la città dorme.
Non ci sono parole in giro per le strade, solo silenzio, pensieri, ricordi, forse idee notturne, quelle che poi di giorno ti sembrano illuminate.
Sei solo non ci sono altre persone a farti compagnia.
Sei solo non c’è musica o parole a farti compagnia.
Ma non sei totalmente solo, ti fanno compagnia i ricordi, le memorie .
Grazie alle quali la identità della città è sempre viva, palpabile, palese.
La vedi nelle mura dell’antico castello, almeno fino a che non cadranno.
La vedi nelle vecchie mura del centro storico, almeno fino a che le vecchie case non verranno giù, da sole o guidate dalla follia dell’uomo.
La vedi nei fantasmi delle ombre silenziose delle mogli dei pescatori che hanno lasciato i loro pargoli nelle calde coltri del letto matrimoniale vuoto e raggiungono la riva per attendere i coniugi che sono sulle barche con le lampare ancora accese, lì nel buio del mare infinito, nemmeno illuminato dalla luna già andata oltre l’orizzonte.
È una notte che ti frega se non fate sentire almeno la vostra voce, se non cantate dolcemente la fine della nenia che usate cantare quando addormentate l’ultimo vostro nato, il figlio del maltempo, che vi ha lasciato nel letto insieme al vostro amore, fosse anche solo a ricordare la vostra giovane età passata a guardarvi da lontano mentre andavate a prendere l’acqua alla vicina fontana seguite da colui che sarebbe stato poi il vostro amato sposo.
Una notte che ti frega se alzi gli occhi alle stelle che hanno visto ogni momento della tua vita, che conoscono tutti i tuoi segreti, tutte le tue gioie, tutti i tuoi dolori, quelle stelle da cui come fili d’argento scendono ricordi e memorie, i tuoi ricordi, le tue memorie.
Quelle stelle che hanno ascoltato le tue preghiere quando inginocchiata ti affidavi alla madonna perché salvasse il tuo uomo dal mare in tempesta.
Quelle stelle che hanno colto i vagiti dei bimbi di Amantea raccolti dalle mani delle indimenticate “Mammane”.
Come è bella questa città!
Come è indimenticabile!
Ma il silenzio è eccessivo; sembra che Amantea stia morendo.
Una città che forse sta morendo anche se è troppo orgogliosa per dichiararlo.
Strano vero! Amantea muore se insieme non la facciamo rivivere, muore solo se la facciamo morire.
Basta allora.
E’ ora di parlare, adesso anche il silenzio ha fatto il suo tempo.
Peppe Marchese