Forse, ancora una volta, non è il caso di piangere sterilmente, quanto piuttosto di ritentare, di nuovo, la ricerca delle cause del flagello che si abbatte sul nostro paese ogni qualvolta si rinnova l’amministrazione comunale.
Amare la propria terra è comunemente il sentimento più ancestrale e originario dell’umanità.
La terra in cui si è nati significa essere dotato di radici, linfa, storia, educazione, valori, cultura, affetti, relazioni, lavoro e sacrifici, lingua. È il terreno fertile su cui germoglia prima, cresce e fiorisce l’albero della vita, che può essere sradicato solo da uragani, dallo stesso uomo o dal taglio che lo recide. Ma anche in questi casi l’albero rivela le sue origini perché finisce col generare altri frutti il cui pregio deriva proprio dalla terra in cui è nato.
Non si potrebbe non amare la propria terra. Ed io, come molti amo questa terra e questo paese che mi ha visto andar via parecchi anni orsono. Da circa tre anni passo gran parte del tempo qui e ciò che pensavo impossibile si è materializzato davanti ai miei occhi e davanti alle mie orecchie: C’è gente e non è poca che non ama la propria terra.
Amano altre cose, aliene e alienanti, addirittura sporche. E a tanti, quasi a tutti, non resta che il sentimento drammatico, quando non tragico, di quell’inesauribile amore, la disperazione di amare, di voler restare, ma di voler nello stesso tempo fuggire: “Fujitivinni”! gridava, un giorno di tanti anni fa in piazza Commercio quello che da lì a poco sarebbe diventato il sindaco democristiano di Amantea. “Fujitivinni!”, gridava ai giovani come me che andavano per le strade a cantare l’Internazionale comunista. E di Amantea e del Sud, di nuovo oggi, si ricomincia a sentire quel lontano grido che invoglia le nuove generazioni ad andarsene da queste antiche mura e da questo mare che ha visto l’Eroe di Itaca navigare, come racconta il divino Omero.
Non molto tempo fa, leggendo distrattamente Repubblica, dalla rubrica di Corrado Augias, lo stesso giornalista e autore televisivo, rispondendo a dei lettori, proprio sul degrado meridionale, scriveva: “Il capolinea non esiste, il fondo non si tocca mai. Si continua a scendere. Pochi giorni fa, quasi nel centro di Napoli, la polizia che cercava di arrestare due rapinatori è stata assaltata dalla folla. E’ l’ennesimo episodio, destinato a ripetersi, di una Napoli dove il concetto di legalità è stato accantonato. E non da oggi”.
Sembra, allora, pressoché inutile che dai vari pulpiti si critichi il malgoverno di Amantea e degli altri paesi calabresi e si denuncino gli atti che rasentano l’illegalità. Sembra inutile, allora, nutrire desideri e lottare. Una amica di mia figlia questa estate appena passata mi chiedeva un giorno il perché di tanto degrado, di tanta immondizia, di tanta incapacità delle persone di migliorare la propria terra, poi tante di queste stesse persone, emigrando, divenivano grandi professionisti e uomini illustri.
Già, perché? Credo che proprio in questa domanda si annida il “segreto di Pulcinella” di una concreta risposta. Ma penso sia necessario porsi almeno altre due domande, e cioè: cos’è una società moderna? E che cosa ha impedito a questo paese di evolversi? Una breve analisi, breve per necessità di spazio e perché si fa conto che tutti conoscano la nostra storia, potrà forse rintracciare delle risposte plausibili, e forse anche offrire delle ipotesi di soluzione. Soluzioni semplici come accendere le luci sotto i passi ferroviari che immettono sul degradato lungomare che dopo le cinque di sera resta al buio, mi dicono per esigenze di risparmio energetico e per rientrare dagli ultimi incrementi di salario della Giunta Amministrativa e dalle spese degli appena assunti nuovi consulenti, che non permettono di vedere, quando cala la sera, le opere pittoriche rappresentate sulle pareti dei sottopassi ferroviari. Scrivo di queste apparentemente “sciocchezze” forse per evitare di capire veramente ciò che non ha consentito, e in gran parte non consente neanche oggi, la nascita di una classe dirigente meno mariuola .
E si sa che quando manca una simile classe, contestualmente viene a mancare una forma di benessere diffusa e non egoisticamente truffaldina e prepotente. Una tale situazione ha riproposto negli ultimi 40 anni una classe politica di tipo impiegatizio e faccendiera, incapace di pensare a modelli sociali e di sviluppo che non siano, appunto, impiegatizi e faccendieri.
Tant’è che non è per niente vero che nel Sud non esista lo Stato o che lo Stato sia latitante. Al contrario, vi è fin troppo Stato: basta guardare ai pletorici, burocratici, dispendiosi, mal funzionanti e inutili organigrammi di tutto il Sud e dei suoi enti locali. Lo Stato nel Sud è il datore di lavoro, sia nelle sue espressioni politiche, sia, e soprattutto, in quelle amministrative. Quello che ci conviene mettere in atto , a noi cittadini, è organizzare una colletta, di quelle che si vedono fare nelle chiese cattoliche, per pagare l’elettricità e accendete le luci in questo e su questo paese che ne ha un urgente bisogno.
Gigino Adriano Pellegrini & G el Tarik